Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano - Lucy
articolo

Gabriele Gimmelli

Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano

30 Gennaio 2025

Amico di Bianciardi e Fortini, Ormanno Foraboschi è stato pittore senza mostre e scrittore senza libri. Se del suo talento sono rimaste alcune scarne tracce, la sua vita misteriosa di “artista reticente” continua ad affascinarci.

Benvenuti a Le vite degli altri. Sono Gabriele Gimmelli, e spero che vi piacciano le storie di fantasmi, perché ve ne sto per raccontare una: quella di Ormanno Foraboschi, “pittore senza esporre e scrittore senza libri”, individuo dai molti, troppi talenti, e proprio per questo artefice e insieme vittima di un’esistenza vissuta nel segno dell’incompiutezza. Una vita che a qualcuno potrà forse sembrare fin troppo letteraria, ma che con il suo fascino sghembo merita senz’altro d’essere raccontata.

Dobbiamo a Learco Pignagnoli, l’irriverente eteronimo ideato dal grande Daniele Benati, la fondazione della corrente filosofica nota come “assenzialismo”. Come ha spiegato Ugo Cornia, si tratta di “un movimento che sceglie il non esserci come pratica quotidiana”, ovvero “di mancare a qualsiasi evento […], essere assenti il più possibile a se stessi, agli altri e alle cose”. Ebbene, se Pignagnoli è stato il fondatore dell’assenzialismo, Ormanno Foraboschi ne è stato una sorta di ignaro profeta: nessuno come lui ne ha seguito i dettami con tanta ostinata coerenza.

Foraboschi, dunque. Chi era costui? Un fantasma. Un’ombra. “Un vero assente”, ha scritto di lui Pino Corrias, “morto senza lasciare altro che un ricordo eccezionale di sé”. Effettivamente, a parte questo, non molto rimane: un pugno di scarne e talvolta contraddittorie notizie biografiche, un portfolio di disegni a tiratura limitata, una raccolta di proverbi pubblicata postuma, alcuni claim pubblicitari entrati nel parlato, un paio di fotografie, un’incredibile quantità di aneddoti. 

A tratti, viene persino il sospetto di essere in presenza di un personaggio fittizio, di un alter ego letterario come il Pignagnoli di Benati. Sarà forse per via di quel nome altisonante, dantesco, da poema epico: Ormanno Foraboschi. Luciano Bianciardi, che era stato suo sodale negli anni affamati del dopoguerra e che avrebbe avuto una parte importante – ancorché indiretta – nel tramandarne il ricordo, battezza così un personaggio secondario del romanzo storico-risorgimentale La battaglia soda (1964): “‘Pace sia’, osò il giovane Ormanno, ‘ma come sta scritto lì sopra soltanto agli uomini di buona volontà. Contro quelli invece che la volontà hanno cattiva, sia guerra senza respiro’”. Ma Bianciardi non è il solo. Quindici anni più tardi, un altro amico di vecchia data, il neoavanguardista Germano Lombardi, pubblicherà con Rizzoli il romanzo Chi è Beatrix. In esergo, una dedica in memoriam: “alla libertà, all’allegria, al coraggio e alla paura di Ormanno Foraboschi”.

Sono fra le poche testimonianze scritte che attestano di una sua effettiva esistenza. Altre, e più consistenti, le dobbiamo alla curiosità e alla tenacia di Corrias: “Rintracciarne la storia per intero varrebbe un libro”, ha scritto, “e qualcuno ci ha anche pensato”. Di sicuro ci ha provato lui, per la precisione fra pagina 159 e pagina 162 di Vita agra di un anarchico, fondamentale biografia bianciardiana pubblicata per la prima volta nel 1993 e da allora continuamente ristampata. Quattro pagine scarse che però sono quasi un piccolo libro nel libro: una vita da romanzo all’interno di un’altra, non meno romanzesca. 

Partiamo dai pochi dati certi. Sembra ormai acclarato che Foraboschi sia nato nel 1918 a Mantova, in terra lombarda. La famiglia però è toscanissima: livornese il padre, politico e uomo d’affari; senese, di origine aristocratica, la madre. Nonostante il blasone, i giorni di gloria sono lontani e il patrimonio famigliare è ridotto ormai al lumicino. Tutto questo non sembra minimamente turbare il primogenito Ormanno, che trascorre l’adolescenza studiando da autodidatta nella vasta biblioteca paterna. Una formazione di prim’ordine, come avrà modo di testimoniare a Corrias un intellettuale non certo incline alla piaggeria come Franco Fortini: “Mi sbalordiva sempre perché aveva letto tutto, ma proprio tutto, persino autori sconosciuti del Settecento e dell’Ottocento. Citava a memoria, mi diceva: ‘Ma come? Non lo conosci?’”.

Malgrado i crismi dell’eccezionalità, per un certo periodo il giovane Ormanno cerca, per quanto possibile, una collocazione consona al proprio rango: studia Giurisprudenza a Firenze (non sappiamo però con quali risultati), si sposa e ha due figlie; non impiega molto, però, a capire che quella vita non fa per lui. Giuliana Pozzi, che gli sarà compagna per quasi un ventennio, racconterà al solito Corrias: “Era un uomo svagato, incapace di alcunché di pratico: persino un appuntamento o un orario da rispettare per lui erano un problema”. 

Non sappiamo quando nasca la vocazione di Foraboschi per la pittura. In ogni caso, a partire dall’estate del 1950, si unisce a una “lieta brigata” di artisti, che si installa nella baia di Procchio, nei pressi di Marciana, sull’isola d’Elba. Passeranno alla storia come i “pittori delle dune”. La loro vicenda è stata ricostruita nel 2012 da Matteo Nucci in un articolo apparso su “Il Venerdì di Repubblica” (oggi facilmente reperibile su “Minima&Moralia). “Lo zoccolo duro”, spiega Nucci, “era formato da Rodolfo Marma, Enzo Faraoni, Emilio Ambron con la compagna Anna Maria D’Annunzio (nipote del poeta), Renzo Baraldi, Iginio Gonich detto Gonni, Beppe Lieto, Furio Cavallini e Silvano Bozzolini”. Non mancavano poi quelli che Nucci definisce i “fiancheggiatori”: la scrittrice Marcella Olschki, erede del celebre editore fiorentino, il giornalista della “Nazione” Mario Cartoni e, ça va sans dire, il nostro Foraboschi.

Con pochi quattrini, molto talento e la giusta dose di faccia tosta, la variopinta colonia di artisti diventa subito una piccola leggenda locale. Più che rifarsi alle avanguardie storiche, sembrano anticipare lo spirito zingaresco e goliardico degli Amici miei monicelliani. Per ovviare al problema del vitto, per esempio, il gruppetto convince il proprietario del vicino ristorante “Da Renzo”, tale Domenico Mazzarri detto Meco, a stipulare uno scambio: loro gli decoreranno le pareti del locale con disegni e affreschi, lui offrirà loro qualche pasto gratis. Un po’ sciupate dal tempo, le opere fanno ancora bella mostra di sé sulla facciata e nelle salette interne dell’edificio (il ristorante ha chiuso definitivamente i battenti da una buona dozzina d’anni). L’affresco principale raffigura una veduta della baia di Procchio su cui svetta un cartiglio dai toni comicamente altisonanti: “Questo historico locale fù creato da Domenico Mazzarri dicto ‘Il Meco’ e da un gruppo di pittori di famae internazionale A.D. MCMXXXXX”. Date le circostanze, l’equivoco tra “fama” e “fame” è ovviamente intenzionale.

Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano - L’umorismo di Foraboschi è passato da qui. Immagine tratta dal Catalogo dei Beni Culturali.

L’umorismo di Foraboschi è passato da qui. Immagine tratta dal Catalogo dei Beni Culturali.

Il “prode Ormanno”, che, come ricorda Corrias, all’epoca viveva in pratica della scarsa rendita di
famiglia, trascorrendo nell’isola i mesi da marzo a settembre, diviene ben presto una figura di
riferimento dell’intero gruppo. Alla sua mano si deve fra l’altro uno dei più celebri fra i dipinti del
Meco, un busto di Napoleone accompagnato dalla frase: “Qui il grande Napoleone non ha mai
mangiato… Mai!”. Una delle rare fotografie superstiti di quegli anni, pubblicata nel 2013 sul
periodico elbano “Lo Scoglio” dal giornalista Giancarlo Molinari, ritrae Foraboschi al lavoro: dritto
in piedi, il volto di profilo seminascosto dalla penombra, appare intento a dipingere sulla facciata
del ristorante. Secondo Corrias si presentava piuttosto bene: “Fisicamente era un bell’uomo, molto
alto, magro, il naso dritto, i capelli tirati all’indietro, elegante nei gesti, atletico nel portamento”. La
qualità non ottimale dell’immagine rende – ahinoi – difficile il giudizio.

Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano - I pittori delle dune

I pittori delle dune

Quella dei pittori di Procchio non è comunque la sola esperienza artistica del Nostro. Setacciando il
web, ecco riaffiorare una copertina della rivista “Linea Grafica” dell’estate 1957: il profilo di un
gallo, abbozzato con pochi tratti rossi e neri, che si pavoneggia esibendo i propri galloni (la satira
del militarismo è una costante dell’opera di Foraboschi: ne riparleremo). Ma a suscitare curiosità
sono soprattutto i trentun disegni raccolti in una plaquette dalla copertina nera, stampata a Firenze
nel 1951 per i tipi della casa editrice La Città in 240 esemplari numerati. Titolo: Protoplasmi.
Secondo la testimonianza dell’ex pubblicitario Gian Paolo Ceserani, raccolta da Corrias, lo stile era
quello impietoso degli artisti della Neue Sachlichkeit, un George Grosz, o magari un Otto Dix.
Personalmente, ci scorgo anche qualcosa del toscanissimo Mino Maccari; ma l’opera grafica di
Foraboschi meriterebbe ben altro spazio ed esegeti più competenti di me.

Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano -  Copertina di Protoplasmi (1951)

Copertina di Protoplasmi (1951)

Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano - Un disegno tratto dalla raccolta Protoplasmi

Un disegno tratto dalla raccolta Protoplasmi

Nel giro di qualche estate, i giorni della bohème elbana volgono al termine. Interpellato da Nucci, Bruno Mazzarri, discendente del Meco, ricordava che quando il turismo, attirato fra l’altro dalle gesta eccentriche dei “pittori delle dune”, cominciò a diventare eccessivo, pian piano tutti quanti abbandonarono l’isola. Ormanno fa le valigie nel 1954. Il distacco è radicale: si lascia alle spalle la famiglia, gli amici pittori, Firenze e l’Elba. Parte in treno, destinazione Milano. In tasca ha un milione di lire, ultimo scampolo dell’eredità paterna, che nella Brera non ancora gentrificata di quegli anni gli vale il soprannome di “Milionario”. “I soldi se li fece durare un anno”, ricorderà ancora Giuliana Pozzi, “vivendo come piaceva a lui: leggere, dipingere, passeggiare. Quando si ritrovò senza più una lira si rassegnò a lavorare”.
Se così deve essere, avrà pensato Foraboschi, che almeno non sia un lavoro qualsiasi. Accade così che il Nostro decide di mettere a frutto un’abilità già dimostrata sui muri del Mecco: il suo gusto epigrammatico, l’abilità a coniare frasi di sicuro effetto ne fanno uno dei primi e più dotati copywriter italiani. Nel 1955 viene assunto presso la succursale italiana della Lintas, agenzia pubblicitaria legata alla Unilever. Da qui, per almeno una quindicina d’anni, sfornerà decine e decine di slogan per altrettante aziende. Alcuni hanno retto più che egregiamente la prova del tempo: chi di noi non ha mai sentito parlare del tonno “che si taglia con un grissino”? Ebbene, è puro Foraboschi.
“È stato il maestro di tutti noi”, ricorderà Ceserani, “me, Taverna, Pirella, tanti altri”. Dobbiamo a Ceserani un’altra delle pochissime testimonianze scritte sul Nostro, una manciata di righe nella sua Storia della pubblicità in Italia edita da Laterza nell’ormai lontano 1988, giudiziosamente trascritte da Corrias: “Vero catalizzatore dell’ambiente […] Foraboschi è diventato per tutti gli uomini che hanno lavorato in quel periodo un autentico mito”.

Tele e pennelli sono ormai un ricordo. In compenso, il quarantenne Ormanno ha modo di affinare una volta per tutte il talento che lo consegnerà alla leggenda: quello del narratore. Le gambe sotto il tavolo, è capace, a detta di Ceserani, “di tenere appese al filo della sua conversazione anche venti persone”. Impossibile farsi un’idea della sua energia affabulatoria, della sua mimica, della sua espressività. Per fortuna, grazie a Corrias, Ceserani è riuscito a tramandarci almeno uno dei suoi pezzi forti.
Siamo a Milano, seconda metà degli anni Cinquanta. Elio Vittorini e Franco Fortini stanno camminando a fianco di un corteo operaio. All’improvviso irrompe la celere: cariche, colpi di manganello, fuggi-fuggi generale. Nel parapiglia, un poliziotto si getta su Fortini, lo agguanta e lo trascina via. “Lo lasci! Lo lasci!”, grida Vittorini. Alto e robusto com’è, attira l’attenzione di un commissario in borghese. “Lo fermi!”, insiste fortini con l’ufficiale. “Sono Elio Vittorini, e questo è il professor Fortini!”. Il commissario fa tanto d’occhi: ordina ai suoi di rilasciare il malcapitato, poi si profonde in scuse e inchini: “Perdonate, professore! Questi guaglioni l’avevano scambiata per un comunista!”.

Secondo Ceserani, raccontando questa storia Foraboschi “rideva fino alle lacrime”. Sarà stata vera? Chissà. Certo è che Fortini era uno dei suoi pochi, veri amici. Convitato abituale, insieme alla moglie Ruth Leiser, delle cene che Foraboschi allestiva nel proprio appartamento milanese di via Boccaccio, lo menziona in uno dei componimenti della raccolta L’Ospite ingrato. Testi e note per versi ironici (1966), attraverso una “splendida parafrasi di Dostoevskij” (la definizione è dello stesso Fortini): “Iddio non c’è, il comunismo nemmeno, dunque nulla è permesso”. Un altro amico, già ricordato, era Bianciardi. I due si erano conosciuti ai tempi del Bar Jamaica (il “Bar delle Antille” de La vita agra), instaurando immediatamente un rapporto di mutua ammirazione: “Giocavano a fare i toscanacci, a chi la diceva più grossa”, raccontava Giuliana Pozzi a Corrias. “Tutti e due detestavano Milano”.

Per il resto, tolti i colleghi della Lintas e i pochi amici che abbiamo detto, questo “gran signore solitario” disdegna la mondanità meneghina. Tormentato dall’insonnia, le notti le trascorre di preferenza chiuso in casa, a leggere, nutrendosi – così ricordava Ceserani – “alla greca”: formaggio fresco e olive nere. A un certo punto, in Grecia deciderà di andarci per davvero. Sembrava destinato alle isole: dopo l’Elba aveva tentato Panarea, ma se l’era data a gambe alle prime avvisaglie dell’overtourism. La sua ultima meta è dunque Paxos, non lontano da Corfù, una località che sul finire degli anni Sessanta ancora conoscono in pochissimi. Vi costruisce anche una piccola casa, con l’idea di farne il proprio buen retiro una volta chiuso con la pubblicità. Le cose andranno diversamente: ammalatosi qualche anno più tardi, Foraboschi morirà nel 1973 in una clinica di Zurigo, dove si era recato nella disperata ricerca di una cura. La ex compagna Pozzi ricordava in proposito una delle sue tante battute epigrammatiche: “Quando la casa è finita, il padrone muore”. Mai come nel suo caso, purtroppo, l’aforisma fu più vero.

Prima di chiudere, però, c’è ancora un fatto che merita d’essere ricordato, senz’altro il più importante. Nei tempi morti delle lunghe giornate di lavoro alla Lintas, Foraboschi si era dilettato nella stesura – per così dire – dei “proverbi militari”. Fortini, che a distanza di anni era in grado di citarli a memoria, li segnalava come “ingiustamente inediti” ancora alla fine degli anni Sessanta. E forse sarebbero caduti nell’oblio, come tante altre imprese del Nostro, se nel 2009 Vito Taverna, uno degli ultimi testimoni della segreta epopea foraboschiana (è mancato ultranovantenne nell’estate 2024), non ne avesse curato una pubblicazione per conto di una piccola tipografia di Città di Castello.

Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano - La copertina del libro.

La copertina del libro.

È un volumetto smilzo, a tiratura limitatissima, che non arriva nemmeno alle cinquanta pagine. Addirittura, per dargli un po’ più di spessore, il buon Taverna vi aggiunge una sezione con alcuni proverbi toscani “a tema” raccolti nell’Ottocento da Giuseppe Giusti (da qui il titolo del libriccino: Proverbi militari e guerreschi). In compenso, lo accompagnano una serie di bellissimi disegni, tra cui sette dello stesso Foraboschi.

“Io e Ormanno”, spiega Taverna nella premessa, “badavamo a strepitare ad ogni occasione e ad ogni incontro proverbi a iosa e come le maestre elementari puntando il dito all’improvviso dicevamo: ‘La gattina frettolosa fa…?’ e l’interpellato con sforzo di memoria e di balbuzie rispondeva d’un fiato: ‘… i gattini ciechi!’. Bravo! Dicevamo sfarfallando per i corridoi”. L’idea dei proverbi militari nacque da una constatazione, ovvero che “la saggezza popolare si era dimenticata, quasi ne avesse avuto paura profonda, in tutto o in parte […] di militari, generali, guerre. Detto fatto, ci facemmo popolo e saggi e cercammo di colmare questa lacuna”.

Vale la pena citarne qualcuno: Chi fa la guerra la perde, A vincere e morire c’è sempre tempo, Bandiera perduta pensiero levato, Quando la patria chiama lasciala chiamare, Se ti dicono “Fuoco!” accendi il sigaro, Nemico ammazza sempre, colonnello qualche volta, Colonnello sconfitto lo fanno generale, Se vuoi la medaglia comprala in negozio. E ancora: Spara oggi, spara domani, qualcuno si fa male, Un minuto di eroismo si paga tutta la vita, Chi ha coraggio dura poco, Chi l’ha dichiarata faccia la guerra, Se ti spari da te conosci il posto, Nemico che scappa lascialo andare.

Espressione di un convinto pacifismo, questi “proverbi militari” sono un salutare invito all’insubordinazione, un elogio dell’antieroismo, un modesto inno alla solidarietà fra gli uomini di ogni classe e nazione contro la brutalità della guerra e l’ottusità di chi la dichiara: molto utili, insomma, in tempi come questi, nei quali le nuvole di guerra si addensano minacciose all’orizzonte e la pace viene dipinta come una pia illusione, se non proprio come un disvalore.

Ormanno Foraboschi: il Bartleby italiano - Tabagismi antimilitaristi. Un disegno di Ormanno Foraboschi tratto dalla raccolta

Tabagismi antimilitaristi. Un disegno di Ormanno Foraboschi tratto dalla raccolta

Compulsando queste paginette, rifletto sul fatto che da molto tempo non mi capitava di pensare alla breve vita felice di Ormanno Foraboschi, il Bartleby italiano che alle lusinghe del successo (artistico, letterario, pubblicitario) ha sempre garbatamente “preferito di no”, fino a scomparire. Almeno fino a qualche mese fa, quando, durante un piovigginoso sabato romano, sono entrato con un amico nella libreria Fahrenheit 451 a Campo de’ Fiori. Dopo aver trascorso almeno un’ora a frugare fra i ricchissimi scaffali, giunto alla cassa per pagare, alzo gli occhi e, davanti a me, intravedo una copia del volumetto di Foraboschi e Taverna. Col cuore in gola, mi avvicino per guardare meglio. “Vito e Ormanno – Anonimi toscani”, dice la copertina. Quell’Ormanno lì? Possibile? Frugo nella memoria. Da qualche parte ho letto che qualcuno aveva deciso di pubblicare i leggendari “proverbi” foraboschiani… già, ma dove trovarli? E ora eccoli lì, a pochi centimetri dalla mia faccia. Senza pensarci, afferro la copia (è l’unica) e la aggiungo alla pila dei libri da acquistare. Costa appena cinque euro, ma non l’avrei mollata neanche se il prezzo fosse stato più alto. Nel giro di pochi istanti, come una diga che cede, mi torna in mente tutto: Ormanno, i pittori delle dune, Bianciardi, Fortini, il tonno che si taglia con un grissino… Le parole si accavallano le une alle altre. Non posso sottrarmi.

Così ho deciso di raccontare questa storia.

Gabriele Gimmelli

Gabriele Gimmelli è Dottore di ricerca in “Studi umanistici interculturali” e collabora con l’Università di Bergamo. Il suo ultimo libro è American. Orson Welles, il mito, la letteratura (Quodlibet, 2024).

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