Irene Graziosi
La vicenda del Titan ci ha ricordato che esistono persone disposte a rischiare la vita pur di vedere un relitto. Ricche, certo, ma forse non così diverse dai personaggi di Jules Verne – solo che qui non c'è lieto fine.
I due milioni di blocchi di pietra che compongono il tempio buddista di Borobudur, il più grande al mondo, sono di colore nero e scintillano sotto il sole javanese a contrasto con il verde pallido dei prati seccati dal sole. Sulle pareti del tempio si assiepano scene della vita del Buddha, ritratto anche nelle oltre cinquecento statue a lui dedicate.
Vista da lontano, la sua forma pigramente piramidale orlata di punte simili a guglie che si staglia nell’aria caliginosa evoca il momento in cui, da bambini, si lasciavano gocciolare acqua e sabbia dalla punta delle dita su castelli di sabbia compattati dal secchiello per ottenere leziosi pinnacoli che si arrampicavano gli uni sugli altri, rincorrendosi in un’architettura misteriosa e barocca, fonte di inesauribile meraviglia.
In questi giorni in cui ho letto le notizie sul Titan e il suo equipaggio, Borobudur mi è tornato alla mente e mi sono chiesta come mai. Il tempio fu costruito nell’800 dopo Cristo, abbandonato circa nel 1300 e ritrovato nella prima metà del 1800. Per cinquecento anni gli uomini se ne dimenticarono e di esso rimase solo la leggenda del “tempio montagna”. Fu il ricercatore H.C. Cornelius durante gli anni del colonialismo olandese in Indonesia a ritrovare l’edificio, sprofondato nella terra e sepolto dalla vegetazione.
Esistono dei sentimenti che non proveremo mai, e che hanno invece provato coloro che sono venuti prima di noi o che proveranno coloro che verranno dopo. Tra questi, sgomento di fronte alla scoperta di reperti archeologici di civiltà dimenticate, alle ossa di rettili enormi spazzati via da meteoriti; l’euforia salterina per la gravità rarefatta nello spazio, la struggente nostalgia alla vista dei relitti di imbarcazioni nelle profondità degli abissi.
Se da bambina mi avessero chiesto conto del mio desiderio più grande: essere presente durante la scoperta della maschera di Tutankhamon, che replicavo ossessivamente grazie al gioco “Egittologia”, o assistere alla prima conferenza in cui venne mostrato lo scheletro di un dinosauro. A Java per un attimo ho immaginato di essere tra coloro che, sotto mangrovie straripanti e piante verdissime, toccavano per la prima volta la pietra liscia e nera di Borobudur.
Il ricchissimo equipaggio del Titan, il sommergibile destinato a offrire la vista della carcassa del Titanic, è in poco tempo divenuto il simbolo di tutto ciò che nel mondo c’è di iniquo. La sua scomparsa – avvenuta pochi giorni dopo il naufragio di Pylos (messo in ombra anche dagli youtuber nelle homepage dei giornali italiani) – e i relativi sforzi per ritrovarlo sono stati confrontati con quelli risibili effettuati per salvare i migranti che viaggiavano sul peschereccio in acque greche.
Il paragone, a dir la verità un po’ peregrino, si presta bene alla retorica dell’indignazione tesa a sottolineare ciò che già sappiamo: il mondo è ingiusto. E mentre l’ingiustizia del mondo allagava i social, hanno continuato a emergere dettagli di misteriosi suoni provenienti dall’oceano, di pugni battuti su pareti di metallo, di voci che chiedevano aiuto da una bolla di acciaio persa là dove le sfumature di blu si fanno nere.
È che nel Titan non c’erano solo uomini ricchi e bianchi: a guardare con più attenzione c’erano soprattutto un esploratore francese, uno inglese, un adolescente. C’erano, insomma, i personaggi di un romanzo di Jules Verne: un gruppo di spericolati, sicuramente molto ricchi, che preferiva rischiare la vita pur di sperimentare un sentimento che ci è precluso.
Dopo giorni trascorsi a leggere notizie sugli uomini a bordo del sommergibile, la notizia del ritrovamento dei resti del Titan mi ha toccata. Ho letto poi che i detriti erano a cinquecento metri dal Titanic e allora la prima domanda che mi sono posta è se i suoi passeggeri avessero fatto in tempo a vedere il mastodontico scheletro della nave che riposa da oltre un secolo sul suolo marino prima che il sommergibile esplodesse in mille pezzi. Spero di sì.
Non so per cosa valga la pena vivere o morire, suppongo che per ciascuno la risposta sia diversa, ma essendo gli uomini a bordo a conoscenza dei rischi che correvano credo che almeno una piccola parte dentro di loro, quella più bambinesca, avesse accettato che morire per vedere il Titanic a quattromila metri di profondità non fosse poi così male.
Credo di poterlo capire. Così ho immaginato questo manipolo di uomini in una capsula con un oblò da cui si possono ammirare meduse trasparenti e granchi muschiosi illuminati dal riflettore del Titan che li avvolge nel fascio di luce facendoli brillare nell’oscurità come divi, e li ho immaginati perplessi dall’assenza di contatti con la nave madre, ma senza neanche il tempo di pensarci troppo, perché durante la discesa nella coltre d’acqua nera ecco che il fascio di luce rivela le balaustre che vegliano la prua del Titanic, che è così imponente e leggendario da far dubitare che si tratti di una nave e non di un colosso misterioso costruito dal mare stesso.
Tutti si pigiano contro il vetro per ammirare i fianchi del relitto ornati da colonne di alghe che si protendono ondeggiando verso di loro, come a salutarli, e ciascuno degli uomini si concentra per catturare con lo sguardo quanti più dettagli possibili, vorrebbero poter guardare il Titanic nella sua interezza ma le condizioni non lo permettono e allora si concentrano per ricordarsi del manto di corallo che avvolge ogni centimetro della nave che gli viene offerto e perdersi nell’eccezionale sensazione di essere insignificanti ed estranei a quel mondo.
Ma dura solo un istante. Un lampo rischiara per l’ultima volta l’intero relitto, poi di nuovo buio.
Irene Graziosi
Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).
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