Parliamo di maternità con le parole sbagliate - Lucy
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Veronica Raimo

Parliamo di maternità con le parole sbagliate

Perché la maternità è immancabilmente definita "un miracolo"? Perché, anche in ambienti progressisti, ci si ostina a usare un linguaggio mistico quando si parla di questi temi? Perché l'aborto deve essere raccontato sempre e solo come un trauma? Perché l'esistenza di ogni donna deve, a ogni costo, girare attorno al "grande dilemma sulla maternità"?

“Perché le scrittrici che sono madri non hanno parlato molto della loro maternità: paura di darsi delle arie? Paura di finire intrappolate nella mammitudine? Di esserne sminuite? Né hanno parlato molto della loro scrittura in relazione alla genitorialità, visto che il mito eroico richiede che i due mestieri siano del tutto opposti e vicendevolmente deleteri”.

È Ursula K. Le Guin a farsi questa domanda in La figlia della pescatrice, un saggio del 1988. E nel suo Discorso per la consegna dei diplomi al Bryn Mawr del 1986, scrive: 

“Una cosa la facciamo di sicuro: i figli. E quindi facciamo figli perché così ci viene detto dai preti, dai legislatori e dai dottori, tutti maschi, e ci viene detto quando e dove farli, quanto spesso, e come; è tutto sotto il loro controllo. Ma non siamo autorizzate a parlare del fare figli, perché non fa parte dell’esperienza degli uomini e quindi non ha niente a che vedere con la realtà, con la civiltà e non riguarda l’arte”. 

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A distanza di quarant’anni, fa quasi sorridere il suo cruccio: la mancanza di autolegittimazione da parte delle scrittrici di trattare temi legati all’esperienza della maternità. Direi che abbiamo scavallato abbondantemente questa forma di reticenza, tanto che quello della “maternità” è diventato un filone a sé dal punto di vista letterario, alla stregua di una categoria Netflix all’interno di quella viene considerata “la scrittura al femminile”, per usare un’espressione odiosa. Ma soprattutto è diventata centrale – e imprescindibile – per ogni donna scrivente la questione se desideri o meno avere dei figli. Escono di continuo antologie, saggi, articoli, inchieste sull’argomento, una buona fetta del mercato culturale è oggi saldamente occupata da questo rovello. “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio” diceva Camus. “Giudicare se la vita valga o meno la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.

A quanto pare, però, le donne, prima ancora di decidere se valga la pena o meno di continuare a vivere, si interrogano se valga la pena o meno di mettere al mondo dei figli. 

Per quanto mi riguarda sono anni che mi tengo aggrappata al vecchio adagio esistenzialista, che è sempre presente come ultimo pensiero della notte e come primo pensiero del risveglio, e si riaffaccia puntualmente in svariati momenti della giornata nelle infinite contemplazioni di parete e soffitti, per cui devo essere troppo spossata per mettermi a ragionare a dovere sul fatto se desideri o meno avere dei figli (al limite posso ritrovarmi impegnata a ragionare se voglio scrivere un libro in prima o in terza persona).

Comunque le volte che mi è capitato di pensarci, mi sono generalmente risposta che non li desideravo, e non mi sono mai sentita in colpa per questa mancanza di desiderio, quanto per il fatto di aver dedicato così poco tempo e spazio alla questione. Se c’è una pressione che ho avvertito da parte della società, non è quella di procreare, ma quella di mettere al centro della mia vita il grande dilemma sulla maternità. È un argomento che mi annoia a morte, quasi quanto sentire parlare qualcuno del viaggio che sta organizzando in qualche posto esotico che non saprei nemmeno geolocalizzare su una cartina (personalmente mi tengo alla larga da paesi dove ci sono insetti spaventosi o la pena di morte). 

Abbiamo preso confidenza – a forza di vederlo citare – con il test di Bechdel per calcolare il coefficiente di femminismo in un film: 1) in un film ci devono essere almeno due donne 2) le due donne devono parlare tra di loro 3) la discussione non deve riguardare un uomo. Mi piacerebbe che si aggiungesse un addendum al punto 3, e che la discussione non riguardasse nemmeno la maternità, ma mi rendo conto che questa è una mia idiosincrasia e non ha nulla a che vedere con un deficit di femminismo. 

Poco prima delle vacanze natalizie sono andata a vedere l’adattamento teatrale della compagnia Fanny e Alexander tratto da Maternità di Sheila Heti. È un romanzo che non avevo amato particolarmente, o meglio, l’avevo inizialmente trovato interessante nel suo meccanismo (Heti tira le monetine dell’I-Ching per rispondere a una serie di quesiti e lasciarsi guidare nella narrazione), fino a quando quel meccanismo ha finito per sembrarmi un artificio che logorava l’interesse stesso che aveva suscitato. 

“Se c’è una pressione che ho avvertito da parte della società, non è quella di procreare, ma quella di mettere al centro della mia vita il grande dilemma sulla maternità. È un argomento che mi annoia a morte, quasi quanto sentire parlare qualcuno del viaggio che sta organizzando”.

Una delle frasi presenti nel libro Heti – particolarmente significativa, tanto da essere finita anche nel foglio di sala dello spettacolo – è: “Se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il segreto più grande che nascondo a me stessa”. 

È una frase a effetto, ed è senza dubbio un’ottima frase. Mi domando però se anch’io metterei il suo stesso dubbio in cima alla presunta graduatoria di ciò che è inintellegibile nella sfera della nostra volontà, e del nostro desiderio. Su quante altre cose conserviamo un’analoga opacità? Non è proprio questo che genera un’ansia costante nelle nostre vite: non sapere se davvero vogliamo ciò che pensiamo di volere? E viceversa: non sapere se davvero non vogliamo ciò che pensiamo di non volere? Quanto possiamo essere trasparenti rispetto ai nostri desideri se – per dire – persino nel momento di un orgasmo non siamo sicure di desiderare la persona con cui stiamo scopando? Forse dovrei tirare delle monetine dell’I-Ching per rispondere a domande formulate in maniera tanto astratta. Mi accontento di non saper rispondere. 

Lo spettacolo di Fanny e Alexander, che vedeva sul palco la sola Chiara Lagani, portava alle estreme conseguenze il meccanismo del libro, anche se trasformava il binarismo sì/no di Heti in domande con risposte molteplici. Si trattava di uno spettacolo interattivo in cui al pubblico veniva affidato una specie di telecomando per poter formulare la propria risposta spingendo dei tasti (io ho perso il telecomando nel momento stesso in cui mi sono seduta: atto mancato?). Le risposte venivano proiettate collettivamente su uno schermo sospeso sulla scena. Su questo tornerò dopo. Alla fine dello spettacolo c’è stato un dibattito. La giornalista che dialogava con Chiara Lagani ha insistito sul fatto che quello della maternità è il tema centrale nella vita di ogni donna. Ovviamente era stupido da parte mia lamentarmi per questa supposta centralità, dal momento che ero appena andata a vedere uno spettacolo dal titolo Maternità, quindi mi sono tenuta il mio fastidio continuando a bofonchiare sommessamente e a rovistare dappertutto alla ricerca del telecomando perduto.

Eppure c’era qualcos’altro che mi irritava, ed era una questione di linguaggio. Nonostante Lagani puntasse l’accento proprio sull’aspetto formale, estetico, di un discorso intorno al tema della maternità, sulle possibilità comunicative, sul modo di raccontare, analizzare, sviscerare questo dubbio “centrale” in ogni donna, mi sono resa conto che esiste ancora una forte mistica caratterizzata da espressioni in cui riecheggia una matrice religiosa, senza che ci sia stato alcun reale adeguamento, o ripensamento, linguistico in merito. Faccio un esempio su tutti: perché diciamo il “miracolo della maternità”? Siamo nella famosa epoca dove pare non si possa più dire nulla, ma in fondo accettiamo pacificamente che si parli di miracolo rispetto alla procreazione, quando forse saremmo più scettici a parlare – non so – di “miracolo della fotosintesi” (per scrupolo sono andata a googlare, e in effetti la povera fotosintesi può vantare qualche occorrenza in cui viene definita un miracolo, ma in generale la parola viene messa fra virgolette). 

Torno sulla questione che avevo lasciato in sospeso. Uno dei quesiti a cui noi del pubblico eravamo tenuti a rispondere durante lo spettacolo riguardava l’aborto. Non ricordo esattamente com’era formulata la domanda, ma di base ci veniva chiesto come percepissimo l’aborto. La risposta prevedeva quattro opzioni: un dolore, un orrore, un diritto, non so. Immagino non sia difficile intuire quale sia stata la risposta collettiva maggioritaria considerando il contesto sociopolitico e il posizionamento del pubblico tenuto a esprimersi: eravamo al Teatro India di Roma a vedere uno spettacolo di Fanny e Alexander tratto dal libro di Sheila Heti edito in Italia da Sellerio. Perché – però – mi chiedevo, mettere come possibili alternative: dolore e orrore? Perché non ipotizzare un ventaglio di scelte che ci ponesse davvero in difficoltà? Il punto è che la questione dell’aborto rientra nella stessa mistica, anche all’interno degli ambienti più progressisti e schierati. Continuiamo a non avere una terminologia del tutto laica per parlarne. 

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In un altro passo del libro, Heti scrive: 

“Quando ero più giovane, mi dicevo che se mai avessi avuto un figlio, sarebbe potuto capitarmi solo restando incinta accidentalmente. Poi sono rimasta incinta accidentalmente, e ho deciso di non tenere il bambino. All’epoca avevo ventun anni, e stavo giusto per passare alla pillola. Nell’attimo stesso in cui ho scoperto di essere incinta ho deciso che avrei abortito. Non c’è stata soluzione di continuità fra lo scoprirlo e il capire cosa volevo fare. Il dottore che mi ha visitata mi ha consigliato di tenere il bambino. Mi ha mostrato l’ecografia, anche se non volevo vederla”. 

Il racconto prosegue, con l’autrice che si rende conto solo anni dopo dell’intrinseca violenza psicologica di quel medico, perché ovviamente non ha nessun senso consigliare di ritardare un’interruzione di gravidanza, se non per dar adito alla possibilità di mettere in crisi quella scelta.

Eppure quali sono le espressioni che usa Heti? “Ho deciso di non tenere il bambino” (il corsivo è mio). Quale bambino? In teoria non dovrebbe esserci nessun bambino. Non sto dando la colpa a Heti, né tantomeno alla sua traduttrice italiana Martina Testa, di non aver escogitato una formulazione più consona, il problema riguarda il nostro linguaggio comune, che si è interrogato a lungo su problematiche di inclusività (tipo: “ho deciso di non tenere lǝ bambinǝ”), ma non ha messo in discussione gli automatismi linguistici che riguardano la maternità, e che sostanziano l’identità del bambino anche quando non ha fisicamente preso forma nel mondo reale. Non è facile immaginare un tipo di linguaggio alternativo, ma mi domando se lo sforzo non sia diventato necessario. “Tenere il bambino”, “perdere il bambino”, parlare di passate interruzioni di gravidanza come di “bambini abortiti”: quanto tutto questo rischia di rinsaldare un tipo di inconscio reazionario?  La famosa Lettera a un bambino mai nato di Fallaci, con tutte le sue storture ideologiche, resta ancora un riferimento non tanto in termini di contenuto, ma appunto di linguaggio. Non ci sembra così scandaloso menzionare un “bambino mai nato”. 

La nostra consapevolezza di donne progressiste e sessualmente istruite ci ha finalmente messo nella condizione di rispondere agevolmente su quale sia la differenza tra vulva e vagina, ma non ci scommetterei che sapremmo rispondere con la stessa disinvoltura su quale sia la differenza tra un embrione e un feto. Peraltro, mentre sto scrivendo questo pezzo, nell’immagine fotografica stampata sul mio pacco di tabacco Lucky Strike, c’è una coppia afflitta accanto a una piccola bara bianca; sotto la foto appare la scritta:  “Il fumo può uccidere il bimbo nel grembo materno”. 

Qui abbiamo a che fare con un “bimbo”. Quanti giorni, settimane, mesi aveva questo “bimbo”? Cosa c’è dentro quella piccola bara bianca? Perché anche quando siamo sottoposti alla brutalità comunicativa di chi ci sta mettendo in guardia sui pericoli del fumo, dobbiamo ritrovarci di fronte a questa inaccuratezza terminologica che diventa una pericolosa sciatteria in termini di immaginario? 

“La nostra consapevolezza di donne progressiste e sessualmente istruite ci ha finalmente messo nella condizione di rispondere agevolmente su quale sia la differenza tra vulva e vagina, ma non ci scommetterei che sapremmo rispondere con la stessa disinvoltura su quale sia la differenza tra un embrione e un feto”.

Senza entrare nel merito di altre semplificazioni implicite in quell’immaginario (la coppia che si affligge vicino alla bara bianca è – ça va sans dire – una coppia bianca ed etero), mi viene da ripensare a Lee Edelman e al suo concetto di “fascismo del volto del Bambino”, come catalizzatore di qualsiasi istanza che valga la pena di difendere. Anzi, qui siamo anche oltre, non c’è nemmeno il ricatto di un volto, ma quello di una piccola bara bianca al cui interno il Bambino ha fatto un passo ulteriore verso l’innocenza ideologica, totalizzante, diventando pura astrazione, una creatura immaginaria che può soltanto richiedere indiscutibilmente la nostra tutela: un Bimbo. 

Tempo fa mi è capitato di collaborare al soggetto di un film di una regista in cui una delle storie riguardava una donna che decide volontariamente di abortire. Nelle intenzioni della regista non doveva trasparire alcun tipo di condanna morale rispetto alla scelta del personaggio, eppure nella stesura del soggetto, a un certo punto era presente una scena in cui la donna, alla quarta settimana di gravidanza, si sottopone a un’ecografia: be’, in quella scena si vedeva battere il cuore dell’embrione (nel soggetto era chiamato bambino). Ho fatto notare alla regista che a quattro settimane di gravidanza non si vede battere un bel niente, e lei mi ha risposto: “Ma sei sicura? A me sembra di averlo visto” (parlava della sua esperienza personale).

Figuriamoci se ci tenevo a entrare nel territorio ineffabile delle sue percezioni e dei suoi ricordi, comunque ho risposto che sì, ero sicura, e che trovavo eticamente problematico realizzare una scena del tutto scorretta dal punto di vista scientifico. Esisteva però, a quanto pare, un piano più rilevante di quello scientifico: “Non fa niente” mi ha detto, “cinematograficamente funziona di più così, la scena è più forte”. 

Durante una riunione di produzione del film, parlando del periodo successivo all’IVG del personaggio, è stata usata per tutto il tempo l’espressione “elaborazione del lutto”. Ormai mi ero ritagliata l’insopportabile ruolo di pedante del gruppo, così ci ho tenuto a dire che – sebbene fossi consapevole dell’uso traslato che se ne poteva fare – nel caso specifico non mi sembrava opportuno ricorrere proprio a quell’espressione: non c’era stato nessun lutto, e mi pareva importante rimarcarlo anche soltanto nel fuori scena di una noiosa riunione di produzione. Con la condiscendenza tipica che si riserva alle bambine particolarmente rompipalle, mi hanno accontentato passando a una sobria “elaborazione del trauma”. Il mio puntiglio non si è lasciato intimidire.

“Però dobbiamo prima stabilire se per la donna si è effettivamente trattato di un trauma” ho obiettato. “Vabbè, okay, Veronica allora dicci tu che dobbiamo dire” è sbottato uno di loro. Lo capivo, magari sarei sbottata anch’io. Il punto è che per me non c’era niente da dire, cioè non c’era niente da elaborare, quindi non sentivo l’esigenza di trovare un’espressione per indicare un processo che semplicemente – nella mia versione della storia – non stava avvenendo. 

Durante queste vacanze natalizie ho visto il film Grandma di Paul Weitz (potrei fare innumerevoli altri esempi e, proprio perché sono innumerevoli, mi sembra che il periodo delle vacanze sia un buon range temporale da cui pescare): una commedia su una giovane ragazza che decide di abortire e il suo rapporto con la nonna, un’ex poeta hippy, lesbica e femminista, che l’aiuta a racimolare i soldi per l’intervento.

La nonna è rappresentata per tutto il film come una donna che ha passato la vita a lottare contro il patriarcato e gli automatismi sociali che ne derivano, che si è sbattuta come una matta per consentire alla nipote di abortire, che ha persino rimediato un cazzotto in faccia da due fanatiche pro-vita appostate davanti alla clinica ginecologica, che si infervora contro l’ingiustizia di una sanità a pagamento, eppure quando la ragazza esce dall’intervento, la vecchia femminista combattente non riesce a esimersi dall’ammonirla  che ripenserà a quel momento tutti i giorni della sua vita, dopodiché l’esorta a concedersi un bel pianterello, perché se non si piange per una cosa del genere – commenta – non vede proprio per cos’altro si debba piangere. Già, per cos’altro si dovrebbe piangere? Avrei una lista sterminata in proposito. 

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Quando Papa Francesco aveva paragonato la scelta di abortire all’assoldare un sicario per risolvere un problema, Dacia Maraini gli ha risposto con una lunga lettera sul «Corriere della Sera» in cui pur ribadendo il diritto ad abortire, partiva dal presupposto che per ogni donna l’aborto è un dolore, e che nessuna donna ha piacere ad abortire. Le avevo sentito esprimere più o meno la stessa posizione in un intervento pubblico alla libreria Tuba di Roma, dove sosteneva che nessuna donna di per sé desidera abortire. Contrapponeva l’aborto a una “maternità responsabile”, dal suo punto di vista, in un mondo “a misura di donna”, l’aborto non esisterebbe proprio. Ipotizzando anche di svegliarci un giorno in questo mondo a misura di donna, e in un mondo dove sia stato raggiunto un grado di eguaglianza e giustizia sociale statisticamente rilevante: davvero l’aborto non avrebbe ragione di esistere? Togliendo i possibili incidenti di percorso nonostante una “maternità responsabile” basata sulla contraccezione, una donna non può desiderare di avere un figlio e poi cambiare idea? Nel mondo a misura di donna che auspica Maraini, saremo in grado di stabilizzare una volta per tutte i nostri desideri? Non sono convinta sarebbe una grande conquista e un bel posto dove stare. 

Ma facciamo un passo indietro: che senso ha affermare che nessuna donna ha piacere ad abortire, a meno che la frase non significhi che nessuna donna ama sottoporsi, in generale, a un’operazione? Il ruolo chiave di un’operazione non è mai stato – presumo – il piacere che si prova sotto i ferri, a parte forse in qualche fantasia cronenberghiana, quanto il risultato di quell’operazione, la possibilità stessa che l’operazione esista. Oppure il senso della frase è che nessuna donna desidera abortire, in quanto nessuna donna desidera una gravidanza indesiderata? Ma a che servirebbe un enunciato così pleonastico?  

Alla lettera di Maraini avevano risposto sempre sul Corriere una serie di attiviste, operatrici sanitarie, psicologhe, contestando proprio questa narrazione del dolore (provato da ogni donna), eppure è quella che resta più efficace e condivisa, immediatamente comunicabile. Perché contro la metafora del sicario – che almeno dalla sua ha un azzardo di inventiva – ci troviamo ancora a rispondere con la mistica del dolore? Con un antiscientismo che riporta una scelta consapevole a una sofferenza endemica e irredimibile? 

“Che senso ha affermare che a nessuna donna ha piacere ad abortire, a meno che la frase non significhi che nessuna donna ama sottoporsi, in generale, a un’operazione? Il ruolo chiave di un’operazione non è mai stato – presumo – il piacere che si prova sotto i ferri”.

Se parlare di aborto può essere stato a lungo un tabù, oggi – nella produzione costante di storie che afferiscono all’io – il tabù è probabilmente stato superato, ma non il frame di tormento che si porta dietro. In molta memorialistica l’aborto rimane una ferita anche all’interno di un approccio analitico, e il linguaggio ricalca quello dell’elaborazione del trauma. Si potrebbe fare un’obiezione a proposito: che senso ha raccontare qualcosa che non ci ha procurato alcun trauma? Che non ci ha lasciato segni indelebili? Se non c’è niente da elaborare, che scriviamo a fare? 

È la seconda domanda che mi faccio con più frequenza dopo quella se valga la pena continuare a vivere. Per ora continuo a vivere, e continuo pure a scrivere, tenendomi le mie gravissime lacune in fatto di elaborazione. 

Veronica Raimo

Veronica Raimo è scrittrice, traduttrice, sceneggiatrice. Il suo ultimo libro si intitola La vita è breve, eccetera (Einaudi, 2023).

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