Storia della mia fibromialgia - Lucy
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Mariachiara Rafaiani

Storia della mia fibromialgia

La fibromialgia è una sindrome che costringe almeno due milioni di italiani a convivere con dolori cronici fortissimi. La medicina è lontana dall'aver trovato una cura risolutiva e le istituzioni faticano a dare sostegno a chi è malato. Tra psichedelici e mozioni alla Camera, la speranza è che le cose cambino.

A quattordici anni vivevo il mal di schiena che mi tormentava di continuo come un’ingiustizia. Per esorcizzarlo mi chiudevo in una copia stropicciata di Silenzi di Emily Dickinson e tenevo un melodrammatico diario intitolato L’animale morente, influenzata dai libri di Philip Roth che circolavano per casa. Mentre i dolori mi mangiucchiavano i muscoli, venivo deportata di dottore in dottore perché anche agli adulti sembrava molto strano che una ragazzina di quattordici anni dovesse trascorrere le giornate a letto, dipendere dagli analgesici, e non riuscisse ad affrontare le incombenze più semplici del quotidiano senza sprofondare in un doloroso stato di stanchezza.

Dopo circa due anni mi diagnosticarono la fibrosi mialgica: ci vollero moltissimi esami, svariati specialisti e un’oltraggiosa quantità di soldi spesi – che, da laureata in Lettere Antiche, per di più con un dolore cronico, non potrò mai restituire ai miei genitori. Il dottore che me la diagnosticò era piuttosto noto, e io, nell’acerbità dell’adolescenza, dopo due anni di aghi e risonanze, gli dissi che lui e i suoi colleghi non mi sembravano proprio dei “luminari”: avevo solo sedici anni e non erano stati in grado di risolvermi un mal di schiena. Lui prima s’indispose, poi guardando i miei genitori con condiscendenza li rassicurò: ero una ragazza intelligente, forse troppo, è tipico delle ragazze intelligenti soffrire di più, soprattutto con questo tipo di problematiche. Le ragazze intelligenti sono più emotive. L’emotività distrugge i muscoli.

“A quattordici anni vivevo il mal di schiena che mi tormentava di continuo come un’ingiustizia. Per esorcizzarlo mi chiudevo in una copia stropicciata di ‘Silenzi’ di Emily Dickinson”.

Capii subito che la mia vita era destinata a essere popolata da dolori che venivano e sparivano: la protagonista della mia storia era una ragazzina spesso considerata troppo emotiva, o semplicemente svogliata, e i suoi interlocutori uomini che sapevano sempre tutto, anche quando si faceva notare loro che non sapevano assolutamente nulla – non erano tanto diversi da quei ciechi danteschi che guidano altri ciechi. 

La fibromialgia, o sindrome fibromialgica, è (secondo l’Osservatorio Malattie Rare) una patologia reumatica extra-articolare, riconosciuta dall’OMS nel 1992, caratterizzata non solo da dolore muscolo-scheletrico diffuso, ma anche da profondo affaticamento e numerose altre manifestazioni cliniche a carico di diversi organi e apparati. Il sintomo principale della fibromialgia è un dolore cronico e localizzato (le sedi più frequenti sono il collo, le spalle, la schiena e le gambe) o diffuso in tutto il corpo, un dolore che può diventare così intenso da impedire le normali attività quotidiane. Fra gli altri sintomi sono presenti affaticamento, astenia, rigidità, sensazione di gonfiore, parestesie, tachicardia, disturbi del sonno, mal di testa e dolore facciale. Si riscontrano spesso anche disturbi cognitivi, gastrointestinali, urinari e della sensibilità, dismenorrea, vaginismo, allergie, intolleranze e sintomi a carico degli arti inferiori. Diversi studi hanno dimostrato inequivocabilmente che gli eventuali sintomi depressivi o ansiosi sono un effetto, piuttosto che una causa, della malattia.

Non posso che confermare: è tutto vero, ed è molto peggio.

Il mio dolore adesso aveva un nome, ma ero ancora molto lontana da una soluzione;  guardando il “luminare”, avevo già capito che avrei dovuto provare a trovarla da sola. Più tardi, avrei scoperto che una cura non esiste, si può solo tentare di alleviare il dolore. 

Come? Uno: sedute settimanali e costosissime di fisioterapia (e simili) – che, nel mio caso, si sono rivelate il più delle volte non solo inutili ma anche, se possibile, peggiorative. Due: terapie farmacologiche a base di miorilassanti – farmaci che hanno lo scopo di far rilassare la muscolatura –, antidepressivi e analgesici. Tre: una costanza nel praticare attività quali lo yoga, o esercizi specifici ideati dal fisioterapista di turno.

Ai tempi di quella prima diagnosi, il risultato delle cure che lo specialista mi aveva prescritto, neanche a dirlo, fu un disastro. Intere ore di greco e latino passate (letteralmente) a dormire a causa di pillole e goccette. Non appena chiudevo gli occhi, sognavo: e anche nei sogni il dolore persisteva. Decisi di interrompere i farmaci, e non fu facilissimo. Volevo tornare a essere sveglia, vigile, ed esserlo da subito, laddove quei farmaci, in quelle dosi, prevedevano settimane di graduale abbandono. Così ho iniziato a perdere fiducia nei medici, esponenti in divisa di ogni Grande Altro e di ogni Stato, che non potevano assolutamente niente contro il mio dolore. Capii che il dolore, questo serpente atroce che striscia come un brivido continuo dalla testa alla schiena, me lo sarei portato dietro per tutta la vita: potevo solo imparare a conviverci.

Oggi, a oltre dieci anni di distanza, dopo ulteriori soldi spesi, terapie fallite e un dolore che è diventato familiare e presente, il soggetto di un rapporto unico e intimo con il mio corpo, questa convinzione resta invariata, e anzi gli anni l’hanno solo confermata: c’è stato chi ha realizzato per me dei plantari magici, chi mi ha costretto ad andare in giro con una calamita attaccata a un occhio, chi ha tentato d’insegnarmi l’incredibile potere di generare con la mente una luce celeste capace di far scomparire qualsiasi dolore. Dagli esperti del corpo a quelli della mente, neurologi, psichiatri, psicologi e reumatologi, non c’è stato specialista che non mi abbia proposto una sua – ahimè sempre inutile – soluzione. 

Storia della mia fibromialgia -

Per anni ho smesso di cercare una terapia, ma nei momenti peggiori si riaccende ancora in me la speranza di poter trovare, se non una soluzione clinica, perlomeno degli interlocutori capaci di comprendere: il desiderio di restare sdraiata, di avere un massaggiatore a mia disposizione, un’autosufficienza che non può durare più di quattro ore, la confusione dei pensieri, il cattivo umore, la difficoltà a prendere sonno e l’impossibilità di riconquistarlo quando s’interrompe.

È difficile, a volte impossibile (e spesso imbarazzante) dover spiegare agli altri, a tutti gli Altri, che no, non sono indolente per carattere, che la mia inefficienza, la mia svagatezza, la mia distrazione, la mia incostanza emotiva non dipendono da una mancanza di volontà, ma è lo stato nervoso di una persona che vive con un chiodo perennemente piantato nella colonna vertebrale e degli spilli in tutto il resto del corpo, a cui viene chiesto di partecipare al mondo come e più di chi quel chiodo nella schiena non ce l’ha.  I frenetici ritmi di questo mondo non fanno per il mio corpo. Vorrei dire ai miei interlocutori: non è vero che non ti ascolto quando parli è solo che il mio mondo ruota tutto intorno al mio dolore, e quello che tu credi essere uno stato di sovrappensiero è, in realtà, lo sforzo immane che sto facendo per guardarti negli occhi senza perdere l’equilibrio.

Così, circa due anni fa, quando per caso leggo online della presenza di un dottore a Milano specializzato proprio nella cura della fibromialgia, decido di provare anche con lui: penso che forse negli ultimi anni qualcosa in campo medico si è mosso, che il progresso non si arresta mai.  E poi, tanto vale tentare: nell’ultimo anno i miei dolori si sono estesi alle anche, alle braccia, ai polsi e alle mani. Condanna per condanna, che ho da perdere? 

Durante la visita il dottore mi tocca una decina di punti, e per ognuno mi chiede se lì ho male, e per tutti io dico: “ho molto dolore”, e alla fine mi guarda con gravità e mi diagnostica – di nuovo – la fibrosi mialgica. È sempre la stessa battuta di un copione mandato a memoria. Perciò, come sempre, chiedo: cosa si può fare? Quasi nulla, dice, però consoliamoci: non è una malattia degenerativa. Certo ma, mi scusi, per me è completamente invalidante. Come posso dimostrarlo all’autorità statale o agli Altri? Impossibile, dice, il suo male non è ancora riconosciuto come invalidante. La terapia? Anche quella da copione: solo un po’ più forte rispetto a quelle già tentate, perché ora sono più grande e potrei molto teoricamente essere definita “un’adulta”. Consiste in un antidepressivo (fornito dal sistema sanitario nazionale); un mix di paracetamolo e tramadolo (fornito dal sistema sanitario nazionale) che posso assumere fino a tre volte al giorno, in base all’occorrenza; una pasticca da 5 mg di melatonina per dormire (non fornita dal sistema sanitario nazionale). E, ovviamente, la frequentazione assidua di “un bravo osteopata, se lo trova”: e questo, tra i vuoti del sistema sanitario nazionale, è quello più grave, come sa chiunque abbia mai dovuto pagare le parcelle di un osteopata milanese: di fatto un lusso faraonico, una sofisticata sciccheria per magnati arabi. 

Poi il medico abbassa un po’ la testa, e con tono da congiurato che annuncia che stiamo per parlare di qualcosa di scandaloso, bisbiglia: “Ci sarebbe anche la terapia con la cannabis terapeutica, però non gliela posso prescrivere”. Perché no, gli dico – la prego. Proprio non può, dice. Deve andare in un altro ospedale di Milano, dice. È una cosa ancora molto sperimentale. 

Una sperimentazione, vorrei dirgli, che in realtà ho già efficacemente portato a termine all’età di sedici anni. I risultati sono stati, a dire il vero, estremamente soddisfacenti: la cannabis causa un grande rilassamento, fa tornare l’appetito e il più delle volte mette il buonumore. Certo, a volte si rischia di avere brutte esperienze: tachicardia e attacchi di panico, ma insomma, sempre meglio di un chiodo piantato nella schiena. Il medico puntualizza, con tono paterno e benevolo, che lui in ogni caso preferisce non prescriverla. Perché, gli chiedo. “Beh”, dice, col tono grave con cui nei film di zombie decidono di sparare in testa all’amico che è stato appena morso – “è una soluzione estrema”. 

Un po’ sconfortata, ma comunque contenta di uscire finalmente dalla clinica, mi avvio alla ricerca di questi medicinali, decisa a seguire minuziosamente la terapia prescritta. I problemi, però, iniziano subito: al tempo le pasticche da 5 milligrammi di melatonina per una questione normativa erano fuori commercio in Italia (ora sono di nuovo acquistabili). Un farmacista mi comunica che forse posso trovarle, sì, ma in Svizzera – “Non può fare un salto nel Canton Ticino? Non è lontano”.

Un altro farmacista, più spericolato, trova il modo di farmele avere qui in Italia, ma c’è un problema: una confezione da trenta pasticche costa 140 euro. Meglio lasciar perdere. Il secondo problema è l’antidepressivo: quello lo trovo subito e lo ingerisco felice, sperando che mi dia un po’ di sollievo dal dolore, e un po’ di sollievo effettivamente lo dà, spostando però il malessere su altri fronti: passo la giornata a vomitare, in preda ai brividi di un profondo stato confusionale. Lo so: dovrei resistere, andare avanti con la terapia, ma sento che la mia buona volontà sta sfumando.

I dolori di quel periodo mi avevano costretta a passare gran parte del mio tempo in posizione orizzontale. Ho dunque potuto dedicarmi alla lettura, che da sempre funziona su di me meglio di qualsiasi analgesico. Lessi così Piante che cambiano la mente di Michael Pollan. Uscito nel 2022 per Adelphi nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, il libro si apre con un saggio sull’oppio. Nel mio disastrato stato fisico e mentale, ho l’impressione che quel saggio sia stato scritto apposta per me (sì, è vero, mi hanno prescritto un oppioide, ma non fa proprio quell’effetto). La coltivazione del papavero non è illegale; lo è, però, la consapevolezza di ciò che si potrebbe ottenere incidendone il bacillo. La mancanza di cultura nell’uso delle cosiddette droghe continua a essere premiata, incoraggiata e protetta. Scrive Pollan: “Temo di essere già perduto, almeno agli occhi della legge, avendo ormai assaggiato il frutto proibito della conoscenza”.

Esco dalla lettura del libro con una nuova convinzione: non è vero che la soluzione ai miei problemi non esiste. Il problema è, piuttosto, che le radici della cultura occidentale, con la loro consacrazione della santità della colpa e una secolare apologia del valore espiativo del dolore, me ne privano. L’oppio o la mescalina sono infatti esattamente ciò che farebbe a caso mio. Non solo al mio: a quello di tutti coloro che soffrono di queste malattie invisibili e colpevolmente prive di un’adeguata narrazione. “Gli alcaloidi dell’oppio sono formati da molecole complesse quasi identiche alle molecole che il nostro cervello produce per far fronte al dolore e gratificarsi con il piacere”: lo dice la Scienza.

“Il mio dolore adesso aveva un nome, ma ero ancora molto lontana da una soluzione;  guardando il ‘luminare’, avevo già capito che avrei dovuto provare a trovarla da sola”.

Cercando in rete mi sono imbattuta in un articolo uscito nel 2022 su «Vice» dal titolo Are Psychedelics the Future of Pain Relief?. Nell’articolo si parlava – tra le altre cose – di come l’LSD sia oggetto di studio di diverse startup e università per la cura della fibromialgia. James Close, studente di dottorato presso il Center for Psychedelic Research dell’Imperial College di Londra e terapista della gestione del dolore presso l’Imperial College Healthcare NHS Trust, crede ad esempio che liberando “olisticamente” il cervello da abitudini radicate nella mente, incluso il dolore grave e cronico, le sostanze psichedeliche possano creare le circostanze per cancellare una condizione preesistente e riplasmare il modo di percepire il proprio corpo. Sempre a «Vice» il dottor Jan Ramaekers, che ha guidato la ricerca, ha fatto notare come gli oppioidi nel trattamento del dolore a differenza dell’LSD richiedano un’assunzione più assidua e rischino maggiormente di causare dipendenza.

Riacquistata di nuovo un po’ di speranza nei confronti di una possibile cura, contatto per mail uno specialista di un grande centro medico milanese che – dai suoi articoli – sembra interessato allo studio sull’utilizzo terapeutico degli psichedelici: mi risponde subito, col tono di chi ha voglia di sfogarsi. Mi dice che la sperimentazione in Italia con gli psichedelici non è ancora possibile, e non riesce a prevedere quando lo sarà. In ogni caso crede che si inizierà ad utilizzarli per patologie quali la depressione e non ancora per la cura della fibromialgia o della cefalea a grappolo. Prosegue ricordandomi che, però, in Italia ci sono molti centri dedicati alla fibromialgia che possono aiutarmi, anche all’interno della struttura in cui lavora. Gentilmente gli rispondo che per ora non ha funzionato nulla, ma proverò anche il loro centro, senza dubbio. Non lo farò mai. Ormai conosco questo ritornello a memoria, come lo conoscono in molti. 

Il mio dolore infatti non è un caso individuale; si stima che ne siano afflitti due milioni, ma forse molti di più, di italiani. Come me, che ora, mentre scrivo, sento i polsi che bruciano e tutto nella schiena si contrae, mentre una cefalea penetrante mi prende all’occhio sinistro, sono in tanti a vivere una condizione simile, convivendo con il gioco di equilibri necessario ad attraversare nel modo migliore le giornate. La mia voce racconta solo un piccolo frammento di una storia molto più lunga, a cui vorrei che il Sistema Sanitario Nazionale prestasse più attenzione. 

Storia della mia fibromialgia -

A marzo di quest’anno sono state approvate alla Camera, dopo un lungo percorso, sei mozioni per riconoscere la fibromialgia come malattia invalidante: è un primo passo, ma è necessario correre più veloci. In Spagna sembra che abbiano trovato il modo di diagnosticare la fibromialgia dagli esami del sangue; per il test, se verrà approvato, bisognerà aspettare due anni. Però mentre la vita di chi è malato passa nella disattenzione altrui, la soluzione non può né deve essere quella del tirare avanti caparbio e animalesco: fare, fare, continuare a fare, nonostante il dolore, e andare avanti. Così come non è accettabile che possibili cure della fibromialgia non possano essere neppure tentate nel nostro Paese. Fermiamoci a riflettere. Riapriamo le questioni, senza tabù e senza resistenze. Soluzioni forse ci sono, ci possono essere, se si decidesse di aprire la mente, aprire altre strade, col coraggio di ridefinire i contorni delle gabbie in cui ci troviamo. 

Čechov scriveva: “Quando contro una data malattia si ordinano tante medicine significa solo che la malattia è incurabile”. Vorrei che questa frase, dalla cui verità, sempre più evidente con il passare degli anni, ho cercato di non farmi sovrastare, un giorno non fosse più adatta a descrivere la mia condizione e quella di tanti altri, ma che risultasse, infine, falsa.

Mariachiara Rafaiani

Mariachiara Rafaiani è laureata in filologia classica e medievale e scrive poesie. Alcuni dei suoi testi sono usciti per diverse riviste.

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