Tra amici è importante non capirsi - Lucy sulla cultura
articolo

Tommaso Giartosio

Tra amici è importante non capirsi

Nelle nostre amicizie siamo soliti dare molto rilievo alle intese rapide, agli inside joke, a un sentimento di sintonia immediata. Sottovalutata ma altrettanto fondamentale in questo genere di rapporti è invece l’incomprensione: non capirsi mai fino in fondo è un modo per continuare a scoprire l'altro.

L’opposto di Babele: il luogo in cui tutte le lingue possono tornare a dialogare. Questo vogliono essere gli Stati Uniti, e soprattutto la loro propaggine occidentale. E in particolare un’università affacciata sul Pacifico, ancor più se ha una tradizione di apertura alle differenze e una ricca offerta di borse di studio. E al massimo grado il dipartimento di letterature comparate, incarnazione (in quell’inizio degli anni Novanta) di un’utopia umanistica tanto avanzata da voler emendare le colpe dell’umanesimo stesso. 

Ma Babele resiste. La lingua franca, l’imperiale fiumana dell’inglese, si divide. Si dirama in mille rivoli nazionali e postcoloniali, si interseca e intreccia in equivoci e meandri, fiotti, sfoghi, risacche che tirano alle gambe. Confronto, confrontation (scontro), confusione. Mai in nessun luogo il sogno è stato così trionfante, mai come qui, dove se ne registra quotidianamente il necessario fallimento.

Ricordare è registrare l’incomprensione. Non essendo accessibile la verità dell’altro. Consistendo, la verità del rapporto, nella qualità dell’incomprensione, nella trama e consistenza di quella specifica forma di fraintendimento.

オサム legge il mio nome scritto da mia madre sulla busta evanescente della posta aerea, appena sotto la fascia tricolore stampata nell’angolo. 

– Toe-mah-zoh Jar-toe-sea-oh. – Sorride, inclina la testa, mi guarda. Ha letto bene?

– オサム – gli dico, sapendo che il suo nome mi è altrettanto misterioso. Se scritto in kanji (i caratteri giapponesi di origine cinese) può voler dire: studiare, logica, giustizia, calmare, reddito, ottenere, cronaca, comportarsi bene, era geologica, potere sovrano.

Allunga il braccio e afferra il mappamondo che ha comprato per pochi spiccioli a una delle svendite che precedono i traslochi. Gli mostro l’Italia: questo paese-embrione arricciolato nel tepore di un mare interno non può che essere un luogo buono, no? Come aspettandosi di toccarla davvero con uno speculum, lui poggia sull’Italia l’estremità di un indice decisamente non caucasico, pallido, forte, la vena bene in vista, disumano e troppo umano (penso, sentendomi subito in colpa) come un disegno di Daumier o Guttuso. 

ET-telefono-casa. And I am touched.

– Voi italiani ve ne state tutti pigiati qui dentro? – chiede, ridendo e alzando il polpastrello dalla penisola come per farci scappare. 

La densità di popolazione in Giappone è molto maggiore. Del resto, lui è nato e cresciuto a Manhattan. Non so molto di più della sua vita. Nella nostra comunità cosmopoliglotta è bon ton non fare troppe domande: meglio lasciar riposare le radici. Tra noi due, poi, si è instaurato un piglio svelto e fattivo. Ogni amicizia ha un suo ritmo. Il nostro rimarrà uguale fino all’ultimo. 

So che abitava con naturalezza sia l’inglese che il giapponese dei suoi genitori. Il padre lavorava per una multinazionale nipponica la cui egemonia si estendeva in misura inversamente proporzionale alla brevità del brand name. オサム aveva frequentato le migliori scuole. Nelle partite di football americano tra il suo college e quello rivale – una scuola per ragazzi di ceto medio-basso – a ogni punto segnato dagli avversari i suoi amici gridavano dalla curva: “Tutto bene, tuttapposto! Tanto un giorno sarai il mio sottoposto!”

That’s alright!

That’s okay!

You’re gonna work for us 

a–ny–way! 

Lui ripeteva questi cori da stadio ridendone da spanciarsi. Mostruoso, imprevedibile classismo! Ero spiazzato. In quegli stessi anni, su Italia 1, il pubblico italiano scopriva attraverso il programma Mai dire banzai (antologia delle prove fisiche più ridicole e umilianti proposte dalla tv del Sol Levante) il penchant giapponese per lo humour sadico. Ma sadismo e masochismo formano un gioco delle parti; ci si identifica con il tormentatore almeno quanto con l’uomo preso a ceffoni, o con la donna che sprofonda nel fango. Nel mio amico, poi, la risata, l’a–ny–way!, erano tracce di un’immedesimazione con il succube, tanto intima da non permettere neppure la pietà: quella pietà che segnerebbe comunque una distanza, una forma di moralismo e di paternalismo. Aveva un profondo senso della giustizia sociale – più di tanti altri studenti della nostra università così fedele al lascito della contestazione. A volte ho pensato che fosse un comunista in pectore. 

Era capace di riconoscere le più sottili (e le meno sottili) forme di sopraffazione, in ogni ambito, dal maschilismo al razzismo allo snobismo all’omofobia. Con una risata liberatoria metteva anche il grossolano orgoglio di classe, della sua classe, al posto che meritava. Tra le assurdità di questo mondo, che a volte vanno combattute, ma sempre ridicolizzate. Il suo senso dell’umorismo non era elitario ma popolare, slapstick, o meglio (fenomeno tipicamente americano) le due cose insieme. Adorava l’aneddoto riportato da Max Brod: Kafka che una sera legge agli amici il primo capitolo del Processo e non riesce a trattenere un ridere irrefrenabile, fino alle lacrime.

Chissà se esiste una tecnica di trascrizione dei diversi tipi di risa. Ma non mi occorre. La risata di オサム the Huge, l’Immenso, la riconoscerei a distanza di intere nebulose. Mi intaglia la memoria né più né meno di una chiara sequenza di fonemi. È presente, ora, qui.

オサム ride con tutta la bocca, fino a farsi mancare il fiato. Ride senza inibizioni di tutto ciò che non va preso sul serio. Tutto. Al cinema fa garrire come spuma d’onda la sua risata davanti a una buona battuta, certo, ma anche di fronte a film che non hanno nulla di comico: per una svolta goffamente melodrammatica, un patetico fallimento, un plateale atto mancato, una gustosa esibizione di narcisismo o acting out. Nel pubblico qualcuno si volta, infastidito. 

Non risparmia neanche la bellezza: sa cogliere con affettuosa ferocia quella venatura di compiacimento che fende soprattutto i libri più riusciti. Adora ridere dell’artsy-fartsy, della scoreggia estetizzante. 

Non risparmia neanche la sua stessa lingua. La nobile formula giapponese che esprime, con le semplici parole non ho altra scelta, un antico valore nipponico – la dignitosa accettazione di una necessità ineluttabile – lui la ripete con le mani alzate, lo sguardo panicato e un nodo alla gola. Devo andare a fare la spesa, il negozio sta per chiudere, SHIKATA GA NAI! Le tre parole sparate una sull’altra, la prima i che quasi scompare.

Non risparmia neanche me.

Ogni tanto オサム trascorre qualche mese dai suoi parenti in Giappone. Così decido di andare a trovarlo. Prima di partire sono riuscito a imparare un po’ di giapponese. Ci ho preso gusto: ormai conosco parecchie centinaia di parole, perfino qualcuna di quelle più specifiche e rare. So già che non mi serviranno. Meglio rassegnarmi: userò soprattutto un sacco di gomen nasai (“mi spiace”) e sumimasen (“scusi”) e wakarimasen (“non capisco”); difficile che mi capiti di dissertare delle attività di un chimico (un kagakusha) o di un fisico (un butsurigakusha). Certo, se incontrassi un kagakusha o addirittura un butsurigakusha, se potessi sfoggiare la mia conoscenza della lingua (ne vado fiero come un pavone), sarebbe fantastico… 

“L’opposto di Babele: il luogo in cui tutte le lingue possono tornare a dialogare. Questo vogliono essere gli Stati Uniti, e soprattutto la loro propaggine occidentale. E in particolare un’università affacciata sul Pacifico, ancor più se ha una tradizione di apertura alle differenze e una ricca offerta di borse di studio”.

Parto. Eccomi alla conquista del Giappone: la mia scorreria mi porta da Osaka a Kyoto a Tokyo, gli indigeni mi sorridono, danno appoggio e indicazioni, mi trattano con gentilezza inaudita. Mi convinco che questo accada perché mastico qualche parola.

Arrivo a casa di オサム, nell’appartamento di Kamakura dove vive nonna Aya, una vecchietta benevola che mi racconta di aver visitato l’Italia. Lì, da qualche parte, è rimasta coinvolta in un incidente ferroviario. Si è spezzata tutte e due le gambe. – Oh Dio! E come è stato? – è la mia domanda imbecille. – Omoshiroi – risponde la signora con un sorriso dolce. オサム traduce: – Interesting, – rivolgendomi un ghigno crudele. 

Exit nonna Aya. Vengo presentato all’intera famiglia, fino ai più remoti cugini. Tutto un gioco di inchini e convenevoli, tutto un frasario di cortesia che snocciolo a memoria. Infine si fa avanti uno zio, venuto in visita da un’altra città. オサム mi spiega che è professore di fisica. 

– Ah! – esulto. E sparo la mia cartuccia d’argento: 

Kagakusha! – 

Bu-tsu-ri-ga-ku-sha, – mi corregge con un sorriso, sillabando per aiutarmi.

オサム continuò a riderne per anni. Vigono in Giappone come in America la stessa ossessione dello studio intensivo (il cramming, le scuole juku), lo stesso mito dello “studente tutti dieci” (lo straight-A student, il zenyuunogakusei), la stessa religione del lavoro (– I do not take holidays – sbottava オサム, accumulando sull’ultima parola un’indicibile carico di disgusto)… E tutto il mio impegno indefesso si era concluso in uno scivolone! 

Ma questa storia mi parla, più che del suo retroterra, di lui stesso. È un caso da manuale della sua estetica del comico: la lunga preparazione di una performance impossibile e in fondo già di per sé ridicola (imparare a parlare giapponese in poche settimane!), con l’occhio rivolto a un test supremo; l’occasione sommamente improbabile di affrontare la prova tanto attesa; e poi il casino, la cazzata, il trionfo che fallisce proprio per eccesso di studio, il rigore bucato per troppa astuzia, l’ignominiosa bocciatura per troppa bravura. Non a caso オサム era un avido lettore di Samuel Beckett e Paul Auster, un appassionato di Buster Keaton. La massa rocciosa della catastrofe, l’ombra quotidiana del fallimento, sempre possibile, mai esorcizzabile: era questo a rendergli la vita respirabile. Ogni traguardo poteva venire raggiunto solo a condizione di non illudersi di poterlo attingere.

– Sai, – mi disse un giorno sottovoce, sapendo già che io l’avrei capito, immaginando di star creando una di quelle frasi che non mi avrebbero più lasciato: – c’era questo ragazzo che conoscevo al college, che non aveva nessuna nevrosi. – 

La tonalità piatta di queste ultime quattro parole: a sottolineare l’evidenza della loro incredibilità. 

– In che senso, nessuna nevrosi? –

Nessuna. – 

Silenzio ammirato e devoto di entrambi. Magari ci riuscissi anch’io, pensiamo in coro. 

Per un anno o due siamo stati amici per la pelle. Certo, era una amitié amoureuse da parte mia, ma senza la minima chance di successo. (Anche se ammetto un mio soprassalto di spes contra spem a sentirgli dire che, durante un periodo di studio a Edimburgo, aveva portato la gonna – il kilt? – per parecchi mesi. Ma erano stranezze comuni tra noi studenti.) La mia infatuazione era leggera come una garza, senza effusioni: né poesie né lacrime. L’Immenso non era uno dei miei grandi amori, punto. Bastava che tenessi la bocca chiusa e le mani a posto. Bastava che tacessi, dicendomi (era vero, vero, doveva essere vero…) che ciò che volevo da lui era, più ancora di un amore corrisposto, quello sguardo intenso sotto il morbido epicanto, la bellezza della sua intelligenza e l’intelligenza della sua bellezza; che lui fosse lui – e lo era. Bastava non soffrire: e io ci ero abituato, a non soffrire per partito preso, no? È più sano. (Ma, col tempo, logorante. Col tempo, suicida.) 

Bastava tacere (che ci vuole, a tacere?) e l’amicizia ci guadagnava. L’amicizia era vera. E che cos’era poi questa cazzo di parola am-icizia, che comincia come l’amore (e la fame: aàm!) ma subito devia verso la pudicizia e la sporcizia? Questa parola imbarazzata che non riesce a darsi un aggettivo – lo sguardo amico puzza di retorica, il gesto amichevole può essere esteriore (e infatti nelle amichevoli ci si dà botte da orbi), il rapporto amicale è roba da psicologi? Cos’era questa parolina inamidata: un certificato ufficiale, uno shibboleth per distinguere i puri dagli impuri? Invece tante grandi vere amicizie erano vasti paesaggi luminosi con un angolino ripiegato, dietro cui si potrebbe leggere, oppure no, la parola amore. Si era complici solo grazie a quella piegolina. 

Eravamo sempre insieme, senza scollarci un solo secondo. Agganciavamo un appuntamento all’altro con quella rara, incantevole invadenza mai sporcata dal dubbio di disturbare: dalla prima colazione annaffiata di caffé americano a un lungo giro in macchina sulle colline, da un pranzetto di bibimbap a un salto in libreria, fino all’ultimo spettacolo del cinema d’essai, per acciuffare un film che lui teneva a farmi vedere, L’ultimo spettacolo. Non potersi vedere: questo, casomai, era imbarazzante. Ci costringeva a trovare giustificazioni che sentivamo oscuramente dovute, anche se naturalmente non ce n’era bisogno, ma che dici, e perché mai… 

Non so come, lavoravamo anche tantissimo. Io stendevo svogliatamente la mia tesi di dottorato, tenevo qualche corso per i ragazzi del college, abbozzavo quello che sarebbe stato il mio primo libro, provavo a tradurre qualche poeta italiano che lì nessuno conosceva –

Life… is remembering a sad 

awakening, in a train, at dawn… 

– leggevo i libri che lui mi passava (I think you’d really love this – Paul Auster, Michael Ondaatje, Don DeLillo, John Berger, Lydia Davis); lui studiava, scriveva, traduceva. E preparava il suo secondo disco. Il primo era già uscito un paio d’anni prima, con buoni riscontri. Aveva, ancor più degli altri ventenni americani, una solitaria, efficace autonomia nell’organizzarsi la vita (studio, lavoro, spostamenti, affetti…), e un vero disgusto per l’ostentazione dei suoi successi personali e pubblici. Colto sul fatto, subito si faceva il verso da solo: Oui, c’est moi (puntandosi la mano al petto), the great artist, the great lover! E cambiava argomento. Quando Tessa ha chiesto: – Mi fai vedere le tue mani? – (sempre al centro dell’attenzione, le sue mani, le sue dita: per una curiosità da bianchi, un quasi innocente esotismo, ma anche perché lo sentivamo come un uomo del fare, del cavarsela da sé, del mettere mano a cose nuove), lui le ha mostrate in tempo rubato, palmo e dorso; ansioso di abbassarle, anestetizzarle, farne di nuovo due strumenti, sia pure artistici, sia pure musicali.

Se avessi potuto entrare nella sua mente avrei trovato un coacervo corallino di templi e tempi eterocliti: Occidente e Oriente, antico e moderno, politica e arte, tenuti insieme grazie a una naturale fluidità. Un flow, un glissando che maschera le dissonanze. Il che non mi sorprende considerato che lui era, prima di tutto, un musicista (le sue canzoni: un pop ronzante e atmosferico come certe scene di La città incantata – ma qui sento tutta l’inadeguatezza della parola scritta, che aspira eternamente e inutilmente alla condizione della musica); e prima ancora di quel prima, era un musicale, una di quelle persone che quando riflettono fanno: – Ppa-ppaa, ppa-ppaaa… come possiamo fare… – , e poi arrivano alla soluzione con un: – Ta-dààà: trovato! – ; che tamburellano le dita, che battono i palmi sul volante, che insomma godono a distinguere e ritrovare e riprodurre e onorare un certo ritmo profondo del tempo vissuto, un gioco di attese e ritardi che soltanto quelli come loro sentono ondeggiare sotto la superficie troppo uniforme e piatta del tempo cronometrico. Mi hanno sempre affascinato, i musicali: per la loro genialità brutale, la loro intelligenza stupida in cui mi rispecchio perfettamente…

Una notte, guidando sotto le stelle con lui e Magnus, ci siamo accorti di star vivendo come in una barzelletta: ci sono un italiano, un giapponese e un tedesco a zonzo per le strade della California… Il trionfo della liberaldemocrazia USA che inghiotte le potenze dell’Asse, ora i suoi più fedeli alleati. Ne abbiamo riso, una risata di zanne, eccessiva e nervosa. Anche Magnus aveva una diga di denti perfetta, abbacinante. Abbiamo parlato d’altro, ma nella testa ognuno di noi aveva un gioco di specchi, il ricordo di un padre o un nonno al fronte dalla parte sbagliata, il ricorso a questo goffo eufemismo come un alibi che diventa un supplemento di colpa. Ognuno di noi si godeva ora le tiepide notti di San Francisco. Ognuno. Ognuno ha il suo intimo, ridicolo shikata ga nai.

Ho chiesto a Magnus se come me aveva parenti militari… di quella generazione. Ne aveva. Li ha citati con una brevità che poteva esprimere ignoranza o riserbo. Ho fatto altrettanto in poche parole tonde – una vera da pozzo, che suggerisce rintocchi profondi. E ci siamo fermati lì, ma già arrivare fin lì non era stato facile. A オサム non l’ho chiesto, non ne ho avuto il coraggio: come se il suo venire da un altro mondo alzasse l’asticella. Allo stesso modo, le rare volte che abbiamo sfiorato l’argomento Hiroshima ho sentito che forse la pensavamo allo stesso modo ma di certo non potevamo procedere su un piano di sensibilità condivisa. Arrivavamo alla stessa vetta da due pareti diverse. 

Tra amici è importante non capirsi -

Le parole e frasi in cui è racchiuso ciò che mi unisce a オサム sono frecce che puntano altrove. Distrattori comici, grandi campate non-figurative di kanji, stenografie del silenzio. Sempre qualcosa di essenzialmente inafferrabile a entrambi. C’era una differenza. E ci serviva. Ci dava spazio di manovra, definiva un campo d’azione. Eravamo curiosi l’uno dell’altro, e indulgenti verso la curiosità reciproca. Non ci siamo mai davvero capiti, io e lui: per questo eravamo amici. 

Finché non è successo qualcosa. Forse è venuto a sapere della mia infatuazione, del resto ormai in declino? O è solo che io avevo cambiato casa e amicizie – basta così poco, laggiù in America, per perdersi di vista? O c’era un punto oltre il quale non potevamo spingerci; la differenza doveva per forza risolversi in somiglianza, oppure in distanza? Di certo ho sentito che lui mollava gli ormeggi in un momento ben preciso. È stato quando, dopo una mia frase con non ricordo – una frase che il tempo ha gettato sulla catasta, e coperto con un miliardo di altri nonnulla, e arso – lui ha risposto:

– I guess that’s kind of obvious. – 

“Direi che è abbastanza ovvio”. Ma si dovrebbe scrivere:

– I guess that’s kind of obvious?! –

per rendere quel sopra le righe che sa di fumetto, quell’increspatura in tonalità ascendente che tradisce un’irritazione enfatica, incredula. Ma cartoon, enfasi, incredulità sono termini troppo forti. È stato, il suo, uno scatto minimo, ammorbidito anche dalla formula di cortesia. 

E io devo aver detto davvero una banalità, che sciocco. Sciocco e banale. 

Mi sento ferito come se tutto in me si fosse rivelato obvious. Così (penso) lui mi ha visto finalmente, o ha visto ciò che gli lasciavo vedere: e non gli è bastato. Tutto qui? – ecco cosa intendeva. Sei tutto qui?

L’ovvio è l’ob-vius, “ciò che ti viene incontro lungo la via”. Ciò che ti si presenta in modo frontale, facile, schietto, amichevole: ma proprio per questo ti fa un affronto, è un nemico da affrontare perché ti impedisce di vedere quanto gli sta dietro, di frugare in profondità con lo sguardo, di vedere tutto. Non ti permette di capire, proprio quando il fascino del non capire non ti basta più. 

Molti anni fa ero di nuovo dalle sue parti e l’ho chiamato. Non poteva incontrami, shikata ga nai! Ha aggiunto: – Ma vediamoci presto. Dobbiamo assolutamente parlare. – Sono le ultime parole che mi ha detto. Sì, dobbiamo parlare, io e Osamu. Io e オサム.

Tommaso Giartosio

Tommaso Giartosio è scrittore, poeta, critico letterario e conduttore radiofonico. Il suo ultimo libro è Autobiogrammatica (Minimum Fax, 2024).

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2025

art direction undesign

web design & development cosmo

sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga

lucy audio player

00:00

00:00