Seishi Yokomizo ha raccontato un altro Giappone attraverso il giallo - Lucy
articolo

Giorgia Sallusti

Seishi Yokomizo ha raccontato un altro Giappone attraverso il giallo

19 Agosto 2024

Il Giappone vanta una solida tradizione in fatto di libri di genere che conosciamo ancora poco. Quelli di Seishi Yokomizo, massimo giallista nipponico, hanno al centro detective impacciati, killer mossi da ragioni imperscrutabili, un fondale fatto di aree rurali in cui si sfogano oscure ossessioni.

C’è una fotografia in bianco e nero appesa sulla facciata di una bottega nel quartiere di Jinbōchō, a Tōkyō. È una foto di gruppo, circa trentacinque persone che sorridono in posa davanti all’obiettivo, accanto all’insegna che recita «Hachimaki – Tenpura». I soggetti fotografati fanno parte del club giapponese degli scrittori di detective story, e l’insegna è quella di un ristorantino che serve fritture tenpura fin dagli inizi del periodo Shōwa (1926–1989). Il club si riuniva a bere lì per commentare i fatti del giorno e mangiare fino a tardi. Hachimaki è ancora oggi come allora, con piccole stanzette fumose, un cucinino dove il fritto più che un odore è ormai una presenza, e una storia intrecciata con la letteratura giapponese del Novecento. Qui Edogawa Ranpo, decano del genere e fondatore del club, ordinava il suo pesce fritto durante le lunghe discussioni con i soci, nel mezzo del quartiere che ha la più alta densità di librerie e caffè letterari del paese.

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Gli anni Venti e Trenta sono un periodo fertile per la narrativa poliziesca giapponese. Il genere raggiunge il suo primo picco di popolarità negli ultimi decenni dell’Ottocento, grazie alle traduzioni pionieristiche del giornalista Kuroiwa Ruikō, e da allora svilupperà un tenace seguito di lettori, soprattutto tra i giovani delle città. Le riviste dedicate alla narrativa di genere crime proliferano, mentre sugli scaffali delle librerie si fanno strada storie di omicidi inspiegabili risolti con deduzioni brillanti. La rivista «Shinseinen» («Nuova gioventù»), pubblicata tra il 1920 e il 1950, per esempio, pubblica regolarmente sia traduzioni giapponesi di racconti polizieschi stranieri sia storie originali di autori nipponici.

Il genere continua a prosperare fino alla fine degli anni Trenta, quando i cambiamenti nel clima politico – sempre più militarista e avvitato su un piano di aggressiva espansione asiatica – rendono difficile per autori e editori giustificare opere basate su criminalità e intrighi considerati immorali, in contrasto evidente con l’ideologia della nazione. All’inizio della guerra del Pacifico, i polizieschi entrano in un periodo di ibernazione, non solo a causa della stretta governativa su certe tematiche scabrose, ma anche per una pressione tutta interna, l’autocensura. E sebbene il consumo di narrativa poliziesca persista, diminuisce la produzione di nuove opere, sia originali sia tradotte. Alcuni autori prestano il loro talento allo sforzo bellico, con la propaganda, altri smettono del tutto di scrivere.

Con la fine della guerra, gli scrittori di crime riprendono da dove hanno lasciato. Nel tentativo di riportare il genere ai fasti prebellici, in molti riciclano le trame, i personaggi,  gli espedienti che avevano fatto il loro successo negli anni precedenti.

Un’eccezione è Yokomizo Seishi, il cui contributo al genere è decisivo. È il suo stesso protagonista primario, Kindaichi Kōsuke, a suggerire che Yokomizo non si è limitato, come molti dei suoi omologhi, a importare stili e trame. Piuttosto, Kindaichi dimostra il virtuosismo con cui Yokomizo sa manipolare le regole esistenti del giallo e le convenzioni della narrativa occidentale per confezionare un nuovo tipo di investigatore, pieno di tic e dalla mente eccellente, e un nuovo assassino, che terrorizza i lettori giapponesi del dopoguerra: qualcuno che può uccidere chiunque in qualsiasi momento e, apparentemente, senza una ragione comprensibile. In pratica, il moderno serial killer.

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Yokomizo nasce a Kōbe nel 1902, e già da ragazzo è un vorace lettore di storie crime. Nemmeno vent’anni dopo pubblica la sua prima storia nella rivista di genere «Shinseinen». Studia farmacologia per portare avanti l’attività di famiglia a Ōsaka, ma cede quasi subito alle lusinghe e agli incoraggiamenti di Edogawa Ranpo e si ritrova a Tōkyō per tentare la carriera di scrittore. Gli va bene: per i primi anni lavora come editor per la casa editrice Hakubunkan, e nel 1932 si licenzia per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Muore nel 1981. Solo un anno prima, la casa editrice Kadokawa Shoten gli aveva intitolato un premio letterario piuttosto ambito perché chi vince incassa un premio in denaro di dieci milioni di yen e una statuetta del famoso Kindaichi Kōsuke, il protagonista delle storie di Yokomizo.

In Gokumontō (“L’isola di Gokumon”, o più letteralmente, “L’isola dei cancelli dell’inferno”) del 1947, il primo romanzo di Yokomizo ambientato nel Giappone del dopoguerra, lo scrittore prende spunto dalla letteratura europea per creare un omicida che, uccidendo vittime apparentemente innocenti non per moventi personali ma secondo una logica  trascendente, più impersonale, incarna il turbolento mondo del dopoguerra del Giappone rurale, accordando col gusto giapponese gli omicidi alla “nursery rhymes” di S. S. Van Dine e Agatha Christie. L’assassino dispone la scena del delitto come nelle ambientazioni delle filastrocche inglesi popolari, le rhymes appunto; ma Yokomizo le trasfigura nella forma più compiutamente giapponese, la poesia haiku di Matsuo Bashō. Con un assassino che sembra folle, il cui unico movente è quello di trasformare l’omicidio nell’esperienza estetica della poesia utilizzando i corpi delle vittime per ricreare scene di famosi haiku, Yokomizo espone le paure latenti nella vita rurale giapponese e gioca sulle ansie (quelle di Yokomizo e forse anche quelle del pubblico suo contemporaneo) che seguono la devastazione e la destabilizzazione generate dall’esperienza giapponese in tempo di guerra.  Prolifico scrittore ma evidentemente anche curioso lettore di genere, Yokomizo fa riverberare nelle sue opere la tradizione del noir occidentale. Ma nella sua lingua e nella sua forma si trovano spunti tipicamente giapponesi, oltre che della letteratura d’oltreoceano. 

“La figura del suo detective funziona come un detonatore che fa deflagrare le ossessioni più recondite”.

Temi e luoghi ricorrenti della detective story nipponica che sono completamente diversi da quelli europei. Chiedo conferma a Francesco Vitucci, docente di linguistica giapponese e traduttore d’elezione di Yokomizo in Italia. “Di sicuro Yokomizo è un profondo conoscitore della detective fiction occidentale e questo lo menziona lui stesso nei suoi romanzi” mi dice. “Il fatto che ricorra, ad esempio, alle piantine per illustrare gli ambienti in cui si svolgono i delitti rappresenta un chiaro riferimento ad Agatha Christie, così come alcune trame – si pensi al delitto a porte chiuse – si ispirano ad autori quali John Dickson Carr”. Consulto la mia copia di La locanda del gatto nero, tradotto da Vitucci per Sellerio. A pagina 35 campeggia la “mappa del circondario”, il palcoscenico dove si è svolto l’evento delittuoso che il brillante, balbuziente, scarmigliato Kindaichi si trova a indagare. A disegnare la mappa è l’ispettore Murai, “un veterano della squadra omicidi”. La descrizione dettagliata del luogo, una locanda dietro un tempio fiancheggiata da alcuni vicoli che si incrociano, sollecitano l’istinto del lettore all’indagine come in una sessione di Cluedo

Continua Vitucci: “Di contro, anche lui si immette in quel filone letterario che intende localizzare il genere del noir e della detective story giapponese. Non tanto per la novità delle ambientazioni – aspetto che forse appartiene più ad autori quali Edogawa Ranpo (il nostro fondatore di club e mangiatore di tenpura, ndr) o Ōsaka Keikichi, nelle cui opere è possibile rintracciare un’ossessione quasi maniacale del dettaglio, della descrizione degli interni delle abitazioni, delle mappe cittadine, dei singoli oggetti o dei decori. Nel suo caso, credo che la differenza si giochi in due punti essenziali: nella non infallibilità del proprio detective (Kindaichi è umano come gli stessi protagonisti che lo circondano e non li giudica mai, nemmeno quando si macchiano di efferati delitti), nonché nella curiosità di voler sondare le ragioni recondite delle azioni criminose. Non si tratta mai banalmente di ricomporre un puzzle in cui il detective mostra supponente la propria abilità (Sherlock Holmes non è proprio il suo riferimento), quanto di entrare a contatto con le storie, le passioni e l’irrazionalità che da queste scaturiscono venendo a patti con ciò che è più incontrollabile nell’animo umano. Non a caso, non sempre ci offre il lieto fine”. Sullo sfondo c’è comunque il Giappone, paese che, come ricorda anche il traduttore, “non è proprio quel luogo idilliaco che siamo spesso portati a vagheggiare”.

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Yokomizo non è il solo ad avere familiarità con le opere di Van Dine e Christie. Le loro storie sono tradotte in Giappone dagli anni Venti e appaiono in diverse antologie, mentre Bishop di Van Dine è tradotto integralmente già nel 1930. Nel 1937, «Shinseinen» sottopone a un sondaggio i suoi autori e collaboratori abituali, in tutto ventisei, per scegliere i dieci migliori racconti di narrativa poliziesca straniera di tutti i tempi (kaigai tantei shōsetsu jukketsu). Bishop, votato da giganti del genere come il già citato Edogawa, Oguri Mushitarō e Unno Jūza, si classifica all’ottavo posto. Al quarto, La fine dei Greene, sempre di S. S. Van Dine, mentre Agatha Christie al nono, con L’assassinio di Roger Ackroyd. Lo scrittore preferito di Yokomizo, però, è in assoluto Maurice Leblanc. 

“Credo che la maggiore peculiarità nella scrittura di Yokomizo sia la sua cifra noir, soprattutto se si considera il periodo storico in cui scrive” racconta Vitucci, che ha tradotto anche Edogawa per Atmosphere libri. “Rispetto agli autori che lo hanno preceduto, a differenza di Edogawa Ranpo, per esempio, c’è un interesse direi quasi maniacale nel voler sondare la psiche dei suoi personaggi, a voler entrare nei meandri più inaccessibili del loro carattere, della loro condotta. La figura del suo detective funziona un po’ come un detonatore che fa deflagrare le ossessioni più recondite e, di sicuro, Kindaichi stesso, antieroe ante litteram per eccellenza, riesce a mostrare un lato umano che travalica il cliché del detective infallibile che lo ha preceduto: sporco, malvestito, balbuziente, cozza terribilmente con l’immagine dell’investigatore altezzoso che altri autori, anche occidentali, ci avevano abituato a leggere. Probabilmente, Yokomizo riesce a coinvolgere il lettore mettendosi dalla sua parte e offrendogli qualche spunto di riflessione, non solo trame intricate e ben orchestrate”.

Il Giappone di Yokomizo è reduce da un primo terribile incontro con la “guerra totale”, che ha generato vittime, perdite finanziarie e traumi emotivi, imparagonabili a quelli sperimentati nei precedenti conflitti internazionali. Chi è sopravvissuto alla prova è costretto a adottare una nuova visione del mondo, che sembra impazzito, senza garanzie di stabilità. Da un punto di vista del tutto letterario, però, nei romanzi di Yokomizo l’esperienza della guerra e della violenza bellica è il fardello che pesa su vittime e assassini.

“Ero intento a scrivere questo romanzo quando avvertii il bisogno di visitare almeno una volta la casa in cui fu consumato quell’orrendo delitto”, comincia così Il detective Kindaichi, in cui Yokomizo entra prepotentemente come voce narrante. “Fui evacuato in questo villaggio nella prefettura di Okayama nel maggio del 1945 e, da allora, tutti coloro in cui mi sono imbattuto mi hanno voluto raccontare il caso del koto stregato”.

Yokomizo è sfuggito ai raid aerei sulla capitale trasferendosi nella quiete di Okayama, affacciata sul Mare Interno nel Giappone occidentale. Questo esilio autoimposto è difficile per l’autore, abituato alle città, ma gli permette di trovare il tempo per rivisitare molti dei testi classici della narrativa poliziesca lontano dalle sirene degli allarmi antiaerei. Il clima politico repressivo lo costringe a limitare i suoi sforzi di scrittura, e tuttavia gli offre anche l’opportunità di leggere le opere dei colleghi per incrociarne le traiettorie letterarie e le rispettive rielaborazioni del canone. Yokomizo è tutt’altro che in letargo: il suo impegno negli anni a Okayama spiega la rapidità con cui il romanzo poliziesco si riprende subito la scena alla fine della guerra.

“Nei libri di Yokomizo, è l’ottima rappresentazione della società giapponese a risvegliare la curiosità del lettore”.

Il tempo trascorso da Yokomizo a Okayama gli indica anche altri aspetti sociali che poi confluiscono nella sua scrittura: la fluttuazione economica, gli spostamenti massicci della popolazione e l’aumento della criminalità sono avvertiti in modo più intenso nelle aree rurali del Giappone. Ad aggravare questi effetti negativi permangono poi faide tra clan, controversie ereditarie e feroci rivalità interpersonali, innescate dai cambiamenti in atto. L’ultimo romanzo pubblicato in Italia, Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami, è uno specchio perfetto di questi meccanismi. L’illustre famiglia che dà il titolo all’opera vive in una villa amena nella pace montana di Nasu, sulle rive di un placido lago. Quando il grande vecchio della famiglia muore, lasciando un vuoto di potere nella holding degli Inugami, cominciano a susseguirsi una serie di truci delitti per via dell’eredità. Ed ecco che entra in scena Kindaichi Kōsuke, che indossa kimono e hakama stazzonati, per dipanare un garbuglio familiare amichevole come un covo di vipere. È così che sente anche l’avvocato che cura le volontà del morto, visto che il testamento “contiene tutto ciò che serve per fare scoppiare un putiferio fra tutti gli eredi, scontri il cui il sangue non potrà che essere lavato via con altro sangue”. 

L’ambiente delle grandi proprietà terriere, del resto, è un habitat ideale per le storie di Yokomizo. Si potrebbe dire che per lo scrittore, le aree rurali del Giappone funzionano come “camere chiuse” in cui misteriosi eventi e strani comportamenti dilagano, nascosti alla vista del resto del mondo. Le comunità di campagna funzionano come feudi autonomi, con il capo della comunità e i suoi parenti che agiscono come una piccola, incestuosa forma di monarchia governando ogni aspetto della vita dei propri sudditi. Così è la famiglia Inugami, circondata dalla servitù e al vertice di una potenza economica messa su dal tycoon Sahee, patriarca di un clan legato da risentimenti e malumori. E allo stesso modo Mondayū, capofamiglia degli Hasuike che compare nel romanzo breve Il corvo (contenuto in Il teatro fantasma, che Francesco Vitucci traduce assieme a Alessandro Passarella), anche Sahee è l’archetipo del ricco industriale che si è fatto da sé, tipico delle zaibatsu del Giappone di fine Ottocento: conglomerati industriali e bancari che si rafforzano negli anni Venti del Novecento, sono gruppi di imprese attivi in più settori a struttura piramidale oltremodo chiusa, al cui vertice si trova di solito la holding di proprietà della famiglia dei fondatori. Attorno a loro, nei libri di Yokomizo, si muovono giovani promesse entrate nella famiglia per adozione, o nipoti di rami cadetti allevati nella casata principale per compassione, e poi servitù d’ogni genere, dagli autisti alle sguattere in cucina. 

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È l’ottima rappresentazione della società giapponese a risvegliare la curiosità del lettore, come mi conferma anche il traduttore: “Ciò che attira di Yokomizo nei lettori giapponesi, e adesso anche in quelli internazionali, è di certo la ricaduta sociale. Nonostante ci si muova nella letteratura di genere, offre sempre uno spunto per riflettere sulle ingiustizie, sugli effetti della guerra, sulla trasformazione delle città e dello stile di vita che il Giappone ha intrapreso nella seconda metà del Novecento”. 

In Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami, il giovane Sukekiyo, sfigurato dalla guerra, rientra alla casa avita dopo il viaggio di ritorno dalla Manciuria delle truppe smobilitate dopo la resa. Le commesse che assistono ai furti di una cleptomane in L’Orchidea nera, racconto pubblicato in Fragranze di morte, durante la guerra vengono coscritte presso le fabbriche di abbigliamento o di munizioni verso cui tutto lo sforzo della popolazione civile era obbligato a tendere negli anni del conflitto. E si racconta la miseria che spinge alla creatività, come chi presta o affitta i bambini alle prostitute in strada al fine di distogliere l’occhio indagatore della polizia. Alcuni fanno fortuna, come Uno Unosuke, protagonista di Una testa in gioco (pubblicato in Il teatro fantasma), che gestisce una rosticceria natante lungo il tratto del fiume Sumida di Tōkyō che si getta nella baia. Uno Unosuke ha i suoi clienti fissi, quelli di un condominio a cui vende le sue pietanze in un cestino che poi tirano su dalle finestre. Sarà lui a scoprire la testa mozzata della spogliarellista Makino Akemi e a mettere in moto tutti gli eventi che porteranno il famoso Kindaichi alla soluzione del caso.

Sia la città che le campagne sono descritte nella loro veridicità, e il lettore può camminare ancora oggi in quei luoghi in cui Yokomizo descrive le turpitudini compiute dai suoi personaggi. “Non a caso, intercettiamo la maggior parte dei suoi personaggi in luoghi che hanno segnato la storia del Paese” spiega Vitucci. “Pensiamo alle ex colonie giapponesi nel continente asiatico, alle zone adiacenti i bombardamenti atomici della seconda guerra mondiale, alle fabbriche di armi in cui erano costrette a lavorare le donne durante lo stesso conflitto, oppure agli ex manieri del periodo feudale che lasciano spazio a città sempre più sovrappopolate e in cui pullulano bordelli colmi di prostitute e gente di malaffare, nightclub con spogliarelliste e avventori privi di scrupoli. Insomma, un Giappone in piena evoluzione”.

“‘La nostra attuale miseria’ scrive Yokomizo ‘deriva dal fatto che i giapponesi non leggono romanzi gialli quanto dovrebbero. Dobbiamo scrivere romanzi per illuminare i nostri lettori'”.

Yokomizo scopre di poter attingere alle meccaniche sociali che considera illogiche, soprattutto quelle osservate della vita lontana dalle città, non solo come materiale di base per la sua narrativa, ma anche come sfondo con cui rivitalizzare e modernizzare il genere nel suo complesso. Nel primo saggio che pubblica dopo la resa del Giappone agli alleati, Tantei shōsetsu to sensō (“Il romanzo poliziesco e la guerra”, 1946) Yokomizo denuncia il fallimento della narrativa di genere come tentativo di educare i lettori a pensare più razionalmente possibile, per abbracciare una nuova idea di Giappone, lontana dall’intossicazione della propaganda bellica.

Con questo spirito lancia un appello ai lettori di tutto il paese dalla sua casa di Okayama: “La nostra attuale miseria” scrive  “deriva dal fatto che i giapponesi non leggono romanzi gialli quanto dovrebbero. Lo dico a rischio di sembrare egoista. Ma dobbiamo tutti ammettere di aver trascurato di mettere in pratica il pensiero e l’agire razionale”. Secondo Yokomizo, i romanzi gialli hanno sostenuto il pensiero logico sin dalla loro nascita – e non di rado nei suoi scritti troviamo applicato il metodo scientifico, che dice qualcosa della formazione da farmacista dell’autore. Quindi, attenersi a questo spirito rappresenta “un dovere per tutti coloro che si definiscono scrittori di romanzi polizieschi”. Si sente forse un profeta, Yokomizo, o un maestro: “Dobbiamo scrivere romanzi per illuminare i nostri lettori. Solo quando tali opere si materializzeranno e molti sostenitori saranno disposti a seguire il nostro esempio, potremo iniziare a costruire una nuova cultura giapponese”.

Il detective Kindaichi, il primo romanzo di Yokomizo che Sellerio ha pubblicato in Italia, circoscrive l’evento delittuoso nella dépendance della lussuosa magione degli Iyanagi. Il rampollo, Kenzō, viene ritrovato sgozzato assieme alla giovane moglie Katsuko nel giorno delle nozze. Un classico delitto della camera chiusa che offre allo scrittore la possibilità di farci accomodare in una casa giapponese tradizionale. Scorrono i fusuma di legno, si scostano i pannelli shōji di carta, e ci si siede sul morbido pavimento di paglia tatami, ad ascoltare un’esibizione musicale sulle corde del koto

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La voce di Yokomizo come narratore onnisciente si insinua nella sua opera regalandoci parecchie pennellate di colore tipicamente giapponese che, da lettori, rileviamo nei luoghi, nei tratti, nelle relazioni tra personaggi così sapientemente tratteggiati. Tutti i volumi pubblicati da Sellerio, infatti, sono forti di un glossario che guida il lettore italiano nel labirinto delle abitazioni giapponesi tradizionali, dei piatti tipici, degli utensili, del teatro kabuki.

Chiedo a Vitucci qual è la sfida più grande per lui, come traduttore, nel rendere la scrittura di Yokomizo accessibile a chi non conosce la cultura giapponese. “Muovendosi nei contesti più disparati di una società ormai lontana è pressoché obbligatorio ricorrere a interventi di approfondimento, soprattutto quando si lavora in traduzione. Calcolando che la lingua stessa utilizzata da Yokomizo non è contemporanea, mi vedo quasi sempre costretto – ma lo faccio con piacere! – a organizzare brevi glossari o anche a ‘sciogliere’ alcuni passaggi testuali eccessivamente culturocentrati che, altrimenti, sarebbero di difficile comprensione per i non addetti ai lavori. Banalmente, gli stessi registri diafasici interni al testo pongono svariate difficoltà nel traghettare il testo giapponese in italiano: quando i personaggi si muovono in circuiti sociali molto alti, ad esempio, bisogna ricostruire con estrema minuzia i rapporti che intercorrono tra loro al fine di non appiattirne la bellezza e la complessità. Personalmente, non amo molto attualizzare il testo, soprattutto di un autore che è morto e che non ha più diritto di replica. Detto ciò, condurre i lettori nei riti e nelle tradizioni giapponesi è un’azione che richiede curiosità, responsabilità e attenzione”.

Un esempio può essere Il teatro fantasma, romanzo breve contenuto nella raccolta omonima il cui svolgimento si compie all’interno di un teatro kabuki, protagonisti gli interpreti e gli oggetti di scena. Qui i clan delle famiglie di attori si avvicendano, e Yokomizo ci trascina in un dedalo di nomi d’arte e appellativi tecnici di cui dobbiamo tener conto se vogliamo sciogliere il mistero del delitto consumato sotto il palco. L’autore ricostruisce non soltanto le tradizioni di un teatro molto popolare ancora oggi, ma anche i meccanismi che regolano gli spostamenti degli attori e delle scenografie, tecnologie complicate già in opera dal primo periodo Edo (1603–1868). Tutto parte della rappresentazione, certo, ma anche del diabolico piano dell’assassino.

“Nei romanzi di Yokomizo, l’esperienza della guerra e della violenza bellica è il fardello che pesa su vittime e assassini”.

Le trame complicate e le soluzioni brillanti messe in scena da Yokomizo per bocca del suo investigatore Kindaichi – che abita un ufficio scalcinato con un pezzo di carta per insegna – occhieggiano al lettore che intraprende la lettura di un giallo per poi ritrovarsi in un viaggio nel Giappone del dopoguerra, con la fascinazione per una cultura raccontata attraverso i dettagli di scena – le locande, le ciotole di ramen, il plettro del koto, i kimono – e la morbosa curiosità verso le aberrazioni dell’animo umano. Una serie fortunata, quella di Kindaichi Kōsuke e dei suoi casi risolti, che prospera nel mercato editoriale contemporaneo sia con le nuove edizioni, sia con quelle vecchie.

I vecchi libri di Yokomizo si trovano sul mercato a prezzi variabili, dalle poche centinaia di yen alle decine di migliaia per le prime edizioni introvabili. Una libreria antiquaria di Tōkyō vende una calligrafia di Yokomizo, firmata “Seishi”, a centotrentaduemila yen, più di ottocento euro. I lettori di crime in Giappone – e non solo in Giappone – non conoscono crisi, a partire dalla giovane età. Ne è dimostrazione il successo planetario di un manga di genere, Detective Conan, disegnato da Aoyama Gōshō a partire dal 1994, che nell’aprile di quest’anno è arrivato al numero centocinque. Lo stesso protagonista, un investigatore ridiventato bambino per un attentato finito male, sceglie come nome d’arte Edogawa Conan, dai suoi eroi preferiti della letteratura poliziesca, Edogawa Ranpo e Arthur Conan Doyle. 

Una tradizione ancora vivissima, dunque, che si basa in fondo su un solo presupposto. Lo enuncia perfettamente Kindaichi in unauna “lettera” al suo scrittore nell’epilogo della Locanda del gatto nero: “Ricordo che un giorno mi ha detto che è sempre necessario per chi scrive tacere la verità, e che se il lettore giunge alla risoluzione del caso, lo scrittore può dirsi sconfitto”. Finora, Yokomizo ci è riuscito.

Non compare nella foto di fronte al ristorante Hachimaki, anche se era amico di molti di quei colleghi e commensali, ma un posto a tavola se l’è guadagnato di sicuro.

Giorgia Sallusti

Giorgia Sallusti (Roma, 1981) è libraia, yamatologa, traduttrice. Scrive di libri e culture per Il manifesto e Altri animali di cui è anche editor, occupandosi di Giappone, oriente e femminismi.

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