Oggi il mercato editoriale italiano è dominato dai filoni: saghe familiari, storie di donne coraggiose del passato. Si riduce quindi lo spazio per la letteratura sperimentale e di ricerca, rendendo troppo omogenea e povera l’offerta e più difficile l’emersione di nuovi talenti letterari. Come fare?
Da ultimo, i discorsi sull’editoria si concentrano più sui numeri che sulle tendenze, eppure forse bisognerebbe ragionare almeno un po’ sui filoni. I filoni, al momento, sono quelli che portano a pile di libri che hanno in copertina un volto di donna, possibilmente un po’ retrò. Un filone fra i molti che si sono susseguiti, e che riguarda in questo caso il romanzo storico-familiare-industriale: nulla di nuovo, certamente, anche perché ogni filone risponde a un bisogno sociale e non solo narrativo, e probabilmente questo è un momento in cui si guarda molto più volentieri al passato, al sé, o alle antenate di quel sé, che ad altri mondi.
Però non è fuor di luogo chiedersi quanto almeno parecchie (sarebbe ingeneroso parlare della totalità) di queste storie portino al rifiuto di altre proposte. Per parlarci chiaro, da facilissimo che era fino all’altro ieri, pubblicare è diventato difficile, laddove il romanzo si discosti da quello che al momento si preferisce. La domanda successiva è: quanto tutto questo influisce sulla lettura? Quanto siamo disposti, oggi, ad affrontare un romanzo “difficile”, che mette felicemente alla prova chi legge? Per questo ho pensato di discuterne con una scrittrice come Claudia Durastanti, che ben conosce il mercato editoriale italiano ed estero, che ha attraversato “anche” il memoir scardinandolo (La straniera) e “anche” il romanzo storico rovesciandolo in fantascienza (Missitalia). E che, come la sottoscritta, non ha mai nutrito supponenza verso la narrativa che oggi potremmo definire di consumo, e che oggi, in effetti, è non predominante ma quasi totalizzante.
Loredana Lipperini: La premessa è che mi sono sempre occupata di cultura popolare, o se preferisci di nomadismo dei saperi. Nei fatti, ho sempre scritto della stessa cosa: ho cominciato in Mozart in rock, che è uscito nel 1990, dove provavo a dimostrare che non aveva senso continuare a concepire l’opera d’arte come categoricamente aliena da ogni sospetto di consumo, e che poteva e doveva essere fruita anche in modo pop, perché non era per pochi, ma per tutti. Ho continuato dieci anni dopo con Generazione Pokémon, provando a riflettere sulle modalità di fruizione culturale che i bambini e le bambine mettevano in atto attraverso quella che era, certamente, una gigantesca operazione di mercato. Ero affascinata dal concetto di “animadvertere”, una sintesi tra la parola “anima” e la parola “advertising”, coniata da due sociologi, Fulvio Carmagnola e Mauro Ferraresi, per sostenere che anche le merci esprimevano un sentimento del tempo. Infine, in Ancora dalla parte delle bambine, mi chiedevo quanto passasse di quel sentimento del tempo in canali severamente pop, bambole e pubblicità e cartoni animati.
Il nomadismo dei saperi è quello che mi ha sempre attratto, ed è per questo che mi sono sempre interessata della diffusione della cultura attraverso canali imprevisti.
Ora, però, le cose stanno cambiando, e anche abbastanza in fretta. Penso a quel che accade in editoria. Siamo ancora capaci di leggere libri difficili? potrebbe essere la domanda sintetica. La domanda estesa riguarda i filoni: oggi predominano indubbiamente le saghe familiari, o “storie del secolo scorso con protagonista una donna coraggiosa” o “mestieri femminili dimenticati o sottovalutati”. Il che non sarebbe un problema in sé, come non sarebbe un problema il trionfo del romance già certificato all’ultimo Salone del Libro di Torino. Temo che diventi un problema, però, se questo diventa l’unico biglietto da visita dell’editoria italiana. Che ne pensi?
Claudia Durastanti: Quando parli di “nomadismo dei saperi”, usi un plurale che all’epoca aveva una sua concretezza storica: per gli appassionati di musica, cinema o letteratura dotati di maggiore libertà e curiosità c’era una specie di ascensore che si muoveva sia in verticale sia in orizzontale; era possibile sperimentare la cultura popolare in più direzioni. Ovviamente anche all’epoca – e direi che questo è stato vero almeno fino al Covid (con l’inattesa ripresa della literary fiction, del consumo della letteratura non solo di intrattenimento e la nuova esplosione dei classici) – c’era un giudizio molto severo nei confronti di chi fruiva di prodotti troppo commerciali o verso le scrittrici e gli scrittori che sfruttavano la narrativa di genere – magari senza neanche amarla o conoscerla troppo – solo per ricavarne maggiore popolarità. Ma c’erano degli steccati precisi, soprattutto tra musica alternativa e mainstream, dove c’era ancora un una specie di codice d’onore o era comune ricevere l’accusa di essersi venduti. Erano proprio questi spazi diversi segnalati da recinzioni più o meno facili da attraversare a garantire una pluralità di scelta. Io credo che oggi siano spariti proprio gli steccati, il che magari è un bene, e così gli spazi da scegliere o da scartare hanno finito per somigliarsi tutti. Trasformando, almeno in ambito letterario, il territorio dedicato alla scrittura sperimentale o di ricerca in una zona d’ombra difficilmente frequentabile e raggiungibile, non solo per chi legge, ma anche per chi scrive o per chi produce.
Per restare in ambito pop, la Literary Fiction sta diventando come Fantasia in The Neverending Story di Ende: a chi importa davvero che questo territorio sopravviva ? O meglio: a chi non importa? Chi scrive si immalinconisce, chi legge pure, i librai non ne parliamo, e pure gli editor che vedono snaturata la propria professione in base a tabulati e ai dati sulle vendite non si sentono benissimo. Ma perché questa malinconia non sta diventando altro, o non ancora? È forse davvero troppo piccola la comunità di cui stiamo parlando? È solo la fatica di accettare la propria irrilevanza ad alimentare questa sensazione diffusa di malessere, che non sta generando risposte creative da nessuna parte?
“I discorsi sull’editoria si concentrano più sui numeri che sulle tendenze, eppure forse bisognerebbe ragionare almeno un po’ sui filoni. I filoni, al momento, sono quelli che portano a pile di libri che hanno in copertina un volto di donna, possibilmente un po’ retrò”.
In un articolo uscito per il «Guardian» sulla mediocrità dei consumi legata anche all’appiattimento sulle AI, Chuck Klosterman ricorda che l’idea dell’artista accusato di “essersi venduto” è ormai incomprensibile per le nuove generazioni, insieme a una marea di discorsi sulle condizioni di pubblicazione, sulla ricerca della qualità. La galassia del pop-ottimismo si è espansa fino al punto di ingoiare tutto il resto. Io mi chiedo non tanto se sia possibile tornare indietro – una delle opzioni è che la Literary Fiction diventi ancora più di nicchia, con edizioni costose e ricercate, e che ritornino forme di snobismo semi-vittoriano di cui sinceramente è difficile sentire la mancanza (non voglio sentirmi meglio degli altri leggendo letteratura difficile, vorrei che la letteratura difficile avesse se non altro la possibilità di trovare dei lettori non usuali, diversi da me, per il semplice fatto che una libreria continua a proporla) – quanto trovare una forma diversa di equilibrio, inventarsi un nuovo nomadismo dei saperi aggiornato alla sensibilità che è cambiata.
L: Veniamo ai filoni. La questione non è nuova, ovviamente. In realtà comincia a farsi evidente al cinema. Dopo la trilogia del dollaro di Sergio Leone, e dopo il successivo C’era una volta il West, il western all’italiana o spaghetti western conobbe una proliferazione inarrestabile. Ma dopo quel boom, che predomina negli anni Sessanta e Settanta, il filone si dissecca e muore, almeno in quella forma, e ci vorranno molti anni, e riletture geniali come quelle di Quentin Tarantino, per farlo tornare in circolazione.
Per quanto riguarda i libri, la predominanza dei filoni ha avuto almeno tre precedenti: dopo l’uscita di Gioventù cannibale, nella seconda metà degli anni Novanta, quando ogni editore cercava il suo cannibale, o pulp a seconda di come veniva chiamato, purché fosse giovane e “disturbante”, qualunque cosa voglia dire. Dopo l’uscita di Harry Potter, quando la letteratura per ragazze e ragazzi è stata invasa da protagonisti un tempo osteggiati, e dunque bambine e bambini con poteri magici e animali fantastici al seguito. Dopo Twilight, quando non c’era editore che non pubblicasse storie, in genere d’amore, con vampiri, licantropi, zombie (giuro) e tritoni.
Nei tre casi, una volta finita la sbornia, nessun editore voleva sentir parlare di questo tipo di romanzi: non vende più, era quasi sempre la risposta.
In precedenza, però, la bibliodiversità non veniva minacciata, proprio perché la proposta non era così compatta come oggi, e soprattutto l’editoria era più in salute. In parole povere, i libri si vendevano, oggi molto meno. Certo, chi scrive e vende moltissimo non se ne preoccupa affatto, e anzi spesso si risente se la questione viene fatta notare. Ma è lungimirante ignorarla?
C: Prendiamo un genere dominante in libreria e che da un po’ di tempo definisco “fascio-romance”, caratterizzato dai seguenti tratti essenziali: l’intersezione tra narrativa di consumo e storie di emancipazione femminile su uno sfondo storico ideologicamente esasperato e con dei personaggi molto netti, quasi delle maschere fisse, magari con un richiamo ai mestieri tradizionali, in una prospettiva tendenzialmente edificante. Come ha fatto a diventare un fenomeno di questa portata, al di là della convergenza ambigua con il fenomeno delle trad-wives e il fascismo al governo? Del resto sul fronte musicale le stesse Taylor Swift e Lana Del Rey ultimamente stanno optando per un’estetica più domestica e para-conservatrice, dopo aver indagato a fondo diverse ondate del femminismo nel loro repertorio. E qui mi verrebbe da chiamare in causa proprio il pop-ottimismo all’interno del femminismo mainstream stesso, l’entusiasmo con cui negli ultimi anni abbiamo abbracciato il cosiddetto femminismo della presenza, la possibilità di essere ovunque e comunque, senza interrogare in maniera troppo critica i contesti di produzione e di fruizione del pensiero legato alla lotta e al movimento delle donne. Il pop-ottimismo è l’impulso a interpretare l’abbattimento degli steccati di cui sopra come una forza sempre positiva, quasi di rottura appunto, ma va ripensato. La gioia che provoca una maggiore visibilità delle scrittrici nei cataloghi delle case editrici, associata a una maggiore capacità di vendita, ha fatto sì che una questione di mercato venisse raccontata come una questione di genere, una trappola che penso sia onesto dire che ci vede in parte responsabili: l’abbiamo costruita insieme sulla scia di decenni di rimozione, oscuramento e ostracismo. Però oggi l’autocritica è fondamentale, anche verso le operazioni editoriali dedicate alle scrittrici del Novecento: che godimento può scaturire ancora da questo scavo filologico se non viene accompagnato da un sostegno verso le scrittrici del presente, magari non esordienti, magari al quarto, quinto libro, che continuano a fare ricerca o a produrre libri originali ma non sempre trovano il sostegno di un reparto editoriale lungimirante perché non sono morte né si sono consegnate al romance? Se penso al prezioso Amatissime di Giulia Caminito, di cui è appena una edizione aggiornata e fa il paio con un classico come Le signore della scrittura di Sandra Petrignani, non posso fare a meno di chiedermi chi saranno le scrittrici che popoleranno pagine simili tra vent’anni. Scrittrici diverse come Elisa Casseri, Ginevra Lamberti, Emmanuela Carbé e Laura Marzi, che spaziano dal romanzo alla saggistica e intersecano prosa e teoria portando avanti una loro linea, un loro modo di interrogare la loro letteratura. Gli spazi per questo tipo di attenzione si stanno riducendo, e siamo nella situazione paradossale per cui De Cespedes, Cialente e Banti ci sembrano freschissime mentre le nostre contemporanee in classifica ci sembrano delle antenate polverose e addirittura deleterie; ci muoviamo tra le autrici da disseppellire e quelle nate già vecchie, in una prospettiva sballata in cui a dominare è comunque il passato. Se la macchina chiede una sola cosa per andare avanti, a un certo punto diventa un atto di responsabilità smettere di fornirgliela: vale per tutte le persone coinvolte nella filiera editoriale. Se invece si vuole continuare a procedere così in nome dei propri bilanci e di quelli aziendali, spero almeno che ci si liberi dall’ipocrisia di considerarla una rivoluzione culturale o femminista: il romance così come lo stiamo sperimentando non ha quasi nulla di emancipatorio e interessante. È una costellazione di trope e moduli fissi che Chat GPT in confronto è Gertrude Stein.
L: Quindi, secondo te, la rappresentazione della produzione editoriale del nostro paese è falsata?
C: È la retorica di cosa ci aspettiamo dalla lingua, dalla cultura e dall’immaginazione di un paese in un dato momento storico. Le fiere del libro come quella di Francoforte sono sempre dei momenti per valutare, per quanto in maniera approssimativa, i temi e la salute di una scena letteraria locale. L’Italia posseduta dalla trinità autofiction, crime e famiglia (Donnaregina di Teresa Ciabatti è interessante e vivo proprio per come unisce queste tre cose facendole saltare in aria) propone ed esporta molti testi legati al fascio-romance ed è disonesto attribuire questa tendenza al fenomeno di Elena Ferrante, che semmai ha contribuito a trovare nuovi spazi per la letteratura italiana in generale. Tolta la cornice delle amiche del quartiere popolare che lottano contro tutte le avversità e una somiglianza di superficie con l’universo di Ferrante, il vero problema di questi testi è legato a un ripiegamento generale in cui l’ossessione verso il fascismo storico (più che quello attuale) sta sbranando l’immaginazione collettiva: lo si vede nell’ambito della saggistica, della militanza intellettuale, della proposta romanzesca, pure quella animata da buone intenzioni e con risultati più o meno discreti. Il terrore nell’interagire con il potere che cambia, l’imbarazzo di studiare il presente per paura di uscirne con le ossa rotte, fa sì che il romanzo italiano contemporaneo commerciale e upmarket, quello che vende alle fiere appunto, rinunci quasi completamente a trovare una via di fuga dal modello pedagogico della Storia, in cui il passato può dirci qualcosa sul presente. Ma il passato spesso è muto, il genocidio a Gaza non fa che ribadirlo.
Tra tutte le colpe attribuibili al potere italiano in carica va data anche quella di aver generato almeno finora una letteratura poco ispirata, prevedibile nei meccanismi e le intenzioni, in cui tutto si fa metafora e gli oggetti perdono concretezza, fisionomia. È una narrativa che procede per proverbi, ma senza nomi né personaggi. Le cose buone invece maturano da un confronto con i cambiamenti e dalla reattività del presente rispetto all’idea di tradizione (Acqua Sporca di Nadeesha Uyangoda) o da un lavoro sull’archivio della lingua che resta fantastico e libero (Lo sbilico di Alcide Pierantozzi). Un’altra felice eccezione è il successo internazionale di Le perfezioni di Vincenzo Latronico, un libro ricercato, formalmente inventivo e letterario che ha venduto più di ottantacinquemila copie all’estero arrivando all’International Booker Prize. Un esempio di literary fiction scritto da una posizione rischiosa, dopo anni di silenzio, che forse si è salvato anche per quel modo di considerare la letteratura italiana come parte di un discorso europeo, poco domestico.
L: Riprendo quello che dicevi poco fa per una domanda spinosa: viene detto che il trionfo di questi libri è un trionfo del femminismo e delle donne che scrivono e che leggono. Personalmente non ne sono convinta: tante volte ci siamo dette che il mancato riconoscimento dell’autorevolezza delle scrittrici è un problema ancora irrisolto, e basti pensare alle reazioni quando è una scrittrice a vincere un premio letterario prestigioso o, come è avvenuto con Elena Ferrante, a salire sul podio del «New York Times». Ma mi sembra che qui la questione sia leggermente diversa, e che non si faccia leva tanto sulla qualità quanto sui numeri. E qui vengo a un altro articolo che mi hai segnalato, quello sullo snobismo culturale scritto peraltro da un’esperta di pop culture, Rachel Aroesti, per il «Guardian». Il cuore dell’articolo è l’ossessione per i numeri (Vende! Fa ascolti!) e per l’imitazione deliberata di un modello che predomina in ogni campo, libri, musica, serie televisive, film. Insomma, non è neanche più questione di libri difficili: è proprio la possibilità di scegliere un’altra strada che è diventata esigua. E qui il femminismo non c’entra niente, perché i femminismi non sono, o non dovrebbero essere, il “purché sia una donna”.
C: A proposito del primo volume dell’Amica Geniale che viene votato come libro del secolo da una giuria di esperti per il NYT: nella motivazione si discute ovviamente dell’anonimato di Ferrante, ma ciò malgrado, e malgrado l’impossibilità di conoscere davvero la vita dell’autrice, il romanzo viene definito uno dei premier exemples della cosiddetta autofiction. Questa definizione così grossolana e maldestra (a meno di non credere nell’autofiction del fantasma) a fronte di un’opera che ha fatto di tutto per confondere le tracce, rivendicando la possibilità dell’invenzione a partire da un contesto geografico e storico iper-familiare e riconoscibile, un’opera che deve a Elsa Morante e dunque alla madre immaginata molto di più di quanto deve a una madre, zia, migliore amica o nonna veramente esistita, mi pare abbia fatto discutere poco. La linea matrilineare qui è letteraria, non autobiografica, ed è per questo che ha generato tante eredi in giro per il mondo, per quanto molte di loro infelici.
Al di là della spia di misoginia – bisogna sempre ricondurre una storia di donne alla verità del vissuto – è proprio un segno di sciatteria interpretativa. Questo dimostra che il procedere per pensieri algoritmici, riconoscibili e stereotipati è dilagante, che anche chi ha il compito di facilitare la comprensione critica dei testi si abbandona a queste formule e definizioni merceologiche perché sono quelle intellegibili, quelle evidenti, sono la verità. C’è poco da gioire allora, se la celebrazione di un fatto apparentemente letterario viene abdicata ad altro.
L: Diventa a questo punto difficile distinguere e soprattutto valorizzare, all’interno dei filoni, i romanzi che hanno un valore letterario, diciamolo. Anzi, leggendo alcune reazioni alla questione ho scoperto con sorpresa, e anche un po’ di malinconia, che la letteratura è considerata “noiosa”. Ho un po’ di ritrosia a parlarne, proprio perché sono sempre stata convinta che il pop non sia noioso, e sia a tutti gli effetti cultura. Ho intrapreso liti accese con critici e scrittori difendendo una serie televisiva a mio parere migliore di molti romanzi. Ma il punto non è più questo: è proprio il restringersi delle scelte. E questo non può non essere un problema degli editori, di chi scrive e, sì, anche di chi legge: ma non perché vada demonizzato se sceglie di leggere un determinato best-seller. Sono stata sempre convinta che ognuno di noi contenga più lettori, e che si possa passare da Foster Wallace a Dan Brown con tranquillità a seconda degli stati d’animo. Ma stavolta è diverso. E allora cito Aroesti che cita Foster Wallace, appunto: “in un’intervista del 1993, David Foster Wallace definì la cultura ‘bassa’ – come la TV e il cinema popolare – come un’arte redditizia perché sa che ‘il pubblico preferisce il piacere al 100%’. L’arte seria è ‘più incline a metterti a disagio o a costringerti a lavorare sodo per accedere ai suoi piaceri, allo stesso modo in cui nella vita reale il vero piacere è solitamente un sottoprodotto del duro lavoro e del disagio’.
Potremmo vivere in un’epoca in cui guardare un intero programma televisivo senza guardare il telefono sembra una contemplazione monastica, ma l’ethos di Foster Wallace rimane vero e applicabile. Più l’arte è facile da consumare e produrre, e più è focalizzata sulla remunerazione, meno ci offre: niente spunti di riflessione, solo una riaffermazione in un’epoca in cui le camere di risonanza sono la norma”. Non ti chiedo come se ne esce. Però, cosa dovremmo fare, tutti noi che viviamo nel mondo dei libri? E, soprattutto, possiamo fare qualcosa?
C: È un discorso che capisco bene e mi fa sentire un po’ in difetto, perché è appunto da quasi cinque anni, dopo il Covid, che percepisco la mia incapacità di entusiasmarmi per una forma nuova in letteratura. Ho sempre avuto la sensazione di essere una fruitrice culturale in grado di capire bene il succedersi delle tendenze, dei cicli, dei passaggi temporali: ora mi sembra di non riuscirci più. Prima riuscivo a fare un’abbondanza di esempi sui romanzi recenti che mi avevano procurato una vera gioia. Per restare nell’ambito del romanzo americano, quello che uso come parametro “medio”, sono anni che mi ripeto come una macchinetta durante le presentazioni e riesco a nominare solo Trust di Hernan Diaz e Biografia di X di Catherine Lacey, tanto che sembra che non abbia letto altro dopo. E cioè quei romanzi che somigliano un po’ a Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan e che ormai sembrano appartenere al giurassico: il romanzo in cui il gusto della sperimentazione e dell’appagamento cerebrale non è estraneo dal godimento e da un’esperienza di piacere. Siamo lontani dal romanzo sublime o trasformativo che segna un prima e un dopo, questi libri non sono Infinite Jest o Underworld, ma fanno qualcosa, non si limitano a raccontare una storia.
Ecco, io sento la mancanza di romanzi che fanno qualcosa oltre a raccontare bene una storia: che siano piccole macchine pensanti, che creino la voglia maniacale di parlarne, che ispirino una gioia anche ingenua e adolescenziale e inneschino il contagio. In Italia questa cosa non è riuscita nemmeno con La nostra parte di notte di Mariana Enriquez, romanzo imperfetto ma kinghiano come pochi, qualcosa che proprio per il modo in cui abbiamo sempre ricevuto la letteratura tradotta faceva sperare in ben altri esiti di popolarità e vendite. Sento la mancanza di romanzi che facciano sulla pagina quello che Paul Thomas Anderson sa portare al cinema, e non so dire se sia un problema di formati o di inerzia cognitiva o di dipendenza dallo schermo e da un’aspettativa di intrattenimento e velocità, non mi dilungo su questo, ma so che ne trovo sempre meno. Perché uno degli effetti di contrappasso della Literary Fiction che si ritira in una zona d’ombra (e qui mi sento un po’ parte in causa!), è che poi la voglia di scrivere storie multidimensionali su più piani narrativi, magari un po’ smargiasse ma che cercano qualcosa tra lingua, trama e costruzione di un mondo alternativo, è che ci si autoconvince di essere degli unicorni e dunque tanto vale farla difficile. Di conseguenza certi romanzi letterari possono diventare un po’ esasperanti, o noiosi come dici tu. In un circolo vizioso di marginalità e bisogno di spezzare questa marginalità attraverso tentativi sempre più solitari e astratti. Un’altra tendenza che noto, e che forse sta contribuendo alla riduzione della sensibilità e all’appiattimento del gusto, è la diluzione del genere per dare quella spolverata di stranezza “accettabile”. Il rapporto tra fantascienza e Orbital di Samantha Harvey per intenderci. La fantascienza soft, l’horror soft, etc, il dilagare in altri spazi narrativi per prendere in prestito una tazzina di zucchero e creare storie che sono carine abbastanza. Ecco, forse è il momento good enough: si dà tanto la colpa all’AI per questo, ma è una mentalità editoriale che precede di molto l’applicazione malvagia della tecnologia. Il good enough riguarda anche la lavorazione dei libri: una traduzione sufficientemente buona, un editing sufficientemente buono, una trama sufficientemente buona, tutte cose che ottengono un lasciapassare e una certificazione di qualità e creano una specie di narcolessia generale. Ma è difficile innamorarsi in un contesto così, semmai si passa una serata piacevole.
L: Io penso che sia il momento di cambiare, se non tutto, molto, nel mondo editoriale. Che dici?
C: Ormai le conversazioni tra addetti editoriali somigliano a quelle tra agenti immobiliari durante il crollo del mattone e la bolla dei mutui: raramente incontro qualcuno che parla della bellezza delle finiture o della necessità di una manodopera ben pagata per ottenere uno spazio in cui si ha voglia di abitare. Si vendono appartamenti sopravvalutati e con prezzi fuori dal mercato sapendo benissimo che non valgono quell’investimento e continuando a fingere che per arrivare a quel risultato non si sia umiliato il lavoro artigianale che ne è alla base, da qualsiasi punto di vista. Forse avere la nausea e un intimo disprezzo per questa dinamica non è la cosa peggiore che possa capitarci: e magari serve anche a chi scrive per non contribuire a intasare la produzione editoriale di storie abbastanza carine ma che non fanno niente. Bisogna pretendere anche qualcosa di più da sé stessi, e non avere paura del silenzio e della solitudine necessari per arrivarci. Se poi un’opera così concepita e scritta cadrà nel vuoto generale, almeno non si avrà la sensazione di aver agito cinicamente, sarà venuta meno una complicità che alla fine danneggia pure gli altri: non solo le altre scrittrici e scrittori, ma editor, redattori, uffici stampa, fino a libraie e magazziniere. Trovo sempre ingenua la posizione di chi ignora le professioni attorno ai libri, a chi non si fa un giro attorno per capire come funziona il sistema e passa il tempo a lamentarsi del suo logoramento. Un romanzo fallito è un problema personale, cento romanzi falliti sono una questione collettiva. E chissà se il disprezzo attivo, che non è solo lagna, saprà creare scenari radicali in cui la voglia e la febbre del romanzo letterario tornerà ancora. Io ci spero, ma è uno sforzo coordinato e comune. in cui bisogna rinunciare al conforto di tante bugie romantiche e autoassolutorie che ci siamo raccontati negli anni. Comprese quelle sul genere.