Vivere in una canzone di Franco Battiato - Lucy
articolo

Ivan Carozzi

Vivere in una canzone di Franco Battiato

Immaginate di scoprire in casa vostra una stanza tutta blu con iscrizioni arabe dorate risalenti alla seconda metà dell’Ottocento. È quello che è successo a una famiglia di Ballarò, Palermo. Come è cambiata la loro vita da allora? E qual è l’origine di questa “camera delle meraviglie”?

Un mattino a Palermo risalgo a piedi via Antonio Mongitore, nel quartiere (o “mandamento”, come dicono qui) dell’Albergheria. Voglio visitare uno spazio, una stanza di pochi metri quadrati all’interno di un vecchio immobile, che credo si possa definire “magica”, “misteriosa”, forse perfino “romantica”. Ne avevo letto da qualche parte su internet, molti anni fa, nel 2013. Avevo visto delle immagini sfogliando una gallery sulla homepage di un quotidiano. La notizia aveva le caratteristiche giuste per finire nel colonnino della homepage, ma al tempo stesso documentava un ritrovamento che andava al di là del sensazionalismo. Riguardava un pezzo sconosciuto del patrimonio storico-artistico, ma soprattutto l’imprevedibilità del caso. Da allora mi era rimasto il desiderio di andare a vedere con i miei occhi. Nel frattempo il vano è entrato a far parte del circuito delle attrazioni turistiche e ha acquistato una sua piccola notorietà, anche se è visitabile solo su appuntamento. Eccomi qui, davanti al portone di via Porta di Castro 239, a pochi passi dalla vetrina di un’impresa funebre e di un magazzino aperto su strada  traboccante di cianfrusaglie, dove ho contrattato il prezzo di alcune rare e bizzarre riviste di medicina e antropologia, risalenti agli anni Settanta. A Palermo mi sembra più facile che altrove fare incontri e concludere piccoli affari.  

La storia del luogo inizia con l’acquisto di un appartamento da parte di una coppia, ormai vent’anni fa, all’inizio del millennio. Lui si chiama Giuseppe Cadili e oggi è un giornalista in pensione. Un tempo lavorava al «Giornale di Sicilia». Lei si chiama Valeria Giarrusso e lavora come ufficio stampa. Hanno un figlio, Antonio Tancredi, un bambino di dodici anni, sveglio, pieno di progetti e, nonostante l’età, già ricco di competenze. Generazione Alpha (o “screenager”), stando al termine proposto in un TEDx da un demografo di nome Mark McCrindle.

Giuseppe e Valeria nell’inverno del 2002 vivevano ancora lungo il rettilineo di via Lincoln, vicino alla sede del «Giornale di Sicilia», nel quartiere della Kalsa. All’epoca erano in cerca di una casa da acquistare. Un mattino di novembre, Giuseppe telefona a Valeria: “Sto visitando un appartamento”. Con una battuta, da giornalista a giornalista, le dice: “Se dovessi dare un titolo a questo posto sarebbe Il sogno”. Poi tornano insieme a vedere lo spazio. L’appartamento in realtà è disabitato da anni. È in condizioni d’incuria. L’intero stabile settecentesco è in stato di abbandono. Le vecchie maioliche del pavimento sono state trafugate e al loro posto ci sono delle tavole. La porta d’ingresso manca di serratura ed è tenuta chiusa da un lucchetto e un catenaccio. I passi di Giuseppe e Valeria sono intralciati da mattoni e calcinacci. Detriti e schegge di vetro scricchiolano sotto la suola delle scarpe. Dalle finestre rotte entrano i colombi. 

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Nonostante la fatiscenza, Giuseppe e Valeria restano impressionati dal dedalo di stanze che compone il grande appartamento e da ciò che resta delle decorazioni liberty che ornano i soffitti. C’è anche un terrazzo che da una parte offre una vista ravvicinata sulla facciata color biscotto del Palazzo dei Normanni e dall’altra guarda verso la chiesa di San Giovanni degli Eremiti. Con le sue cupole emisferiche, cinte da palme dal fusto snello e signorile, San Giovanni degli Eremiti è testimone elegantissimo e struggente della dominazione araba in Sicilia. Giuseppe e Valeria decidono di acquistare la casa e affidano i lavori a una ditta. La ditta è onesta e capace. I lavori richiedono tempo.

Poi Giuseppe e Valeria prendono finalmente possesso degli spazi. È il 2004. Passa altro tempo. Per la coppia comincia una nuova vita. Se si esce di casa, nel giro di pochi minuti ci si trova nei pressi della cattedrale arabo-normanna e del convitto nazionale Giovanni Falcone. Se si prende un’altra direzione, si finisce per le strade dell’Albergheria e di Ballarò, quartieri popolari, disseminati di malconci edifici storici rovinanti sopra un’estensione di terra abitata fin dai tempi dei Fenici. Ma poi ecco una sorpresa che aggiunge allo spartito delle vite di Giuseppe e Valeria: una nota “magica”, “misteriosa”, “romantica”. Per colpa dell’umidità, l’intonaco di una delle stanze ha cominciato a gonfiarsi e spezzarsi, rivelando l’esistenza di altri quattro strati. Gratta gratta, si scopre che l’ultimo strato è di colore blu. Poi marito e moglie vedono che lungo la parete si alternano dei segni, singolari, esotici – dal tratto molto aggraziato – diversi dal nostro alfabeto. Serve del tempo per recuperare il denaro necessario a un restauro in piena regola. Passano anni. Nel 2010 nasce Antonio. Poi i lavori partono, coordinati da Franco Fazzio, un’autorità, docente di restauro dei beni culturali all’Università di Palermo. Mano a mano i quattro strati vengono rimossi. Tolto il velo, la stanza torna nuda e si rivela per ciò che era un tempo.

Colpo di scena. La stanza è un cubo, tutto spalmato di un blu uniforme e vellutato, al tempo stesso cupo, arcano e sfavillante. Ogni parete è decorata per intero da scritte in arabo, color oro e argento, ordinatamente disposte e disegnate con una grazia che delizia lo sguardo. Le iscrizioni più importanti sono formate da morbide e volteggianti pennellate, che s’intersecano in una sorta di danza, fino a formare dei “tughra”, cioè sigilli di epoca ottomana, con funzioni apotropaiche, cioè di talismano. Su ogni volta sono dipinte sette lucerne. Simboleggiano il momento della creazione dell’universo da parte di Allah. La frase che si ripete – per incidersi nella mente – lungo le pareti pare corrispondere a un hadith, un detto del profeta Maometto: “Sia lodato Dio, niente è simile a lui”. Così dicono alcuni studiosi, che si sono presi la briga di decifrare le iscrizioni. Anche le porte, dopo essere state sottoposte a TAC da un radiologo, vengono restaurate. Si scopre che sono anch’esse di colore blu e fittamente decorate. Un blu così pimpante e longevo è dovuto all’impiego della pittura a olio. All’inizio si pensa che la stanza sia una moschea.

Se ne parla sui giornali, la notizia fa il giro del mondo. Il «Corriere della Sera» ne scrive in un articolo del 2013. È una scoperta che non solo desta meraviglia, ma sotto sotto un po’ confonde le idee, forse perché la stanza araba tocca un nervo scoperto e suscita sentimenti contrari al senso comune dell’epoca. O almeno: questo è l’effetto che ha su di me nel 2013 (ma credo di non essere stato l’unico, tra chi al tempo ha letto quell’articolo o ha visto le foto). Nel 2013 il trauma dell’11 settembre è ancora vivo. I cittadini dei paesi occidentali vengono da un’interminabile stagione di tensioni e conflitti con il mondo arabo, alimentati da una destra islamofoba che costruisce fortune e carriere speculando sulla questione migratoria. Nel 2013 lo stato islamico dell’Iraq si fonde al ramo siriano di Al-Qaeda e si prepara a proclamare il califfato. Fra il 2010 e il 2011 erano scoppiate le primavere arabe: scenari di speranza, ma pure d’incertezza. A Palermo, invece, viene per caso scoperto una specie di tempio, tutto da capire, nessuno sa che cos’è, che però sembra diffondere, con il blu, l’oro e l’argento, un invito alla conoscenza e alla tolleranza.

Chiunque metta piede nell’appartamento si guarda attorno ed esclama: “Che meraviglia”. Perciò Giuseppe e Valeria decidono di ribattezzare la stanza “Camera delle meraviglie” (un calco accidentale del vecchio “wunderkammer” della lingua tedesca). Come certe immagini incastonate nei testi di Franco Battiato, capaci di creare attrazione verso il Medio Oriente e la civiltà araba, così la scoperta delle camera delle meraviglie, con il suo blu siderale, ci appare come una rivelazione inattesa del lato suadente del misticismo islamico, proprio negli anni in cui siamo stati tutti preda di una grande ansia collettiva. 

“A Palermo viene per caso scoperto una specie di tempio, tutto da capire, nessuno sa che cos’è, che però sembra diffondere, con il blu, l’oro e l’argento, un invito alla conoscenza e alla tolleranza”.

Mentre Antonio Tancredi gira per casa in triciclo, “La camera delle meraviglie” diventa oggetto di studio da parte di storici dell’arte e islamisti. Non è facile stabilire chi abitò nella casa fra il 1850 e il 1870, cioè nel periodo in cui si stima siano state realizzate le decorazioni. Siamo a cavallo dell’Unità d’Italia. L’immobile all’epoca faceva parte delle proprietà di Stefano Sammartino (famiglia palermitana di antico lignaggio), ministro delle Finanze, capo della polizia borbonica e possibile appartenente alla massoneria, il che potrebbe dare credito all’ipotesi circa un significato esoterico della stanza. Pare che Giuseppe Garibaldi sia stato nominato gran maestro della Massoneria a Palazzo Federico, edificio quasi millenario che si trova a pochi minuti a piedi dalla “Camera delle meraviglie” e dove da 400 anni vivono i discendenti di Federico II di Svevia, l’imperatore detto “stupor mundi”. Un’altra congettura, più mondana, ritiene che la stanza sia stata una cosiddetta “stanza alla turca”, cioè uno spazio progettato secondo il gusto e la fascinazione per l’Oriente che furono di moda all’epoca. Un’altra ipotesi ancora è che la stanza possa essere in qualche modo collegata alla figura di Michele Amari, politico (fu ministro dell’Istruzione Pubblica) e arabista palermitano. 

Un aspetto affascinante di questa storia è che quella vissuta da Giuseppe Cadili e Valeria Giarrusso è una vicenda che ha a che fare con il caso e con la fortuna. Così come si può uscire di casa e venire investiti da una macchina, così un giorno si può trovare una camera delle meraviglie, al di là dei meriti e dei demeriti di ciascuno. La Camera delle meraviglie – capsula del tempo, stanza per la meditazione, materializzazione di uno spazio che sembra precipitato da un altro universo – ha cambiato la loro vita. La casa però è rimasta una casa. Non è diventata un museo. Si può visitare solo su appuntamento, prendendo contatto con una cooperativa turistica attiva a Ballarò. Giuseppe è una persona affabile e misurata. Non si è lasciato troppo suggestionare e contagiare dalla quotidiana convivenza con la Camera delle meraviglie. È lui che fa da cicerone ai gruppetti di curiosi che si guardano attorno pieni di stupore. Quando può riceve storici dell’arte e arabisti. Un giorno del 2003 la dea Fortuna, sorreggendo la sua famosa cornucopia, ha lasciato rotolare a terra alcuni frutti succulenti, che poi sono finiti tra i piedi di Giuseppe e di Valeria. Ma è uno scherzo che continua a produrre effetti e risultati. Me ne rendo conto attraversando le altre stanze dell’appartamento.

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Noto a una parete una cornice con la locandina di un film. Mi avvicino. Il film s’intitola Il teorema della felicità e il protagonista è Antonio Tancredi Cadili, il figlio di Giuseppe e Valeria. Si tratta di una produzione italo-canadese. Giuseppe mi riassume la trama del film. Racconta la storia di un bambino che ha escogitato un sistema per proteggere gli anziani dal Covid. Antonio ha partecipato a un’audizione ed è stato scelto per il ruolo del protagonista. Per Antonio ha significato imparare a recitare e studiare un copione di 120 pagine, sia in italiano che in francese, con l’aiuto di un coach. All’interno della casa c’è pure un teatrino dei pupi, una struttura che occupa una stanza intera. È un’altra passione di Antonio. Ne ha parlato anche una tv tedesca in un documentario. Ci sono i fondali dipinti, la marionetta della bella Angelica, gli eroi cristiani e saraceni con le armature, gli scudi e i pennacchi. L’arte dei pupi gli è stata insegnata dagli Argento, famiglia di maestri pupari da 130 anni. Un giorno del marzo 2019 il presidente cinese Xi Jinping è in visita a Palermo e a Palazzo Reale assiste a una breve dimostrazione dell’opera dei pupi. A muovere i pupi è Antonio, che nell’occasione indossa un papillon rosso. Ci sono anche Leoluca Orlando e Gianfranco Miccichè. Un interprete sussurra nell’orecchio del presidente. Traduce il vocione di Antonio mentre impersona, nello stile impetuoso e affabulatorio dei pupari, la furia di un paladino di Francia: “Chi è questo Medoro? Io non lo conosco, vieni a sfidarmi!” Ma prima di animare i pupi, Antonio ha dato al presidente una notizia. La famosa Angelica, protagonista del ciclo carolingio, la donna che ha fatto perdere la testa ai paladini Orlando e Rinaldo, è originaria della regione del Cataio, l’antica Cina settentrionale narrata nel Milione di Marco Polo. Perciò Angelica è cinese e quindi, grazie a lei e ai pupi, si può dire che esiste un antico legame tra la Cina e la Sicilia. Il Presidente della Repubblica Popolare sorride, si china e abbraccia Antonio. Un paio di anni dopo Antonio vola in Cina, a Quanzhou, ospite di un celebre festival delle marionette. Nel documentario della TV tedesca, Antonio risale i vicoli di Palermo tenendo in mano uno dei suoi pupi scintillanti. Sembra un film di Matteo Garrone. Esiste una bella foto di Antonio seduto, insieme a un pupo, sul pavimento della “Camera delle meraviglie”. Antonio dice che gli piace passare del tempo in quella stanza e che la stanza ha il potere di rilassarlo e di caricarlo di energia positiva.

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Fine della visita. Giuseppe ci congeda, il gruppetto dei curiosi si scioglie. Me ne vado a curiosare per l’Albergheria. Cartacce e rifiuti sono sparsi lungo la strada, come nella scenografia di Palermo, Palermo, il vecchio spettacolo di Pina Bausch. Incontro una montagna di sacchetti d’immondizia; bianchi, azzurri, gialli, accumulati al piede di una palazzina dove un murales ritrae una gigantesca Santa Rosalia, ritratta con naturalismo, una Santa Rosalia di questo mondo e di questo tempo, vista di fronte, da capo a piedi, con un teschio tra le mani. È una Rosalia di venti o trenta metri di altezza, che da lassù mostra una secolare espressione ironico-scettica e un incarnato non rischiarato dalla luce del paradiso. È semmai la pelle un po’ arrossata di una creatura vera, organica, con un  metabolismo, cellule, enzimi. Più che una santa della chiesa medievale, sembra una lavoratrice precaria o un’attivista in un corteo di SNOQ. In un altro spiazzo, scendendo verso Ballarò, si leva la parete semidistrutta di un palazzo. È tutta decorata dal murales di un enorme San Benedetto, il santo detto il Moro, uno dei patroni di Palermo, nato nel 1524 in provincia di Messina, figlio di un coppia di schiavi africani. Chi passa sotto al naso di quel San Benedetto si sente investito dall’annuncio di un nuovo mondo, per forza di cose meticcio. Nel gioco delle somiglianze, San Benedetto il moro, così severo e ardente, potrebbe sembrare un musicista della scena free jazz degli anni Sessanta. Più che una concessione simbolica ai tanti migranti africani che vivono a Palermo, il murales di San Benedetto il Moro è la certificazione di un fatto. A Palermo gli africani e le africane di origine possono vivere le strade e le piazze con il diritto che gli spetta e con una famigliarità e una disinvoltura che sfortunatamente non trovano in altre città. La sagoma di San Benedetto il Moro dialoga con una grande stalattite in muratura, che si trova dall’altro lato dello spiazzo. È una specie di colonna da stilita sopravvissuta allo smembramento di un corpo edilizio scomparso.

Questo spiazzo è uno dei luoghi più belli che abbia mai visto nei miei pochi viaggi nel sud Italia. È vero ciò che retoricamente è già stato detto altre volte. Palermo è multiculturale. Ciò che Giuseppe e Valeria apprezzano della Camera delle meraviglie è il fatto che la sua esistenza conferma questa natura tollerante di Palermo. Del resto i cognomi Cadili e Giarrusso, come è stato riferito da un gruppo di studiosi tedeschi in visita alla Camera delle meraviglie, hanno entrambi origine araba.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è giornalista, scrittore e autore tv. Ha curato la raccolta Che traccia hai scelto? (Utet, 2023).

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