Vittime, testimoni, soldati: i bambini in guerra - Lucy
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Bruno Maida

Vittime, testimoni, soldati: i bambini in guerra

Quando si parla di Gaza o di Ucraina, il nostro pensiero va subito ai bambini. Le immagini e i video, da cui siamo attirati e che spesso scegliamo di condividere, ricercano la nostra commozione. È necessario però andare oltre questa prima lettura per comprendere il ruolo sfaccettato che l’infanzia svolge all’interno dei conflitti e per proteggere i bambini.

1. I bambini di Gaza

Se Sami è ancora vivo, oggi ha diciassette anni e si trova a Gaza o in qualche altro posto della Striscia. Nel settembre 2014 frequentava la seconda elementare ed era terminata da pochi giorni l’Operazione Margine di Protezione con la quale gli israeliani avevano inteso fermare il lancio di missili da Gaza da parte di Hamas. Erano state lanciate 20 mila tonnellate di esplosivi, i morti nella Striscia erano stati più di duemila di cui almeno 500 bambini. In quel settembre di calma apparente, al sesto giorno di scuola il maestro Rami Hammuda assegnò un tema: racconta la guerra. Tutti gli alunni si limitarono a poche parole, solo Sami scrisse qualche frase più lunga: “Ero nella casa di mio nonno. Ci hanno sparato. Siamo scappati. Ci hanno sparato ancora. La casa non c’è più. La mia bicicletta è tutta rotta”1

Il corrispondente del «Corriere della Sera», Francesco Battistini, ha raccontato come i bambini palestinesi hanno vissuto i cinquanta giorni di bombardamenti, osservando i loro disegni: gli israeliani li facevano piccoli perché gli mettevano paura mentre i miliziani di Hamas erano rappresentati con bocche di fuoco enormi. “Perché sono ‘i nostri’ – raccontò il maestro al giornalista – e tante volte li hanno visti sparare fra le case”. I disegni raccontavano la guerra: gli aerei che buttavano le bombe, le ambulanze, i missili, i corpi senza braccia, i colori sgargianti e terrificanti dei lampi. 

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Dieci anni dopo, Battistini racconta ancora cosa pensano e scrivono i bambini di Gaza, in fuga e sotto le bombe2. “Quando la guerra finisce – dice Abud, 10 anni, di Rafah – voglio diventare poliziotto. E arrestare chi ci ha fatto questo”. Karim ha 12 anni ed è rimasto orfano e non può più andare nella sua scuola, la numero 18 di Gaza City, né litigare con i tre fratellini e passare la serata a tavola mangiando insieme alla sua famiglia. Difficile, forse impossibile, dire quale sarà il suo destino. Alla fine di dicembre 2023 secondo le stime delle Nazioni Unite, si contano almeno ottomila bambini uccisi nella Striscia di Gaza, altri 337.000 sotto i cinque anni necessitano di assistenza alimentare e quasi 8 mila di loro sono affetti da malnutrizione acuta o grave. Tutti i quindicimila bambini che sono nati negli ultimi tre mesi a Gaza sono a rischio per le complicazioni possibili nel parto in assenza di qualsiasi struttura medica per assistere le madri.

Il rapporto Stop The War on Children 2023 di Save The Children racconta inoltre che la condizione dei bambini di Gaza è molto più diffusa di quanto si possa credere. Nel 2022 sono stati 468 milioni i bambini che hanno vissuto in una zona di guerra, con un incremento di quasi il 3 per cento rispetto all’anno precedente. Un bambino ogni sei al mondo è dunque costantemente in pericolo. 

Altrettanto drammatica la condizione di tutti i bambini israeliani rapiti da Hamas il 7 ottobre e tenuti come ostaggi per settimane – né si può dimenticare che ogni fanciullo che vive in un clima di costante pericolo, per la guerra o per un atto terroristico, è sottoposto a uno stress traumatico che ne condiziona l’esistenza e il rapporto con il mondo. Perché, sebbene la risposta del governo israeliano alla strage compiuta da Hamas risulti del tutto sproporzionata, facendosi vendetta e pulizia etnica, i diritti dei bambini sono tali in qualunque momento e a qualsiasi latitudine. Sono i diritti di Ohad Munder, nove anni, che liberato il 25 novembre ha attraversato correndo in ciabatte il corridoio dell’ospedale Schneider di Tel Aviv, e ha riabbracciato il padre per poi dedicarsi al cubo di Rubik, uno dei suoi passatempi preferiti. Sono i diritti di Emilia Aloni, che di anni ne ha cinque, anche lei liberata lo stesso giorno: ha stretto la mano della mamma e, abbracciata al papà, ha raccontato: “Sognavo sempre di andare a casa”3.

“Nel 2022 sono stati 468 milioni i bambini che hanno vissuto in una zona di guerra, con un incremento di quasi il 3 per cento rispetto all’anno precedente. Un bambino ogni sei al mondo è dunque costantemente in pericolo”. 

2. 1924: la Carta dei Fanciulli

In quella che è stata chiamata “la conferenza stampa dei bambini”, davanti all’ospedale Al Shifa di Gaza, il 7 novembre 2023 quattordici di loro hanno letto un appello che diceva: “Non abbiamo cibo e beviamo acqua non potabile. Ora veniamo qui a gridare a voi e chiedervi di proteggerci. Noi vogliamo vivere come tutti gli altri bambini” 4.

Nel 2021 un altro gruppo di bambini di Gaza aveva lanciato un messaggio simile, rimasto come sempre inascoltato: “We want to live like Children in other countries who can play in playgrounds instead of hiding from bombs. We want Gaza to be a safe and beautiful place where we can live in peace. We still have hope. But we want this war to be the last war”. 

Sono messaggi che ci riportano indietro di un secolo, al febbraio 1924, quando Save The Children Fund International Union elaborò la prima carta dei diritti del bambino sulla base del testo redatto da Eglantyne Jebb, fondatrice, insieme ad altre donne inglesi, dell’organizzazione umanitaria. Tradotta in 36 lingue, la carta venne inviata alla Società delle Nazioni che, nella sua quinta assemblea del 24 settembre, l’approvò. Semplice e concisa, il suo preambolo recitava: “Uomini e donne di tutte le nazioni, riconoscendo che l’umanità deve offrire al fanciullo quanto di meglio possiede, dichiarano ed accettano come loro dovere che, oltre e al di là di ogni considerazione di razza, nazionalità e credo” al fanciullo siano garantiti una serie di diritti sociali che erano elencati in cinque punti: i mezzi necessari per il suo sviluppo materiale e spirituale; il nutrimento, le cure, le garanzie per un adeguato sviluppo e per l’eventuale recupero sociale, l’accoglienza e l’accudimento se orfano o abbandonato; l’assistenza nei tempi di miseria; la possibilità di guadagnarsi da vivere e la protezione contro ogni forma di sfruttamento; la formazione della consapevolezza che le sue capacità e abilità fossero messe al servizio dell’umanità.

Quella Carta dei Fanciulli non era vincolante per gli Stati che la sottoscrissero, che tuttavia si impegnarono ad applicarla. Ben poco, in realtà, venne fatto tra le due guerre mondiali per tradurre in realtà i principi enunciati con tanta enfasi.

Nondimeno, va ricordato che la Carta dei Fanciulli riveste una notevole importanza simbolica in quanto per la prima volta veniva riconosciuta all’infanzia la titolarità di alcuni diritti fondamentali e il fatto che i bambini non fossero unicamente portatori di doveri nei confronti degli adulti. Ebbe insomma valore emancipatorio e fu insieme la rivendicazione e il riconoscimento che i fanciulli avevano il diritto a crescere normalmente, garantiti sotto il profilo della salute, dell’educazione, delle relazioni con gli altri individui.

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Nella seconda metà del Novecento si successero diversi documenti che nascevano dal tentativo di definire con sempre maggiore cura i diritti di bambini e bambine, nella consapevolezza che l’infanzia era un protagonista della Storia e al tempo stesso la prima vittima delle guerre, dello sfruttamento e dell’intolleranza: dalla Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 all’integrazione, nello stesso anno della Carta del Fanciullo del 1924, dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 20 novembre 1959 alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, anche queste ultime due approvate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Furono documenti frutto di lunghe e complesse trattative diplomatiche, densi di valori e principi di altissimo impegno etico, che immaginavano un mondo nel quale l’infanzia fosse portatrice, in ogni luogo, di diritti universali e che la sua vita e crescita avvenissero nel massimo rispetto e cura per la sua educazione, salute, dignità, garantendogli l’amore di una famiglia e la possibilità di realizzarsi, senza essere sfruttata o costretta a combattere.

Tuttavia, queste speranze si sono realizzate solo in parte: in tutto il mondo, mediamente, la condizione dell’infanzia è migliorata ma solo in Occidente quei principi sono stati realmente applicati. Nel resto del pianeta, ancora oggi, milioni di bambini e bambine non vanno a scuola, non possono accedere a cure mediche, sono costretti a lavorare, sono orfani e non hanno futuro.

3. I diritti dei bambini in guerra

In parallelo, sulla spinta delle guerre mondiali e dei genocidi che attraversarono il Novecento, dei conflitti e delle guerre civili che accompagnarono i processi di decolonizzazione e dei processi sempre maggiori di spostamento di popolazione ed espansione del fenomeno dei profughi, il diritto internazionale cercò di intervenire per definire strumenti di protezione e garanzia per la popolazione civile, e per l’infanzia in particolare, coinvolta in quei processi. Due furono i principali interventi. Il primo fu quello delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e specificatamente la quarta relativa al trattamento da riservare ai civili in tempo di guerra. Al suo interno diciassette articoli erano dedicati ai bambini coinvolti nelle guerre. Venivano definiti bambini coloro che avevano un’età inferiore a quindici anni.

Secondo quegli articoli i fanciulli dovevano essere sgomberati dalle zone assediate o accerchiate; dovevano essere garantiti loro viveri, indumenti e ricostituenti; gli orfani o i bambini abbandonati dai genitori non dovevano essere lasciati a se stessi, fornendogli contemporaneamente l’assistenza necessaria; doveva essere promossa l’istruzione nelle scuole o nei luoghi di internamento, ma anche la possibilità del movimento e del gioco. La quarta Convenzione faceva inoltre riferimento per la prima volta al divieto di arruolare i fanciulli nell’esercito, sebbene solo in riferimento alla potenza occupante.

“Nella seconda metà del Novecento si successero diversi documenti che nascevano dal tentativo di definire con sempre maggiore cura i diritti di bambini e bambine, nella consapevolezza che l’infanzia era un protagonista della Storia e al tempo stesso la prima vittima delle guerre”.

Il secondo intervento furono i Protocolli aggiuntivi alle stesse Convenzioni, approvati nel 1977, che oltre alle ragioni indicate nascevano sotto la spinta di un contesto internazionale significativamente urgente, nel quale emergevano per esempio le gravi condizioni dei circa due milioni di profughi palestinesi sotto il controllo israeliano dopo la Guerra dei Sei giorni oppure quelle della popolazione dei Biafra durante la guerra di Nigeria alla fine degli anni Sessanta, dove la Croce rossa riusciva a intervenire solo con grande difficoltà.

Nei 130 articoli che componevano i Protocolli vi era il tentativo di rivedere le convenzioni dell’Aja e di Ginevra – i primi documenti approvati dalla comunità internazionale a fine Ottocento che avevano tentato di regolamentare il cosiddetto ius in bello – con l’intenzione di definire con chiarezza la distinzione tra combattenti e civili, così da impedire alle forze militari un uso indiscriminato della violenza. Una particolare attenzione era rivolta alla salvaguardia della vita e dignità dei bambini, come esplicitamente dichiarato nell’art. 77: “I fanciulli saranno oggetto di un particolare rispetto e saranno protetti contro ogni forma di offesa al pudore. Le Parti in conflitto forniranno loro le cure e l’aiuto di cui hanno bisogno a causa della loro età o per qualsiasi altro motivo” 5. Veniva anche sancito il divieto di arruolamento, a tutte le parti in conflitto, dei minori di 15 anni, sebbene con una certa ambiguità, dato che per coloro che avevano un’età compresa tra i 15 e i 18 anni si prescriveva che gli eserciti avrebbero semplicemente dovuto dare la precedenza ai maggiori. D’altra parte, la definizione dell’infanzia a partire dall’età ha rappresentato, in tutti gli accordi e convenzioni, un tema di difficile applicazione considerando la differente interpretazione che ne viene data nei diversi stati e culture. In ogni caso, la sua soglia si è via via stabilizzata sui 18 anni, in modo da garantire la protezione al più ampio spettro possibile di bambini e ragazzi.

Fu di grande importanza, inoltre, il fatto che i Protocolli per la prima volta normassero il fenomeno dei “bambini soldato”. Sempre l’art. 77 recitava al comma 2: “Le Parti in conflitto adotteranno tutte le misure praticamente possibili affinché i fanciulli di meno di 15 anni non partecipino direttamente alle ostilità, in particolare astenendosi dal reclutarli nelle rispettive forze armate”. L’espressione “non partecipino direttamente” aveva anch’essa un certo margine di interpretazione in quanto non escludeva un insieme di mansioni spesso attribuite dagli eserciti e dalle milizie ai bambini nelle retrovie, pur non risultando regolarmente arruolati.

Tuttavia, venivano introdotte una serie di garanzie nuove e importanti nel trattamento dei bambini che potevano finire nelle mani degli eserciti avversari a partire dal divieto della pena di morte. Inoltre per la prima volta, veniva inserita una tutela di genere. Infatti, i Protocolli prendevano atto che esistevano “bambine-soldato” che erano spesso oggetto di sfruttamento, violenze sessuali e gravidanze imposte.

4. Vittime, attori, spettatori

Nel febbraio 2020 diventa rapidamente virale sul web un breve video di una bimba di tre anni, Saiwa, che ride in braccio al suo papà, Abdullah Al-Mohammad. Le immagini provengono da Sarmada, in Siria, al confine con la Turchia, una zona dove è forte la resistenza al regime di Bashar al-Assad e per questo sottoposta a pesanti bombardamenti. Saiwa ha paura delle bombe e così suo padre inventa un gioco che chiama “ridere sotto le bombe”. Abdullah, infatti, convince Salwa che le esplosioni sono in realtà fuochi d’artificio. “Perciò ogni volta che una bomba cade e si sente il boato, la risata di Salwa ci investe con una forza contagiosa che trasforma un universo assurdo in una realtà possibile”6.

Non è ciò che farebbe qualunque genitore di fronte alla paura del proprio figlio, sapendo che una vita quotidiana segnata dal terrore, dalla fame, dallo spettacolo della morte accelera in modo rapidissimo la fine dell’infanzia? A loro volta, i bambini nelle guerre, in tutte le guerre, giocano, disegnano, osservano, raccontano come forma necessaria, e verrebbe da dire naturale, di interpretazione del mondo, alla ricerca di un senso nella realtà, per renderla intellegibile, per definire confini all’interno dei quali agire e vivere, per rispondere in qualche modo ai traumi e alle ferite 7.

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Ognuno di questi segni, infantili e genitoriali, sono tracce per la storia e per la memoria, messaggi nella bottiglia che cercano di sopravvivere alla desertificazione del territorio, a un panorama di macerie. Ognuno di questi segni ci ricorda soprattutto che in tutte le guerre, bambini e bambine sono vittime, attori e spettatori. È importante tenerlo sempre a mente, per evitare prima di tutto una distorsione nello sguardo e nel giudizio. Distorsione che riguarda la commozione verso le vittime, che cresce quando la vittima è l’infanzia. Non saremmo umani se non ci commuovessimo di fronte alle sofferenze e alla morte di bambini a causa di un attacco terroristico, di una bomba oppure per le malattie o la fame (anche se a volte siamo forse un po’ meno umani quando iniziamo a fare certe gerarchie: è più grave la morte di un neonato ucciso da Hamas o di un neonato morto per mancanza di energia elettrica per alimentare una culla termica?).

E nondimeno la commozione non basta, rischia di essere una strada troppo facile che ci aiuta a schierarci ma assai meno a capire. Non è insomma una questione di commozione, né tantomeno di buon cuore, pericolosissimo antidoto alla consapevolezza, se non accompagnati dalla conoscenza e dallo spirito critico. È una questione di trasmissione culturale, del mondo che immaginiamo, delle ragioni per cui siamo disposti a sacrificarci.

L’infanzia è una posta in gioco prima, durante e dopo un conflitto. Si dice che la guerra la si fa per difendere i bambini, e che si ricostruisce in nome dei bambini. Questo valore simbolico non deve però nascondere il ruolo dell’infanzia, che nelle guerre non è solo vittima ma ne è coinvolta in molte e differenti forme, anche considerando le profonde trasformazioni delle guerre novecentesche in cui il coinvolgimento e la mobilitazione della popolazione civile sono stati sempre più massicci e in cui le capacità distruttive e di morte sono aumentate esponenzialmente grazie alla tecnologia.

Se è del tutto evidente, per esempio, come all’interno dei genocidi l’infanzia sia la vittima per eccellenza, anzi si potrebbe dire il punto di partenza e di arrivo per impedire che quel gruppo possa ancora esistere, tuttavia va ricordato che bambini e bambine sono vittime anche dei processi di militarizzazione e costruzione del cittadino in quanto soldato che i sistemi a caratterizzazione totalitaria hanno definito e prodotto (e continuano in forme diverse a produrre). 

Ma il paradigma vittimario applicato all’infanzia non esaurisce la complessità del protagonismo di bambini e bambine all’interno delle guerre. L’infanzia è infatti altrettanto soggetto di storia nella sua dimensione di attore: partecipa in funzioni e ruoli militari, soprattutto nelle guerre della seconda metà del secolo nelle corso delle quali si è sviluppato il drammatico e diffuso fenomeno dei bambini-soldati; è soggetto mobilitante con un ruolo strategico sotto il profilo della capacità di attivare e indirizzare sentimenti collettivi e quindi con una funzione determinante sotto il profilo della propaganda; è portatrice di scelte individuali, di pensieri, di memorie, di pratiche, di soggettività e di partecipazione all’interno dei nuclei familiari.

Infine, l’infanzia è anche spettatrice, cioè testimone degli eventi, e di quelle storie diventa narratrice attraverso parole, sguardi, segni. Per esempio, i bambini hanno sempre disegnato la guerra così come ogni altro aspetto della loro vita. I loro “scarabocchi” hanno avuto quasi sempre vita breve, considerati un passatempo o un esercizio privo di valore testimoniale o capace di rivestire qualsiasi altro interesse. Sono invece da considerare documenti a tutti gli effetti, ancora più importanti quando l’età o i traumi psicologici non permettono la scrittura (che anche nel disegno può essere presente come didascalia o come parte di un ipertesto) o il racconto orale. Abbiamo visto che è accaduto e accade a Gaza; analogamente e con assai maggiore impatto mediatico – dato che sono flebili le voci che arrivano dalla popolazione palestinese, che i giornalisti possono raggiungere con grande difficoltà – si è registrato nel caso dell’infanzia ucraina i cui disegni sono stati messi in mostra in diversi luoghi del mondo8.

5. Immagini

Quando scoppia la guerra in Ucraina, Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, pubblica su Twitter una foto con un commento: “Ora spiegate a lei che sanzioni più pesanti sarebbero troppo costose per l’Europa”. Lei è una bambina ucraina di nove anni, fotografata seduta nel vano di una finestra, con un fucile in mano e un lecca lecca in bocca. L’immagine fa rapidamente il giro del mondo e nell’immediato nessuno opera controlli sulla sua veridicità. Ad averla scattata è Oleksii Kyryschenko, padre di questa bambina, fotografo per hobby. Non vuole che si sappia il nome della figlia: “Lei stessa sa di essere diventata famosa, suo malgrado, ma non saprebbe bene dire cosa questo significhi” 9. Quella che sembra una fotografia che mostra la mobilitazione dell’infanzia in nome della difesa della patria invasa è stata però scattata due giorni prima dell’attacco russo all’Ucraina. La casa sembra già bombardata, il fucile ha un significato inequivocabile: è il simbolo di un’infanzia, verrebbe da dire di un’innocenza collettiva, in pericolo. Nessuno in Italia, a parte «Avvenire», pensa di scusarsi con i lettori per il cortocircuito propagandistico che la fotografia attiva e per il processo di militarizzazione dell’infanzia a cui rinvia 10.

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Non è una novità, sia chiaro. Molte immagini hanno rappresentato, soprattutto nei regimi autoritari ma non solo, la mobilitazione dell’infanzia a favore delle “buone ragioni” per cui si combatte e si uccide, fino a costruire una vera e propria militarizzazione del popolo dei bambini (e sempre di più delle bambine).

Nel febbraio 2018, per esempio, il presidente Erdogan ha partecipato a una manifestazione di massa nella provincia di Maras; le immagini mostrano bambini esultanti, in divisa militare, che sventolano bandiere. Poi la telecamera si concentra sul volto commosso di una bambina, anche lei con la divisa e il berretto da soldato. Erdogan la vuole sul palco; e la bambina lo raggiunge, con il volto rigato dalle lacrime. Nel suo discorso, Erdogan dichiara che quella bambina è pronta a morire per la patria e a essere sepolta nella sua bandiera11

Nel corso del Novecento altre immagini hanno invece incarnato più di ogni discorso l’antiumanità della guerra quando in particolare coinvolge l’infanzia: la fotografia del bambino di Varsavia con le mani alzate durante la liquidazione del ghetto nel 1943 12; quella di Phan Thị Kim Phúc, la “bambina della foto”, al confine tra Vietnam e Cambogia nel 1972, che camminava barcollante, le braccia larghe, completamente nuda, perché senza accorgersene si era strappata i brandelli di vestiti che le erano rimasti, la bocca aperta in un grido e nel pianto 13; il corpo di Aylan, tre anni, il corpo senza vita steso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, nel settembre 2015, immagine simbolo di una migrazione investita di paure, filo spinato, muri, razzismo e violenza 14.

Moltissime altre fotografie sono diventate il basso continuo di un racconto della ferocia e della macelleria che contraddistingue ogni guerra, con un’intensità in cui appare assai incerto il confine tra la volontà di testimoniare l’orrore e quella di spingere a schierarsi da una parte o dall’altra.

“L’infanzia è infatti altrettanto soggetto di storia nella sua dimensione di attore: partecipa in funzioni e ruoli militari, soprattutto nelle guerre della seconda metà del secolo nelle corso delle quali si è sviluppato il drammatico e diffuso fenomeno dei bambini-soldati”.

L’insieme del racconto visivo che attraversa il secolo e arriva fino a noi ci rinvia in fondo a considerazioni semplici quanto indiscutibili, a una sorta di base essenziale del vivere civile che può essere riassunta in quattro principi: condannare i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra chiunque li commetta, in qualunque luogo vengano perpetrati, per qualsiasi ragione avvengano; proteggere i civili nelle crisi e nelle guerre, e soprattutto i bambini, sempre e comunque, garantendo cibo, acqua, cure e dignità; non distinguere la provenienza, le cause della loro fuga e della ricerca di un luogo di salvezza (per esempio, impedendo come è accaduto, al confine con la Polonia, che fossero accolti i bambini profughi dall’Ucraina e respinti coloro che provenivano dalla Siria); ricordare sempre che “la guerra è male e a essa si dovrebbe porre fine; i bambini sono innocenti e li si dovrebbe proteggere”15.

1

 Francesco Battistini, L’orrore e la paura della guerra nei quaderni dei bambini di Gaza, in “Corriere della Sera», 23 settembre 2014.

2

Id, I bambini perduti di Gaza: le storie di Ghazal, Abud, Kenan e tanti altri, in “Oggi”, 8 dicembre 2023.

3

Francesca Caferri, “La notte sognavo la mia casa”. Il day after dei primi liberati: psicologi al lavoro sui traumi, in «la Repubblica», 26 novembre 2023.

4

Sami al-Ajrami, La “conferenza stampa” dei ragazzini nell’ospedale al-Shifa di Gaza: “Vogliamo vivere”, in «la Repubblica», 8 novembre 2023.

5

Per una ricostruzione complessiva, cfr. Bruno Maida, L’infanzia nelle guerre del Novecento, Einaudi, Torino, 2017.

6

 Bruno Maida, Infanzia in guerra / For Sama. Messaggi nella bottiglia, in «Doppiozero», 25 febbraio 2020.

7

Alfred e Françoise Brauner, Ho disegnato la guerra. I disegni dei bambini dalla Prima guerra mondiale a Desert Storm, Erikson, Trento, 2003.

8

A pure titolo di esempio si vedano le mostre realizzate a Milano (Daniela Solito, Ucraina, a Milano i disegni dei bambini che raccontano la guerra: mostra e laboratorio per ricambiare con messaggi di speranza, in “la Repubblica”, 16 novembre 2022) e a Chicago (https://uima-chicago.org/children-of-war).

9

Irene Soave, Fucile e lecca lecca. «Vi spiego perché ho fotografato così la mia bambina», in «Corriere della Sera», 21 marzo 2022. 

10

Marco Tarquinio, Una foto e buoni motivi per scusarsi. Non armiamo così i bambini, in «Avvenire», 13 marzo 2022.

11

Bruno Maida, I bambini soldato di Erdogan, 28 febbraio 2018 (https://conocchidibambino.wordpress.com/2018/02/26/i-bambini-soldato-di-erdogan/).

12

Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, trad. F. Grillenzoni, Laterza, Roma-Bari, 2014.

13

Denise Chong, La bambina nella fotografia. La storia di Kim Phuc e la guerra del Vietnam, trad. P. Bonini e S. Bourlot, Codice, Torino, 2004.

14

Migranti, ritorno a Kobane per il piccolo Aylan. Il padre in Siria per i funerali della famiglia, in «la Repubblica», 5 settembre 2015.

15

David M. Rosen, Un esercito di bambini. Giovani soldati nei conflitti internazionali, trad. di B. Del Mercato, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p.1.

Bruno Maida

Bruno Maida è professore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Il suo ultimo libro è L’infanzia nelle guerre del Novecento (Einaudi, 2017).

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