Dopo la lunga pausa, il nuovo film del comico era parecchio atteso in sala e i dati al botteghino testimoniano un successo evidente. Di là dagli incassi, la pellicola sembra però frenata dal tentativo di non scontentare nessuno: una commedia politicamente scorretta (sia con la destra che con la sinistra) e dunque quasi sempre inefficace nell’affondare i colpi.
Buen camino, ultimo film co-sceneggiato e interpretato da Luca Medici alias Checco Zalone, era probabilmente il film italiano più atteso dell’anno. “Riuscirà il nostro eroe a trovare il pubblico non troppo misteriosamente scomparso dalle sale italiane?”, ha titolato l’ultimo numero di «Film TV». A sperare nel miracolo natalizio di san Zalone erano soprattutto gli esercenti, avviliti da un autunno tra i più infausti degli ultimi anni e, forse, di sempre. Certo, novembre ha segnato un deciso rialzo (oltre il quarantacinque per cento in più) rispetto al tristo mese di ottobre; ma i numeri rimangono pur sempre largamente inferiori anche solo a quelli dello scorso anno.
Almeno da questo punto di vista, Zalone non ha (per il momento) deluso. Già si parla di esordio travolgente, pienamente giustificato dai venti milioni di euro incassati al terzo giorno di programmazione. Un risultato ragguardevole, anche per un film che può contare su una distribuzione a tappeto in oltre 900 sale. E se gli aridi numeri non sono abbastanza, si può sempre tentare una valutazione all’impronta.
La sera del 26 dicembre, reduce dai postumi dei postumi dell’abbuffata natalizia, chi scrive è andato a vedere Buen camino nella sala Excelsior dell’Anteo, un tempo il cinema per antonomasia della borghesia progressista milanese; un cinema, chiosava oltre vent’anni fa il compianto Vincenzo Buccheri, “dove la gente ha l’aria di saper andare al cinema meglio degli altri”. Ebbene: sala piena (era lo spettacolo delle 19,40) e pubblico composito, trasversale per età e per censo. Un pubblico che non solo ride, ma partecipa rumorosamente, commenta ad alta voce, anticipa battute e situazioni; e, alla fine, scatta persino nell’applauso. Non si tratta di un caso isolato: situazioni analoghe – mi dicono – si verificano nelle sale di tutta Italia. Insomma, a distanza di quasi sei anni dall’ultimo film, Zalone/Medici si conferma il più nazionalpopolare dei comici nostrani.
Forse anche Zalone tirerà un sospiro di sollievo. Il suo ritorno al cinema, in effetti, non era privo di incognite. Non solo per il lungo intervallo di tempo che separa quest’ultimo film dal precedente, ma anche perché quest’ultimo, Tolo Tolo (2020), a oggi il suo film più ambizioso per temi e per impegno produttivo, è stato sì un grande successo (oltre 46 milioni di euro e primo posto al botteghino nella stagione 2019/2020, quella funestata dalla pandemia), ma inferiore a quello – enorme – del precedente Quo vado? (2016), che di milioni ne aveva fatti 65. Nel frattempo, sono sorte all’orizzonte nuove e più giovani stelle comiche, perfino più “scorrette” di lui: come Angelo Duro, che sotto la guida del regista storico di Zalone, il fedele Gennaro Nunziante, ha raggiunto con il primo lungometraggio da protagonista, Io sono la fine del mondo (2025), la bellezza di nove milioni e settecentomila euro d’incasso.
Non sono mancate poi le immancabili indiscrezioni a mezzo stampa. Voci di crisi professionali e private si sono susseguite negli ultimi mesi, per culminare nell’intervista del «Corriere della Sera» a Pietro Valsecchi, già patron di Taodue e ormai ex produttore di Zalone, che per questo film è passato alla Indiana di Marco Cohen e Benedetto Habib. Incalzato da Valerio Cappelli, Valsecchi ha sparato a zero contro Nunziante (“Mi chiese una cifra assurda… La discussione degenerò. Lo cacciai dal mio ufficio in malo modo, urlandogli dietro fino in strada. Non l’ho più visto”) e contro lo stesso Zalone, accusato di essere ossessivo, sadico (“Mi disse: con tutti i soldi che ti ho fatto guadagnare, ora te li faccio spendere. Una sorta di vendetta poetica”), vinto dall’ansia di primeggiare e desideroso soprattutto di accreditarsi presso una fantomatica intellighenzia (di sinistra, ça va sans dire) che peraltro lo ha sempre trattato con simpatia: forse qualcuno ricorderà ancora che quindici anni fa il refrain era “Meglio Zalone del cinepanettone”.
“La sera del 26 dicembre, reduce dai postumi dei postumi dell’abbuffata natalizia, chi scrive è andato a vedere ‘Buen camino’ nella sala Excelsior dell’Anteo, un tempo il cinema per antonomasia della borghesia progressista milanese”.
Quasi a voler dimostrare che lui no, proprio non ci tiene a cercare il consenso di chicchessia, Zalone incomincia Buen camino con una ispezione anale (la sua), causa infiammazione sospetta della prostata. “L’età adulta inizia così”, commenta, “con un dito nel culo”. Un’età adulta che coincide con il cinquantesimo compleanno del protagonista: uno Zalone miliardario, sorta di incrocio fra Gianluca Vacchi e Brunello Cucinelli, che non perde occasione, con ingenua arroganza, di sbattere in faccia le proprie ricchezze a chiunque gli capiti a tiro. Il guaio è che la figlia diciassettenne Cristal (“come lo champagne”), stanca dell’ottuso materialismo paterno, decide di intraprendere il cammino di Santiago di Compostela, costringendo il riluttante genitore a (in)seguirla.
L’itinerario on the road, ampiamente frequentato dal comico pugliese fin dagli esordi sul grande schermo, è quasi un pretesto per inanellare il consueto repertorio di battute dal gusto politically uncorrect, sulle persone sovrappeso, sui portatori di disabilità, su Gaza, su Schindler’s List (una delle più divertenti), sull’11 settembre. Zalone ne ha per tutti: i Paperoni d’Italia, i “vecchi” radical chic e i “nuovi” woke, la Gen Z alla riscoperta della spiritualità, i content creator armati di smartphone e gli agenti di polizia stupidi come i carabinieri delle barzellette di una volta. Come sempre, il campionario è sufficientemente ampio da prestarsi facilmente a letture sia “da destra” (la presa in giro dell’ipocrisia di chi si crede sempre e comunque dalla parte “giusta”) sia “da sinistra” (la satira della stupidità e della volgarità dei super-ricchi). Quale che sia il verso, però, a Zalone non riesce mai d’essere cattivo fino in fondo; e il finale, prevedibilmente, punta a una riconciliazione fra genitore e figlia nel segno della crescita, della comprensione reciproca e dei buoni sentimenti.
Con Buen camino Zalone/Medici ricomincia da sei. Ritorna alle origini: sperimentata la regia in prima persona, torna a farsi guidare da Nunziante; e piuttosto che prendere di petto i temi “caldi” del momento, come nei precedenti Quo vado? e Tolo Tolo (che rivisto oggi sembra quasi una sarcastica parodia “in anticipo” di Io, capitano, l’epos di Garrone sui migranti), recupera lo humour dei primi film (Cado dalle nubi, Che bella giornata, soprattutto Sole a catinelle). Titoli nei quali le eventuali “scorrettezze” erano più il risultato del candore da idiot savant del protagonista, che non l’esito dell’aggressività comica, sguaiata e sanamente volgare, ma soprattutto consapevole, delle performance cabarettistico-musicali per il piccolo schermo.
Anche l’utilizzo delle canzoni, da sempre punto di forza di Zalone e segnale di riconoscimento per il pubblico che continua ad ascoltarle all’uscita dalla sala, appare sensibilmente cambiato. Da ulteriore strumento di commento/controcanto (l’inno al posto fisso La prima repubblica in Quo vado?, giusto per fare un esempio, o la “scandalosa” Immigrato per Tolo Tolo), abbiamo qui Prostata enflamada che, per quanto esilarante (“Mi sentivo sotto assedio | mentre l’urologo provava | prima l’indice poi il medio…”), è accuratamente tenuta fuori dal racconto principale, a mo’ di prelibatezza finale per mandare a casa contenti gli spettatori.
È una timidezza difficile da interpretare. Timore (ampiamente infondato, peraltro) di aver perso il contatto con il pubblico? Difficoltà di riprendere un discorso interrotto dopo una lunga pausa? Il fatto è che l’Italia non è più quella non dico di quindici, ma anche solo di cinque anni fa; e Zalone, con la sua capacità rabdomantica, da autentico animale da spettacolo, non può non averlo fiutato.
A che pro sfottere i capitani d’industria con velleità filantropiche, quando Cucinelli è appena riuscito a consacrarsi protagonista di un intero film, e per di più diretto da un premio Oscar come Tornatore? Per non parlare di sequenze come quelle degli “attacchi di fascismo” in mezzo al Sahara (“Il fascismo è come la candida, con il sole e lo stress viene fuori”), con tanto di accompagnamento musicale “a tema”: nell’Italia del governo Meloni la cornice di senso è saltata del tutto – o forse è semplicemente cambiata – e gli anticorpi non bastano più. A questo punto non sorprende che il solitamente mite Nunziante, nella conferenza stampa di presentazione di Buen camino, si sia sentito in dovere di precisare, a proposito del percorso di crescita del protagonista, che “veniamo da decenni in cui la spiritualità è stata derisa, in nome dell’egemonia marxista” (sic!).
Molto meglio allentare la presa, insomma, puntando su un politicamente scorretto che ormai non spaventa più nessuno; tanto, come aveva già dichiarato un paio d’anni fa lo stesso Zalone, “ognuno dice quello che gli pare”. Di questi tempi, il pubblico vuole soltanto ridere. Una risata ci seppellirà? Sta bene, purché salvi il cinema italiano.