Ivan Carozzi
L'India da tempo non è più il rifugio mistico in cui gli occidentali medicano le proprie ferite esistenziali, e forse non lo è mai stato. Il momento è propizio per fare i conti con un paese che non abbiamo mai davvero fatto lo sforzo di comprendere.
Da mesi viviamo in uno stato di asfissia. La crisi dell’Unione Europea, il tappeto di macerie di Gaza e l’incubo americano producono un effetto ipnotico e paralizzante. Il libro di Matteo Miavaldi, Un’altra idea dell’india. Viaggio nelle pieghe del subcontinente (ADD editore), ci restituisce se non altro il piacere di spostare lo sguardo e immergerci in una realtà culturale e geopolitica distante dal nostro ordinario cono di attenzione. Il paesaggio tratteggiato dall’autore prende vita da elementi molto diversi tra loro, dallo yoga e dall’hippie trail fino ai nuovi padroni della politica e dell’economia indiani. A pagina 100 Miavaldi torna sul rapporto d’amore tra George Harrison e l’India, a partire dal primo, indimenticabile viaggio in compagnia del suo maestro di sitar, Ravi Shankar, nel 1966. Si chiama “guru-shishya parampara” il sistema che da secoli regola la trasmissione del sapere da maestro ad allievo. “Insieme”, scrive Miavaldi, “visitano le caverne di Ellora, nello Stato del Maharashtra, con complessi templari rupestri e dipinti risalenti al V secolo dell’era volgare”. George e Ravi se ne vanno a spasso per sei settimane, incrociano i sadhu e le pire di cadaveri che bruciano sulle rive del Gange. Ad Harrison, libero dall’obbligo di essere un Beatle e una star, sembrerà di aver fatto un lungo balzo indietro nel tempo, fino al 5000 A.C. Quanti profumi e visioni offre questo carosello d’immagini.
Attenzione, però. Il libro di Miavaldi, giornalista specializzato in Asia (China Files, Il Manifesto e Altri Orienti-Chora Media), non offre consolazioni a buon mercato. L’India non è più quel pentolone odoroso e ribollente di misticismo, capace di stordire e medicare le ferite degli occidentali. forse non lo è mai stato. Tra gli obiettivi di queste pagine c’è anche la demistificazione di una lunga catena di luoghi comuni, per provare a dare spazio, appunto, a un’altra idea di India.
Il saggio di Miavaldi inizia da un episodio: un pranzo in un ristorante di Varanasi, di quelli con il menù lungo tre pagine. Dopo aver abitato a lungo a New Delhi, oltre che in Bengala e a Pechino, Miavaldi è al suo secondo giro di giostra in India. Fuori ci sono la bellezza di 48 gradi. Sui social indiani circola un meme dove un gruppo di ragazzini siede intorno a un blocco di ghiaccio, come se fosse il fuoco di un falò. Miavaldi è in compagnia di un amico, un signore di ottant’anni, arrivato dal Nordamerica ormai una vita fa, all’inizio degli anni Settanta, quando, come tanti altri occidentali, aveva deciso di tagliare i ponti con la famiglia e il proprio paese di origine, con tanto di documenti e carta d’identità dati alle fiamme, com’era usanza tra gli expat dell’epoca. Questo signore è un baba, un santone. Si chiama Gautama Baba e sfoggia un paio di grossi dreadlocks. Gautama, come capita spesso agli umani di una certa età, rimpiange l’India di un tempo, quella che aveva conosciuto lui, quella di cui si era innamorato. “Questi stanno ammazzando l’India”. Questi chi? Gautama ce l’ha, ovviamente, con il Partito del Popolo Indiano e con Narendra Modi, il leader della destra nazionalista hindu, buon amico di Trump e venerato dai suoi sostenitori come una specie di semidio. Date un’occhiata al video dove Modi accarezza le mucche in mezzo a un prato, pubblicato lo scorso anno sul suo canale ufficiale. Come Trump, Modi attribuisce una certa importanza ai toponimi, tanto che tempo fa aveva perfino proposto di cambiare nome all’India, ripristinando la vecchia denominazione: Bharat, terra dei Bharata, uno dei primi popoli vedici che dalla valle dell’Indo s’insediarono nella pianura del Gange fra il 1800 e il 1200 a.C. Per tre volte di fila, Modi è stato eletto a capo del governo. Un record, eguagliato solo da Jawaharlal Nehru, uno dei padri della patria indiana.
Oggi l’India è la quinta economia mondiale, la prima per crescita del pil, ma anche la nazione con l’aria più inquinata di tutto il pianeta. È un paese molto cambiato rispetto a quello conosciuto dal giovane Gautama Baba, anche se, scrive Miavaldi, lo sguardo occidentale sull’India è sempre stato deformato da una prospettiva orientalista, fin troppo incline a facili innamoramenti. Per conoscere il presente e il passato di questa impressionante superpotenza demografica (1,438 miliardi di indiani, quasi una persona su cinque, nel mondo, vive in India), occorre metterne meglio a fuoco la vasta, multiforme e contraddittoria natura.
Nella prima parte del testo, Miavaldi modella un affascinante e onesto ritratto del più grande simbolo della recente storia indiana, il mahatma Gandhi, prima giovane avvocato, poi guru, leader politico e padre della nonviolenza. Gandhi seppe elaborare una proposta per l’indipendenza dell’India nel segno della laicità, dell’inclusione e dell’unità tra le diverse anime del paese. Fu capace di trovare ascolto tanto tra la sua gente, gli hindu, quanto tra i musulmani, i sikh e i cristiani. Gandhi, come noto, verrà ucciso nel 1948 da un militante di estrema destra, un certo Nathuram Godse, membro di una formazione paramilitare ultrainduista e del partito nazionalista induista Hindu Mahasabha. “Come ogni mito però”, scrive Miavaldi, “anche quello di Gandhi è stato costruito ex post, selezionando con cura gli aspetti e le vicende da tramandare con orgoglio ai posteri”.
Il Gandhi che tutti abbiamo imparato a conoscere e apprezzare è quello pop, la cui matrice si può trovare nel film “Gandhi”, il kolossal da tre ore e rotte che Richard Attenborough girò nel 1982 e che valse all’attore protagonista, Ben Kingsley, il premio oscar. Il Gandhi di Attenborough è un leader saggio e mansueto, un apologeta della vita rurale. Vive in un ashram in Gudjarat, del quale però il regista dimentica di ricordare, scrive Miavaldi, il finanziatore, ovvero un ricco imprenditore, Ghanshyam Das Birla, che foraggiò l’utopia lenta e contadina di Gandhi con i soldi provenienti dagli affari nell’industria chimica e dallo sfruttamento di manodopera sottopagata nel business della juta e del cotone. Del Gandhi in carne e ossa, Attenborough scelse di non mettere in luce gli aspetti della vita sessuale più contorti e ambigui (Gandhi dormiva accanto alle nipoti per mettere alla prova i suoi propositi di astensione dal sesso). Attenborough preferì soprassedere anche sulle posizioni oscurantiste di Gandhi sul sistema delle caste, in opposizione a quelle espresse, nello stesso periodo, da una figura illuminata come il giurista e ministro della Giustizia B.R. Ambedkar.
Miavaldi ricostruisce per il lettore italiano anche i legami e i tentacoli di quella che oggi chiameremmo un’internazionale nera. Esisteva già all’epoca di Gandhi ed era composta di bellicosi nazionalisti, capaci di stringere rapporti e alleanze tra un continente e l’altro. Dalla lontana India, si guardava con interesse al fascismo e al nostro Dio, patria e famiglia. Si guardava con ammirazione al nazismo e alla famigliare svastica, il simbolo che il terzo Reich aveva preso in prestito dalla tradizione indoeuropea. L’assassino di Gandhi, Nathuram Godse, faceva parte di quel mondo e negli anni molti hindu, magari senza sbandierarlo, continuarono a pensare che tra i due il vero patriota non fosse Gandhi, ma il suo boia. Oggi le cose sono cambiate, nel senso che Nathuram Godse è stato quasi del tutto riabilitato. Il partito di Modi, del resto, venne fondato nel 1980 da due membri della Rashtriya Swayamsevak Sangh, la formazione paramilitare ultrainduista nella quale Nathuram Godse aveva militato. Il cerchio, insomma, è chiuso.
Ma come ha ottenuto Narandra Modi tanto consenso? Attraverso le alleanze con i nuovi ricchi e il capitale, ma anche con un uso molto astuto dei simboli e grazie a quella che Gramsci definiva egemonia culturale e oggi chiamiamo soft power. Il prodotto di maggior successo dell’India oggi è lo yoga. La pratica e la cultura dello yoga iniziano a penetrare in occidente grazie a un articolo pubblicato su Life nel 1953. Lo yoga mano a mano si diffonde, ma solo negli ultimi anni, con la pandemia e il successo virale degli yoga influencer, diventa un fenomeno di massa, planetario. Modi naturalmente ne approfitta, trasformando la disciplina in uno strumento a servizio della propaganda, anche in politica interna, grazie al coinvolgimento di figure note come Baba Ramdev, un maestro di yoga diventato una star sulle tv indiane.
“Ma come ha ottenuto Narandra Modi tanto consenso? Attraverso le alleanze con i nuovi ricchi e il capitale, ma anche con un uso molto astuto dei simboli e grazie a quella che Gramsci definiva egemonia culturale e oggi chiamiamo soft power”.
La storia di Ramdev non è niente male. Fino al 2003 era un perfetto sconosciuto. Viveva in una piccola città sacra sulle rive del Gange, dove venne scoperto da un certo Madhav Kant Mishra, fondatore di Aastha tv, che ne restò folgorato: “Ramdev lo conquista quando, in piedi di fronte al pubblico, si piega leggermente in avanti, appoggia entrambe le mani sulle cosce e ritrae completamente i muscoli dell’addome. Poi, in apnea, inizia a farli ondeggiare in senso orario e antiorario, creando un effetto ottico tipo serpentina che secondo Mishra farà faville in televisione”. Nel giro di qualche anno Ramdev si trasforma in un testimonial di prodotti alimentari e di medicina ayurvedica, con tanto di negozi monomarca aperti insieme a un socio in tutta l’India. Parallelamente diventa un volto della destra nazionalista hindu, mentre lo yoga viene sempre più apprezzato in quanto espressione dell’India più autentica. E così “In televisione e in pubblico”, scrive Miavaldi, “Ramdev invita apertamente tutti i suoi adepti a votare per «l’amico Modi»”.
Gli occidentali ancora convinti che lo yoga sia una pratica appannaggio del progressismo, evidentemente si sbagliano. Fu Modi nel 2014 a convincere l’assemblea generale dell’ONU a istituire una giornata internazionale dello Yoga, che ora cade il 21 giugno di ogni anno. Modi e una folla immensa festeggiarono con una sessione collettiva di yoga, uno spettacolo mai visto, maestoso: “[…] vestito completamente di bianco, con uno scialle dei colori della bandiera indiana attorno al collo […] su un tappetino da yoga verde acqua in mezzo a Rajpath, il viale alberato che collega il monumento dell’India Gate alla residenza presidenziale Rashtrapati Bhavan […] Dietro di lui, trentacinquemila persone sono ordinatamente disposte a scacchiera lungo tutto il viale, pronte a infrangere il Guinness dei primati per la sessione di yoga più partecipata di sempre”. Il video della grandiosa performance spopolò su internet, per la gioia di Modi e dei suoi colleghi di partito. Gautama Baba, il vecchio amico nordamericano di Miavaldi, detesta Modi e rimpiange l’India della sua giovinezza. Al tempo stesso Modi e la destra hanno fatto del ritorno a un’India più autentica la propria bandiera. Chi dei due ha ragione?
La distribuzione della ricchezza mostra caratteristiche analoghe a quelle emerse in altri paesi negli ultimi due decenni. L’economia è in forte espansione e come altrove crescono fortune favolose accompagnate da esibizioni di lusso sfrenato, mentre la stragrande maggioranza della popolazione resta al palo. Un rapporto, pubblicato nel 2024 dal World Inequality Lab, racconta che l’1% più ricco della popolazione indiana controlla più del 40% per cento della ricchezza nazionale, mentre la metà più povera dell’India ne controlla poco più del 6%. “Sono livelli di disparità mai raggiunti nella storia dell’India indipendente”, conclude Miavaldi, “e addirittura peggiori dell’epoca del Raj britannico”. Questa è l’India di oggi, nell’era del populismo globale.
A Miavaldi ogni tanto capita d’incrociare dei turisti italiani. Spesso hanno con sé dei libri. Sono il Siddhartha di Hermann Hesse, L’odore dell’India di Pier Paolo Pasolini, La città della gioia di Dominique Lapierre o Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani. In caso di partenza per l’India, quello di Miavaldi è un altro libro da mettere nello zaino.
Ivan Carozzi
Ivan Carozzi è scrittore e autore. È stato caporedattore di «Linus» e ha scritto per la televisione, per la radio e realizzato podcast. I suoi ultimi libri sono Fine lavoro mai (Eris, 2022) e, assieme a Enrico Deaglio, i primi due volumi del progetto C’era una volta in Italia (Feltrinelli, 2023).
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