Di "Nella carne" stanno parlando tutti. Vincitore del Booker prize con motivazioni stellari, ora è in mano ai lettori italiani che lo stanno amando. Francesco Pacifico ha incontrato il suo autore, David Szalay, in occasione di UmbriaLibri. Hanno parlato di letteratura e mascolinità, e soprattutto dell'importanza della dimensione corporale dell'esistenza.
Nella carne (Adelphi) di David Szalay ha vinto l’ultimo Booker Prize. Questa è la mia conversazione con David Szalay registrata in un incontro pubblico a Terni, il 29 novembre, per Umbria Libri.
Io e Nicola Lagioia abbiamo amato entrambi questo libro e abbiamo deciso di trascriverla qui per lasciare una traccia. Di solito, nelle introduzioni si danno informazioni sul libro di cui si parla, ma non lo farò perché in questo evento ho provato a trattenere le informazioni sul romanzo e parlare con Szalay di come l’ha scritto. Il motivo è che Nella carne è stato assorbito nel discorso dei maschi che scrivono di maschi (in fondo, io sono stato invitato a presentarlo per questa ragione, perché recentemente ho scritto di maschi), ma è soprattutto un romanzo ingegnoso, che arriva a dire delle cose molto sottili sulla mascolinità, sul flusso di una vita, e su cosa voglia dire raccontare.
Nelle presentazioni abbiamo l’abitudine di parlare poco di letteratura e molto di Temi e di Sentimenti, così ogni incontro diventa una versione dal vivo di quel che cerchiamo scrollando i nostri feed: temi e sentimenti, titoli corti e squillanti con le notizie e facce che ridono e piangono. L’occasione mi sembrava perfetta per tentare un’altra strada.
Francesco Pacifico
Vorrei che chi non ha letto questo libro lo amasse, e per amare questo libro bisogna leggerlo come l’ho letto io: senza saperne nulla. Sarà difficile fare un incontro di un’ora senza parlare del libro. Però secondo me è una cosa importante, e anche un buon modo per fare una prima domanda a David sulla sua scrittura, sulla sua tecnica, sulla sua poetica. Questo è un libro che mi ha dato un piacere immenso. Sarà capitato anche voi, ultimamente, di non riuscire più a concentrarvi sui romanzi, perché abbiamo il telefono, le notifiche eccetera. Questo libro usa un’antica strategia narrativa… che è non rivelare tutto continuamente.
Per farlo usa due tecniche, fondamentalmente. Una è l’ellissi. Fa dei grandi salti, atterra più avanti nella storia di, il protagonista, e ci chiede di riempire da soli quello che non ci ha raccontato. È uno dei trucchi migliori – sapendolo usare – per far correre l’immaginazione di chi legge. Quindi io sono stato molto più del solito lontano dal telefono mentre leggevo questo libro perché ero troppo impegnato a capire cosa mi stava raccontando senza dirmelo. Non stavo aspettando che mi imboccasse la storia, come fanno ultimamente le serie tv sulle piattaforme, che hanno quelle sceneggiature che ti dicono tutto.
E la seconda tecnica è un po’ un riflesso della prima, nel senso che anche dentro la pagina, dentro la singola scena, non ci vengono spiegate più di tanto le motivazioni dell’eroe, che prendiamo da adolescente e lasciamo nella mezza età. Nella pagina non ci viene spiegata in maniera troppo scoperta perché dice certe cose, cosa pensa, e questa cosa ci costringe, riga dopo riga, a ricostruire in noi il romanzo. Nella carne è un romanzo che ti chiede di riscrivere il romanzo.
Naturalmente se io adesso vi dicessi in un minuto tutta la trama voi non potreste fare questo lavoro.
Per questo vorrei iniziare chiedendo a David: come sei arrivato a questo equilibrio tra quello che dici e quello che non dici? Nel libro precedente, Tutto quello che è un uomo (uscito poco prima del metoo) eri un po’ più esplicito nel raccontare le motivazioni dell’azione. Come sei arrivato a questo nuovo livello di spazio, di aria da lasciare a chi legge?
David Szalay
Il libro che ho scritto prima di questo è Turbolenze, una raccolta di racconti molto brevi scritti in origine per BBC Radio, e ogni racconto doveva rientrare in uno slot radio di quindici-venti minuti, e doveva essere lungo duemila parole, né più né meno, e quindi lavorando così mi è venuta l’abitudine di lasciare, tagliare, rimuovere qualunque cosa fosse anche solo minimamente inessenziale. E penso che l’abitudine che ho preso facendo quel libro mi sia rimasta anche mentre scrivevo questo.
Quindi ho continuato a usare questo senso di estrema concisione, economia di mezzi, ma disteso su una tavolozza molto più ampia, se vogliamo. Sono contento che tu abbia detto che hai visto lo stesso tipo di economia sia nella struttura – nel modo in cui lascia fuori parti enormi della vita del personaggio e si concentra su pochi sprazzi, che devono portare il peso di tutta la storia e spero ci riescano – sia nel contesto di ogni capitolo: ogni capitolo è costruito usando solo le informazioni più necessarie, e diciamo che è quasi una maniera poetica di lavorare, perché è la poesia che è caratterizzata da quel tipo di concisione estrema.
Pacifico
E allora cosa possiamo raccontare di questo libro? Prima di cominciare, con David abbiamo fatto un patto poetico: non raccontare troppo il libro. Allora vorrei sapere da te, cosa possiamo dire? Sicuramente ci racconterai il primo capitolo, e poi cercheremo di capire come andare avanti senza rovinare la cosa che in questo momento è la più importante per la letteratura, che è appunto il piacere.
Szalay
Certo. Allora: nel primo capitolo conosciamo il protagonista, Istvàn, che ha quindici anni, si è appena trasferito in una nuova città con sua madre, il padre è assente, non sappiamo davvero perché… È un ragazzo solitario, isolato, e si ritrova in una relazione – una relazione sessuale – con una donna molto più grande di lui, che vive nel palazzo, e questa relazione attraversa diverse trasformazioni sorprendenti e intense. La relazione finisce con un incidente violento, catastrofico. E qualcuno muore. E questa morte condiziona profondamente la vita di Istvàn, a livello narrativo: viene incolpato di questa morte e passa del tempo in un carcere minorile e la traiettoria della sua vita ne viene condizionata in maniera enorme. Poi nei capitoli successivi cerca lavoro con scarso successo. Si arruola nell’esercito, questo credo che possiamo dirlo. Serve nella guerra in Iraq. Fa un’esperienza traumatica anche in Iraq, dopodiché va a vivere a Londra a cercare fortuna, mettiamola così, e qui direi che possiamo smettere di dare informazioni… [Ridiamo]
Pacifico
Non avevo letto bandella e apparati dell’edizione Adelphi, perché quando ho letto le prime righe, ricordandomi anche di Tutto quello che è un uomo, ho sentito che era uno di quei libri da leggere essendone all’oscuro. Sentire riassunta la trama in un minuto dal suo autore mi fa molto strano. È strano perché in questo libro le varie fasi della vita di Istvàn si susseguono in una maniera così organica – si avverte il flusso nonostante le grandi ellissi, le parti non raccontate – che sentirla riassunta è quasi come vedere una lapide. Una lapide non ci sembra il racconto di una vita.
Quando leggi il primo capitolo tu vedi questo ragazzo che viene coinvolto in questa relazione abbastanza impropria, e sei così colpito da questa storia che pensi che tutto il libro parlerà di questa cosa. Perché questo libro si chiama Nella carne, e in originale Flesh, e quindi, se iniziamo da un adolescente che è alle prese con una persona adulta, che quindi lo può condurre in un gioco che non capiamo quanto sia malsano o meno, la premessa è così forte che Nella carne, pensiamo, parlerà fondamentalmente soltanto di sesso. Io ero sicuro che fosse un libro porno. Un po’ pensoso, però un libro porno. Capite? Invece poi salta su così tanti altri piani della vita che, appunto, il riassunto di David mi ha un po’ choccato. E a questo punto ti chiederei: il titolo, Carne, in che modo salta da una stagione all’altra della vita di István, uscendo dalla questione propriamente sessuale – o se vuoi di sesso e morte, no? – e inizia a toccare tutti gli altri aspetti della vita?
Szalay
Avevo messo in chiaro fin dall’inizio, tra me e me, che volevo scrivere un libro che parlasse della vita non solo come esperienza fisica, perché ovviamente la vita non è solo un’esperienza fisica, ma volevo che il libro ponesse la corporalità in una posizione centrale nel quadro della vita. Volevo che la corporalità dell’esistenza fosse il punto di partenza, il fondamento su cui posare le altre cose, la prima cosa da cui seguivano tutte le altre. E il motivo per cui volevo farlo è che credo che la corporalità sia la base della nostra esistenza. Quindi il primo capitolo, su questo adolescente e della sua relazione con una donna molto più grande, ruota intorno a queste esperienze fisiche, sessuali, ma poi verso la fine del capitolo la sua relazione con questa donna diventa qualcosa di più, rispetto all’esperienza fisica; ma lui è una persona ancora molto ingenua, molto innocente, e allora fraintende la situazione. Poi c’è l’incidente violento, perché la violenza pure è parte della corporalità dell’esperienza. E qualcuno muore, e cosa può esserci di più fisico della morte? A questo punto, ecco, queste cose continuano nel resto del libro, e il libro è strutturato intorno a una serie di snodi narrativi che hanno molto a che fare con la corporalità. Tutti hanno a che vedere con qualche fatto molto forte e molto fisico, che sia un atto di violenza o qualcosa di sessuale o la nascita di un bambino. Anche questa cosa, essenzialmente, è un’esperienza totalmente fisica. Insomma, sì, il titolo, Flesh, Carne, mi è sembrato la parola che potesse raccogliere e tenere insieme questa corporalità, e mettere la corporalità della vita in primo piano. E poi in inglese la parola flesh ha una sorta di leggera… C’è stata qualche esitazione a usarla come titolo inglese, perché ha qualcosa di volgare, di osceno. Non è elegante, non è letteraria. Ma alla fine abbiamo deciso che proprio per questo andava bene, diceva qualcosa di importante su questo libro.
Pacifico
Tornando alla questione di questa trama tutta fatta di buchi, volevo capire una cosa. L’hai sviluppata a partire da queste premesse sulla carne, e hai scritto inventandoti la storia man mano che andavi avanti; oppure avevi un disegno generale e poi hai riempito le varie parti? Lo dico perché, in qualche modo, a seconda della risposta, David mi susciterà un diverso tipo di ammirazione. Perché se c’è un disegno in questa storia, allora è veramente nascosto, nel senso che la storia la si legge come se veramente succedesse, non sembra esserci nessuna premeditazione, è sorprendente in tantissimi punti, come purtroppo spesso è la vita, è dunque questo sarebbe un tipo di ammirazione. Se invece se l’è inventata andando avanti, un pezzo alla volta, l’ammirazione sarebbe per il fatto che si è inventato quella storia un pezzetto alla volta. Come te la sei inventata?
“Avevo messo in chiaro fin dall’inizio, tra me e me, che volevo scrivere un libro che parlasse della vita non solo come esperienza fisica, perché ovviamente la vita non è solo un’esperienza fisica, ma volevo che il libro ponesse la corporalità in una posizione centrale nel quadro della vita. Volevo che la corporalità dell’esistenza fosse il punto di partenza, il fondamento su cui posare le altre cose, la prima cosa da cui seguivano tutte le altre”.
Szalay
Sono molto contento che dici che l’intreccio non sembra troppo elaborato, o artificiale. La parola intreccio – plot – quasi sembra sbagliata, perché la sensazione è più che ci sia una vita nel suo svolgimento, ed era la mia intenzione che risultasse così. Avevo un’idea vaga delle cose che dovevano succedere più o meno, dall’inizio alla fine. Per me è molto importante scrivere sapendo grossomodo come finirà la storia. Questo c’è stato da subito. Ma d’altra parte volevo pure che la storia desse la sensazione di scorrere per le varie pressioni che spingevano in direzioni diverse il personaggio, ma non con un intreccio pensato artificiosamente.
Quanto ai buchi e alle ellissi tra i capitoli, diciamo che sapendo più o meno cosa doveva succedere, come finivo un capitolo mi mettevo a pensare a cosa avrei trovato grossomodo nel capitolo dopo, e aspettavo che mi venisse in mente una scena, o un fatto, o una situazione che mi suscitassero abbastanza interesse da volerne scrivere.
Faccio un esempio: il terzo capitolo parla della sua esperienza nella guerra in Iraq, e sapevo, finito il capitolo prima, che di questo avrebbe parlato il terzo. Ma non sapevo davvero come entrarci, come cominciare. Facendo ricerche ho scoperto che i soldati di quella guerra entravano e uscivano dall’Iraq attraverso il Kuwait. Volavano in Kuwait ed entravano in Iraq via terra. Al ritorno, stessa cosa, al contrario. E questa cosa ha agganciato la mia immaginazione. Che il processo di tornare a casa prevedesse questo tempo perso a non far niente in qualche albergaccio in Kuwait aspettando il volo di ritorno – questa cosa mi ha preso, mi ha indicato una via per entrare nel capitolo. Entriamo da lì, poi l’esperienza in Iraq può trapelare gradualmente nella storia. Per tutto il libro la questione è stata sempre trovare qualcosa che attirasse la mia immaginazione, ogni nuovo capitolo si sviluppava da lì.
Pacifico
Come forse qualcuno di voi avrà notato, ho cercato di fare in modo che per la maggioranza del tempo di questa conversazione si parlasse di letteratura. È una cosa a cui tengo moltissimo, in particolare quando parlo di libri che mi piacciono, perché ho la sensazione che negli ultimi anni, in tutto il mondo degli eventi e delle presentazioni, è come se la letteratura si fosse sostituita alla religione: si cerca subito di andare all’argomento, al grande tema, e non si parla mai di letteratura. In questo caso l’argomento sono gli uomini – Signora mia cosa dobbiamo fare con questi uomini? – e quindi se avessimo fatto come facciamo di solito le presentazioni ci saremmo messi a dire cose di buon senso, o di buon senso percepito, su cosa sono gli uomini. Adesso lo faremo… in qualche modo è inevitabile, però volevo prima sentir parlare David di letteratura, perché avendo letto questo libro e l’altro ero veramente curioso di sapere la sua tecnica. Io penso che sia interessantissimo sentire da chi ha scritto un libro, per esempio, Quando ho scoperto che si tornava in Europa dall’Iraq passando per il Kuwait mi è venuta voglia di scrivere di quegli albergacci scalcagnati dove questi soldati si annoiano e organizzano – aggiungo io – la serata pazza appena tornano a casa. Penso sia affascinante sentirlo raccontare.
Vediamo come possiamo iniziare a parlare dell’argomento di cui immagino qualunque pezzo di costume e di letteratura avrà parlato raccontando questo libro: cioè il fatto di raccontare i maschi, di raccontare la vita esemplare di un uomo molto normale, fondamentalmente. È così normale che non posso neanche parlare di un anti-eroe. Allora. Qualcuno potrebbe dire: è un maschio tossico? Non è un maschio tossico? La cosa che mi affascina di più di questo libro è che non si può rispondere a questa domanda. Questo libro ci porta in un territorio letterario dove si selezionano le frequenze della sensibilità umana in maniera talmente sottile e profonda che usciamo completamente dall’attualità, dal dibattito in corso. E magari, se torniamo all’attualità, ci torniamo rigenerati dopo questo libro, perché l’annosa questione degli ultimi dieci anni – Maschio tossico o non maschio tossico – la riaffronteremo con uno sguardo più fresco e profondo perché abbiamo letto un libro dove la questione è raccontata diversamente. Quindi io ti chiedo, come sei arrivato a costruire un romanzo dove noi non ci chiediamo, mentre leggiamo, se quest’uomo è giusto o quest’uomo è sbagliato, ma riusciamo, nonostante come si sia parlato di mascolinità in questi anni, ad appassionarci completamente alla storia di un uomo?
Szalay
Sì, certo, ovviamente la reazione a questo libro è stata tutta sulla questione della mascolinità, e tutta quell’area. Devo dire che mentre scrivevo il libro non era la prima cosa che avevo in testa, non pensavo che il libro parlasse innanzitutto di quello. Ho cercato di fare attenzione, almeno spero, di non scrivere espressamente per partecipare a quella discussione. Non volevo che il libro apparisse…
Pacifico
Topico?
Szalay
Topico in quel senso, per diventare un mio contributo alla discussione sulla mascolinità. È inevitabile che in parte finisca col diventarlo, perché è un libro molto contemporaneo, con un protagonista maschile che si comporta a volte in maniera discutibile. Quindi non dico che non sia valido parlare del libro in quei termini, ma non è stata la mia intenzione principale. Detto ciò, c’è una questione interessante, sul senso della mascolinità del protagonista. E la parola masculinity compare solo una volta in tutto il romanzo: la usa un altro personaggio, che descrivendo dice che rappresenta una forma primitiva di mascolinità…
Pacifico
E viene detto in termini un po’ classisti, in quel passaggio…
Szalay
Sì, certo, c’è anche quell’aspetto. Ma l’avevo usato altre volte, nel libro, e l’ho tolto dalla versione finale, per scoraggiare un discorso in quei termini. Ho lasciato quel solo uso perché mi pareva interessante il fatto di non sapere, io che lo stavo scrivendo, se il protagonista rappresentasse davvero una forma primitiva di mascolinità oppure no. Ed è stata proprio quella mia difficoltà a trarre una qualunque conclusione su questa cosa a far sì che valesse la pena lasciare quell’occorrenza.
Come hai detto tu, c’è anche un contesto per quest’uso, la parola è usata come una sorta di insulto, di attacco al personaggio…
Parlando di mascolinità in astratto, ho trovato interessante il fatto che non sono riuscito a sciogliere quella questione. E credo che il libro, quanto al suo contributo al dibattito, se dev’esserci, abbia molte sfumature.
Pacifico
Vorrei sentire un tuo parere su una teoria che ho sul tuo libro. Ha sempre a che fare col tuo stile e la tua poetica.
Ho la sensazione che István sia un uomo che non razionalizza la propria esistenza. Io frequento nella vita molte femministe attiviste e da loro ho imparato che una delle cose che dà più fastidio degli uomini è un’incapacità di stare nel presente, nella situazione. Lo diceva anche Virginia Woolf: Clarissa Dalloway prende molto in giro gli uomini della sua vita – amori, marito, gente della scena politica – per l’incapacità di stare in una situazione, parlare, sentirsi, discutere, ricordare il passato insieme, e gli uomini in Mrs Dalloway risultano ridicoli in quei momenti perché non riescono a viverli. Uno dei modi per non stare nel mondo è razionalizzare continuamente il proprio senso nel mondo. Faccio questo perché ho fatto quest’altro. C’è tutta una coerenza in quello che faccio. Io sono coerente e non posso essere accusato di essere incoerente. Se ci pensiamo, l’incoerenza è proprio il peccato che l’uomo non vuole commettere. Però siccome la vita è caotica e l’essere umano è irrazionale, noi ci troviamo spesso nell’incoerenza e allora la asfaltiamo con delle nostre letture, narrazioni della nostra vita che spiegano tutto. Io su questo sono abbastanza persuaso dell’opinione femminista, penso sia la sfortuna e il peccato principale dei maschi per come ho conosciuto io la mascolinità. Volevo sapere da te: è un’inclinazione tua personale? Come sei arrivato a descrivere un uomo non petulante? Un uomo che non sente il bisogno di spiegare tutte le sue azioni? Oltretutto, è un personaggio che prende molte decisioni, uno di quelli che – diremmo in Italia, perché siamo molto retorici – “si mangia la vita”. Una persona che fa un sacco di cose, conosce, scopre parti di mondo. E però non sta mai pontificando, non si sta mai spiegando e giustificando.
Szalay
Sì, be’, in generale direi che è così. Non è sempre vero, direi che a volte pensa alle sue azioni e allo stato della sua vita in maniera razionale.
Pacifico
Ma quello è diverso dal razionalizzare, quello è essere razionali…
Szalay
Giusto, giusto. Ma non si spiega a chi legge né, da quanto possiamo sapere, a se stesso. Non produce una sorta di narrazione della propria vita che sia un tentativo di darle senso – se ho capito dove stavi andando a parare. Direi che l’ho fatto di proposito. Volevo che fosse chi legge a creare quella narrazione da sé, invece di fargliela consegnare dal personaggio. Un po’ di accesso al suo mondo interiore l’abbiamo, ma quando abbiamo quell’accesso non c’è segno che lui stia costruendo una propria narrazione. Vive abbastanza di impulsi, e noi vediamo spesso la sua vita nei termini delle sue reazioni fisiche ed emotive.
Quindi sì, credo che parte della ragione per cui ho scritto un libro del genere è che un ritratto della vita che veda la vita come una serie di decisioni razionali che ci rendono quel che siamo, che danno forma al racconto della nostra vita, credo non sia vero. Credo che la vita non consista in una serie di decisioni razionali. Spesso, quando ci guardiamo indietro non sembra, ma di fatto io penso che la vita sia informata molto più da neanche posso chiamare decisioni, diciamo reazioni istintive e irrazionali alle situazioni.
Una qualche forma di agency c’è, ma non è di tipo razionale. è un personaggio creato direi in parte per esplorare queste idee.
Pacifico
Sono contento che abbiamo finito su questa nota. Trovo che negli ultimi anni le grandi questioni che sono sulla bocca di tutti, di cui parliamo normalmente, che è ovviamente un gran bene, sono state spesso molto ridotte a tutta una questione di paradigmi, scelte consapevoli, tu hai usato la parola agency, appunto. Per me è importante che dove c’è di mezzo l’arte ci sia anche, a fare da contraltare, a quella cosa fondamentale e bellissima che è la politica, ci sia questa forma di libertà. E io penso che il fatto che un romanzo, che parla di cose su cui tutti stiamo ragionando, abbia al centro questa fiducia nella libertà e questa tolleranza davanti al fatto che la vita spesso è reattiva, impulsiva, irrazionale, penso sia un’ottima cosa da – non dico per forza contrapporre – ma quantomeno giustapporre, in maniera complementare, a quanto siamo diventati verbosi dal punto di vista delle nostre idee sul mondo e sulla società. Sono sicuro che questa è una cosa che la letteratura può fare ancora con grandissima forza, e sono contento che abbiamo potuto ascoltare uno scrittore che lo sa fare benissimo.
Szalay
Grazie, sei molto gentile a dire così e sono molto contento che lo dici, perché è una delle cose che speravo di ottenere con questo libro: andare oltre la selva di parole che di questi tempi sembrano accerchiarci. Il titolo tedesco del libro non è Carne ma Ciò di cui non si può dire. Quando l’ho scoperto ne sono stato felice. Ovviamente, è un tono molto diverso rispetto a Flesh, ma ho pensato che sia altrettanto appropriato per questo libro e che dica qualcosa di importante su ciò che ho cercato di fare.
Pacifico
La carne è l’indicibile.
Szalay
Si esatto, sono la stessa cosa, in un certo senso. Indicano la stessa cosa da due direzioni diverse.