Paul Auster il francese - Lucy
articolo

Valerio Magrelli

Paul Auster il francese

04 Giugno 2024

Paul Auster è stato fortemente influenzato dalla letteratura francese. Ha tradotto anche un moralista oscuro a molti, ma non a Valerio Magrelli. Da questa coincidenza è scaturita una lunga e appassionante conversazione. Ricordarla è l’occasione per raccontare i rapporti culturali tra Francia e Stati Uniti.

La storia che vorrei raccontare ha una lunga e bizzarra premessa. Tutto ha inizio da un intoppo che hanno conosciuto molti fra gli studenti fuori corso: la scelta del soggetto cui dedicare la tesi. Certo, i miei erano altri tempi rispetto a oggi, e sembrava ancora normale prendersela comoda (erano gli ultimi bagliori di un privilegio che sarebbe scomparso con la riforma universitaria del cosiddetto “3+2”). Dunque, nessuna fretta nel cercare un argomento adeguato con cui concludere degnamente il percorso universitario.

Studiavo filosofia, e se non altro capii subito che un nome troppo celebre avrebbe comportato anni e anni di ricerca. Via Cartesio o Kant, via Wittgenstein o l’allora venerato Heidegger. D’altra parte, si presentava un problema perfettamente speculare: passi rinunciare a una stella del firmamento occidentale, ma non volevo certo mettermi a lavorare su un mediocre sconosciuto.

Insomma, con l’invidiabile presunzione del laureando, aspiravo a trovare un personaggio ignoto ma importante… Se ne andò molto tempo a setacciare repertori, a consultare enciclopedie, finché, strano a dirsi, ci riuscii. Miracolosamente, dalle mie indagini, venne fuori un curioso autore di note, un diarista, un aforista, vissuto in Francia sotto la Rivoluzione del 1789 e quasi completamente estraneo al mondo culturale sia francese, sia italiano.

Vorrei rassicurare i lettori arrivati sin qui: questo articolo parla di Paul Auster, non abbiate paura di aver sbagliato sala come quando si arriva al cinema in ritardo. L’avvertenza mi consente di avviarmi alla fine delle mie peripezie universitarie. Cominciata la stesura del mio testo, mi trasferii a Parigi, dove incontrai gli specialisti – pochissimi – dell’argomento. Erano tutti francesi, ma ricordavano con stima e affetto un giovane tedesco morto qualche anno prima. In breve, riuscii a penetrare nella piccola cerchia degli “Amici di Joseph Joubert” (questo il nome del mio eroe), una rete sparsa per il globo che contava e conterà sì e no una trentina di persone in tutto.

Termina qui la necessaria premessa a quello che ritengo un aneddoto minimo ma significativo. Erano passati almeno dieci anni dall’ingresso nel piccolo mondo antico del mio amato scrittore quando, tornato in Italia, vengo invitato a una cena. Sono a Roma, e raggiungo un gruppo di amici che l’editore italiano di Paul Auster ha mobilitato per celebrarne l’arrivo.

Fui subito colpito dalla bellezza del festeggiato, che mi fece pensare a un altro romanziere, molto meno rilevante sul piano letterario ma in compenso ben noto come attore, ossia Sam Shepard. Del resto, avevo già visto il film Smoke di Auster sceneggiatore, e avrei presto conosciuto le sue doti di interprete e regista. Evitando di stabilire paragoni con Pasolini o Garcia Márquez all’intersezione tra romanzo e cinema, la cosa che più importa è che avevo letto L’invenzione della solitudine, restandone profondamente colpito. A parte ciò, non avevo alcuna speciale ragione per conversare con l’ospite d’onore.

Paul Auster il francese -

Allora vado in giro da un invitato all’altro, da un bicchiere e l’altro, finché mi viene in mente un fatto che avevo completamente dimenticato, e che mi spinge a interpellare Auster. Era una persona di rara cortesia, e lo dimostrò accettando di ascoltare uno sconosciuto che gli raccontava le vicissitudini della sua laurea. C’era infatti un preciso motivo che mi aveva spinto a disturbarlo: mi ricordavo che il traduttore americano di Joubert, talmente ostinato da volgere dal francese in inglese oltre duecento pagine dei Quaderni, si chiamava appunto Paul Auster. Gli avevo scritto una lettera (trovandomi in era precedente le e-mail), lui mi aveva risposto, e insomma ci eravamo scambiati qualche parere. Da qui la mia domanda: era per caso suo parente?

Ricordo bene il sorriso incredulo che seguì le mie parole, insieme all’esclamazione festosa: “Ma no: sono io!” Ai miei occhi, ovviamente, la stranezza dell’incontro stava nell’identità del traduttore: chi aveva dedicato tanti mesi di lavoro a quell’autore oscuro, chi era penetrato in quella conventicola di studiosi joubertiani a dir poco microscopica, non era uno studentello come me, bensì Paul Auster! Il colloquio avrebbe potuto concludersi qui, invece fu proprio da questo momento che si entrò nel vivo della conversazione. La presenza della cultura francese nella produzione di Auster è cosa nota, io però la scoprii soltanto quella sera, e con immenso stupore. Documentandomi, ho appreso poi che tra i suoi primi contatti si registra l’incontro con il sommo poeta Francis Ponge. Auster lo conobbe grazie a un professore di letteratura padre della donna che diventerà sua moglie, Lydia Davis.

Bisogna poi ricordare l’epoca trascorsa alla Columbia University.  In un articolo apparso recentemente su «Le Monde» , Denis Cosnard ha dichiarato che in quel periodo Auster era ”pazzo di letteratura, specialmente francese”. Ciò spiega come mai elesse Parigi a sede in cui trascorrere un anno all’estero (vi era già stato nel corso del liceo). Dopo due brevi soggiorni nel 1965 e nel 1967, compie la leggendaria scelta di trascorrere un anno come marinaio sulla petroliera “Esso Florence” – esperienza che ricorda quella del grande autore belga Henri Michaux. Grazie al denaro così guadagnato, Auster fa ritorno in Francia, sempre nella capitale, dove si trattiene dal 1971 al 1974. Si tratta di un periodo caratterizzato da grandi difficoltà economiche, secondo uno stile di vita tipico dell’ambiente musicale, letterario e cinematografico di “un americano a Parigi” (non per niente, fra le tante attività, lo scrittore tentò senza successo di entrare all’Institut des hautes études cinématographiques).

Auster, cito da un sito assai documentato, vivrà di lezioni private, saltuarie collaborazioni ai giornali, redazione di soggetti per film muti e appunto traduzioni da scrittori di quello che non esitò a definire “il mio secondo paese”. Tra gli autori menzionati si annoverano due poeti, il supremo, “intraducibile” Stéphane Mallarmé e Jacques Dupin (poco conosciuto in Italia, ma che può vantare due ritratti realizzati da Alberto Giacometti e Francis Bacon). Alla lista va aggiunto un filosofo-narratore-drammaturgo, Jean-Paul Sartre, e il romanziere capofila del genere giallo, Georges Simenon. Di ritorno a New York, Auster continua a comporre poesie e opere teatrali, mentre traduce dal francese e dedica a quella letteratura diversi articoli di critica letteraria. Scoverò in seguito la notizia secondo cui la Princeton University lo accolse come insegnante non solo di scrittura, ma anche di traduzione. Di contro, la Francia omaggerà il suo ammiratore conferendogli nel 1993 il premio Médicis étranger (riservato ad autori stranieri) per il suo Leviatano.

“Vado in giro da un invitato all’altro, da un bicchiere e l’altro, finché mi viene in mente un fatto che avevo completamente dimenticato, e che mi spinge a interpellare Auster. Era una persona di rara cortesia, e lo dimostrò accettando di ascoltare uno sconosciuto”.

È quindi in un’ampia corona di letterati che va collocata la scelta compiuta da Auster nell’affrontare gli scritti di Joubert, i quali scritti, è venuto il momento di aggiungere, ebbero peraltro grandi estimatori. Troviamo tra di essi pensatori quali Walter Benjamin, Maurice Blanchot o Elias Canetti, che arrivò a considerarlo il moralista a lui più caro. Ma torno per un istante alla mia conversazione romana. Infatti, ben oltre l’autore su cui mi laureai, essa toccò piuttosto il rapporto tra lo scrittore (oltre che poeta e sceneggiatore) statunitense e la cultura francese nel suo complesso. Si tratta di una relazione abbastanza particolare, dato che la poesia e la prosa americana risultano molto spesso ostinatamente chiuse rispetto a influenze esterne.

Un’eccezione in tal senso (oltre agli insigni Gertrude Stein, Ernest Hemingway, Ezra Pound, James Baldwin) è stata rappresentata dal poeta John Ashbery, fra i maggiori della sua generazione. Dopo aver vissuto una decina d’anni a Parigi, a partire dal 1955 Ashbery tradusse poesia e prosa francese, tra cui versi di Arthur Rimbaud e di Yves Bonnefoy. Per il resto, però, si può dire che i rapporti tra le due letterature siano rimasti piuttosto distanti a differenza di quanto avveniva sul piano storico. La lunga vicenda dell’amicizia tra la Francia e gli Stati Uniti si può fare cominciare dalla fine del Settecento, quando Parigi, in funzione anti-inglese, appoggia energicamente la rivolta dei coloni contro la madrepatria. Lo testimonia il marchese de Lafayette, protagonista della rivoluzione americana prima, francese poi. Il legame si stringe ulteriormente grazie a Benjamin Franklin, ambasciatore degli Stati Uniti in Francia dal 1777 al 1785, e Thomas Jefferson, terzo presidente americano che, nel periodo precedente la Rivoluzione del 1789, trascorse cinque anni a Parigi.

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Da qui arriviamo a quella specie di anello matrimoniale tra le due nazioni rappresentato dalla Statua della Libertà. Realizzata da Frédéric-Auguste Bartholdi e Gustave Eiffel, il fastoso e simbolico dono venne offerto dalla Francia al popolo degli Stati Uniti nel 1886 (ma due sue riproduzioni, molto più piccole, si trovano a Parigi). Le guerre mondiali del Novecento hanno rinsaldato un simile legame, che sul piano culturale è culminato nella profonda penetrazione del pensiero di Jacques Derrida negli USA a partire dagli anni Sessanta. Tuttavia, verso la fine del secolo, la situazione è profondamente cambiata. Nell’arco di poco tempo, la Francia è infatti diventata il capofila europeo dell’antiamericanismo. Tra tante manifestazioni in tal senso spicca quella relativa al progetto di impiantare in terra francese un parco Disneyland: inaugurata nel 1992, l’iniziativa venne accolta da vibrate proteste, che videro nel progetto consumistico la realizzazione di una autentica “Cernobyl culturale”.

Da parte degli statunitensi, il dissenso si espresse invece con il proposito di sabotare prodotti tipici francesi quali lo champagne e il formaggio, visti come testimonianze di una cultura degna dei cosiddetti “mangiatori di rane”. Fortunatamente, autori come Auster o Ashbery dimostrano come la letteratura possa superare tali forme di smodato nazionalismo. Ecco perché ho un ricordo dolce e istruttivo di quella mia lontana serata con il “traduttore di Joubert”. Chi avrebbe mai immaginato che l’intellettuale nativo di Newark, lo scrittore di origini ebraiche amico e conterraneo di Philip Roth, il cantore di New York, si fosse formato passando attraverso la cultura francese? Ogni volta che si parla di “pulizia etnica” bisognerebbe proporre piuttosto un modello basato sul meticciato, magari sulla “sporcizia culturale”.

Valerio Magrelli

Valerio Magrelli è poeta, scrittore, francesista, traduttore e critico letterario. Il suo ultimo libro Exfanzia (Einaudi, 2022).

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