Al lavoro siamo tutti donne - Lucy
articolo

Irene Soave

Al lavoro siamo tutti donne

Com'è possibile, se la quota di occupazione femminile in Italia è ancora molto bassa? Tradizionalmente escluse, vilipese, emarginate, molestate, a rischio sostituzione, le donne che lavorano simboleggiano una condizione che oggi, tra grandi dimissioni, quiet quitting, bot e AI, sembra riguardare quasi tutti. Il lavoro sta cambiando in peggio, ma ripartire dalle donne può essere parte della soluzione.

Sul finire del 2023 ho moderato un convegno sul lavoro femminile. Il mio ruolo era quello di presentare gli ospiti e fare domande; sono rimasta stranita perciò quando, prima di me, ha parlato Sofia. Ha ringraziato gli sponsor; ricordato che “l’incontro avrà una durata di 75 minuti, di cui gli ultimi 15 dedicati alle domande dal pubblico”; chiosato che non vedeva l’ora di ascoltare i nostri interventi.

Sofia mi ha cioè rubato il lavoro, e non è strano: era un bot. Un ologramma proiettato alle mie spalle, con una voce metallica e priva di accento regionale ma anche di intonazione; faceva il mio lavoro di presentatrice ben peggio di me (almeno spero), e a differenza di me che ero andata gratis, perché il convegno lo animava un’amica, qualche euro agli organizzatori sarà pure costata. Che ragione c’era per prendere Sofia al posto mio? 

Il 30 per cento delle ore lavorate negli Stati Uniti in un anno, secondo uno studio McKinsey, e il 40 per cento dei posti di lavoro globali nei prossimi anni, può essere rimpiazzato da un’intelligenza artificiale o automatizzato. Soprattutto lavori di segreteria, servizi clienti, vendita e ristorazione, traduzione, editoria, persino cura della persona. Settori dove la maggioranza delle occupate sono donne, precisa McKinsey. 

Accade già nei supermercati dove le cassiere sono sostituite da lettori di codici a barre; negli aeroporti, dove noi clienti ci produciamo e stampiamo i biglietti, etichettiamo i nostri stessi bagagli di fronte a dispositivi automatizzati che sembrano macchinari per la risonanza magnetica e poi ce li carichiamo dentro, mostriamo i documenti a scanner che un tempo erano persone; accade persino in editoria, settore in cui anche il più ispirato degli autori può ricevere indietro le bozze dei propri scritti corrette da un’intelligenza artificiale (e se ne accorge perché a differenza del correttore in carne e ossa non aggiunge errori di tasca sua, però applica le regole redazionali in maniera automatica quindi ottusa, ad esempio sciogliendo tutti gli acronimi o traslitterando tutti i numeri). 

Lo studio di McKinsey profetizza che la rivoluzione dell’AI farà fiorire settori tradizionalmente maschili come le scienze e la finanza, le professioni liberali e la medicina; si mangerà invece le lauree umanistiche e i lavori meno specializzati, e le donne corrono il rischio una volta e mezza più degli uomini di restare escluse. I lavoratori vulnerabili, cioè soprattutto le lavoratrici, sono a rischio: stretti tra lo sfruttamento – quanto guadagnava la cassiera poi rimpiazzata da uno scanner? – e la minaccia dell’irrilevanza. 

Il convegno “Donne e lavoro”, riuniva i membri di un’associazione di industriali.  La presenza di Sofia era forse un avvertimento?  

Tra il 2020 e il 2022 si è assistito – prima all’estero,  poi in Italia – al manifestarsi di una diffusa disaffezione nei confronti del mondo del lavoro. Il fenomeno si è manifestato in vari modi; il più evidente sono state le cosiddette grandi dimissioni. Il fenomeno ha riguardato soprattutto gli Stati Uniti, ma è stato presto evidente che si stava replicando anche qui e nel resto d’Europa. In Italia, nel 2021, si sono dimessi due milioni di lavoratori dipendenti, e nel 2022 altri 2,2 milioni. 

Fermi per due anni a casa, stretti ai propri cari chi li aveva, solo con se stesso chi viveva solo, sconvolti da lutti simbolici o concreti e oltraggiati dal cinismo con cui molte aziende hanno gestito le nuove sfide che la congiuntura poneva al lavoro, molti lavoratori hanno finito il biennio 2020-2022 guardando ai propri lavori di prima con un senso di disgusto e di ribellione. 

I lavoratori che si sono dimessi, mesi dopo, non sono spariti dalla popolazione attiva; molti hanno trovato altri impieghi migliori, in genere, perlomeno dal punto di vista salariale (negli Stati Uniti il salario dei dimissionari poi reimpiegati è salito dell’8 per cento in media). Ma le loro dimissioni, e il clima di disamoramento disaffezione collettivo al lavoro che statistiche e servizi giornalistici hanno documentato nei mesi seguenti, dicono che si è avviato un cambiamento profondo nella maniera in cui percepiamo il lavoro.

“Tra il 2020 e il 2022 si è assistito – prima all’estero,  poi in Italia – al manifestarsi di una diffusa disaffezione nei confronti del mondo del lavoro”.

Questa notizia, apparentemente di Economia, apparentemente di Esteri, ha iniziato a riguardarmi; di più, a entrare nel campo dei fenomeni di cui, come giornalista, preferisco occuparmi, e cioè dei sentimenti collettivi. 

Più collettivo di questo, negli ultimi anni, non ne ho trovato nessuno: nelle librerie gli scaffali di self-help amoroso hanno iniziato a restringersi e a lasciare il posto alle sempre più vaste mensole dedicate al self-help professionale, anzi soprattutto anti-professionale; i social sono stati inondati di nuove parole d’ordine tipo quiet quitting o anti-work e di meme un po’ nichilisti ma efficaci, come Dream job? I don’t dream of labor. Nelle conversazioni orecchiate al bar e sui mezzi, in ufficio o in sala d’aspetto, mi è parso che non si sia parlato d’altro che di lavoro, e con sentimenti quasi mai positivi. 

A questi sentimenti, e a identificarne radici che non fossero un’epocale pigrizia e soluzioni che non siano la dimissione volontaria di massa, ho dedicato un saggio: l’ho intitolato Lo statuto delle lavoratrici, indicando con questo femminile sovraesteso qualsiasi categoria di lavoratore che fatica, magari per tutta la vita, a rimanere parte della popolazione attiva. Persone che patiscono lavori brutti o privi di senso o poco gratificanti; orari che non sono compatibili con una vita famigliare, ma neppure personale, e neppure interiore; stipendi che non consentono alcun agio, o nemmeno l’indipendenza, o nemmeno la sussistenza e certo non di fondare una famiglia o di abitare una stanza tutta per sé; culture aziendali malsane, vessazioni, molestie. 

Tutte condizioni che contribuiscono a mantenere assai bassa la quota di occupazione femminile: in Italia è al 53 per cento, e tra le donne con figli è al 37, in Italia lavora una donna su due, in Italia non lavora una donna su due. Ma che affliggono anche molti uomini, soprattutto se titolari di lavori di bassa qualità, dove indicatori della qualità del lavoro sono tipo di impiego, durata e remunerazione. 

Chi guadagna poco o pochissimo, in questo senso, è una lavoratrice; chi ha contratti precari che gli rendono impossibile negoziare le proprie condizioni di lavoro, e di lavoro finisce per ammalarsi, è una lavoratrice; chi non ha un coniuge la cui esistenza è votata in gran parte ad alleggerire la sua dai lavori domestici, emotivi, di cura, è una lavoratrice. Maschi o femmine che siano, le lavoratrici sono soggetti che il mondo del lavoro tende a tenere ai margini perché bisognosi di più tutele: molti giovani sottopagati, padri che desiderano dividere equamente con le compagne la cura dei figli, eterni precari, adulti la cui formazione è resa inadeguata dai tempi. 

Quella di lavoratrice, insomma, è una condizione che in quest’epoca, e nel nostro Paese, è assai diffusa. Eppure la principale soluzione che l’epoca sembra fornirle, sicuramente a beneficio dell’associazione industriali che non vede l’ora di poter impiegare Sofia al posto nostro, è quella della dimissione, della rinuncia.

Il lavoro è soffocante? Licenziati. Non guadagni abbastanza? Ti trattano male? Mollali e fatti OnlyFans. Mettiti in proprio. Fai il downshifting. O fai il quiet quitting, sottraendo la tua umanità e il tuo desiderio dal lavoro, rinunciando a sperare che contribuisca a fare di te qualcuno. Riciclati come tradwife, donna tradizionalista mantenuta dal marito e in cambio casalinghissima. Ignora il termine tradwife ma dimettiti lo stesso: se lo fai entro il primo anno di vita di un figlio prendi addirittura la Naspi. Come un incentivo. 

Quando ero giovane e precaria, ottenni un colloquio con un venerato maestro della mia professione; la seconda cosa che mi chiese, dopo un invito vagamente osceno, fu se avevo degli hobby che potessero diventare redditizi, tipo, disse, fare torte. Nel giornalismo, sentenziò, non c’è posto per tutti. Fai torte e vendile, monetizza i tuoi hobby, affitta la stanza superflua di casa tua.

Al lavoro siamo tutti donne -

Non avrei immaginato, allora, che nel decennio a venire questa prospettiva sarebbe stata uno dei rimedi più correnti e più a portata di mano per l’epidemia di mal di lavoro che avrebbe afflitto molti di noi. Attorno a me, negli anni della pandemia, si sono moltiplicate le persone che a lavori opprimenti e spesso instabili hanno affiancato, o preferito, la monetizzazione dei propri hobby a mezzo Instagram, o la piccola rendita della locazione di una casa ereditata, chi ce l’aveva.

Eppure è ancora la storia delle lavoratrici a indurci a dubitare che la rinuncia a lavorare sia la risposta giusta. 

La storia del lavoro femminile è fatta di fatica, di lotte e di sangue. A fine Ottocento, in Italia, se le donne lavoravano era per bisogno: in agricoltura o nelle fabbriche tessili, e sottopagate. Chi appena era benestante era relegata a casa, a godere le “gioie della famiglia”. Le laureate negli ultimi vent’anni dell’Ottocento furono 224. Tra loro, nel 1896, Maria Montessori.

Prima guerra mondiale. Il ruolo di “angelo del focolare” si dissolve magicamente nella necessità di non affondare il Pil. Ecco la donna che fa tutto mentre gli uomini sono al fronte: traina l’aratro, miete il grano, produce divise militari, rimpiazza negli uffici i colleghi arruolati. Le poverine chiedono la parità salariale e una continuità di lavoro, sapendo benissimo che a guerra finita verranno licenziate, senza complimenti, per far posto ai reduci. Ma non se ne fa niente. 

Finita la guerra, riecco la retorica dell’angelo del focolare, sfoderata dal fascismo. Che fa gran mostra di dare alla donna un rilievo pari a quello dell’uomo, pur nella sua specificità di madre e fattrice; ma inizia da subito, con una serie di provvedimenti, a precludere l’accesso femminile a molti lavori, perché per Mussolini, e per il suo sogno demografico, “il lavoro è nefasto alla maternità”.

La disoccupazione però si rivela nefasta alle donne italiane, che escluse dal lavoro fanno cinquanta passi indietro anche in tutto il resto: la prostituzione è incoraggiata, l’adulterio maschile non sanzionato mentre quello femminile è punito col carcere, il codice Rocco dedica un articolo al “delitto d’onore” (che sarà poi abolito solo nel 1981) e il diritto ereditario prevede per figlie e vedove ruoli secondari. 

Ma poi arriva ancora una guerra, e con la guerra ancora un ruolo di supplenti nella forza lavoro; questa volta sarà retribuito, grazie anche al fatto che molte hanno fatto la Resistenza e ventun deputate siedono alla Costituente. Ed ecco il suffragio universale. Come premio: difficilmente si è potuto occupare un posto grande o piccolo, nella società, senza lavorare. Di più: senza voler lavorare. 

Stigmatizzate dalla Chiesa, escluse dal fascismo, incomprese o osteggiate dai mariti ai quali rischiava di venire meno un prezioso welfare familiare a costo zero, le lavoratrici non solo potevano non lavorare, ma sono state per gran parte del Novecento scoraggiate dal farlo. Eppure nei decenni hanno preso diplomi e lauree, comprato con i propri stipendi collant o libri per i figli, lavato di nascosto scale altrui mentre il marito lavorava, studiato nel cuore della notte. Per puntiglio? Per solo spirito di sacrificio? Per avidità? 

Ho raccolto centinaia di articoli, decine di ricerche e studi, una corposa bibliografia, trascorso svariati pomeriggi in archivi ed emeroteche e condotto trentadue interviste. Tra queste, la più risolutiva è stata quella con una psicoterapeuta. Ero andata da lei con in tasca decine di domande markfisheriane sull’aspetto collettivo, e legato alle strutture produttive in cui viviamo, della pandemia di disagio psichico che affligge i Paesi avanzati. 

“Il lavoro è soffocante? Licenziati. Non guadagni abbastanza? Ti trattano male? Mollali e fatti OnlyFans. Mettiti in proprio. Fai il ‘downshifting’. O fai il ‘quiet quitting'”.

Una mia amica ha l’insonnia: l’avrebbe se non ricevesse mail di lavoro a cui deve rispondere fino a tarda sera? Un’altra è sola dopo tre anni dal suo divorzio: avrebbe un nuovo compagno se non dovesse lavorare tutte le sere? Un amico si sente un padre inadeguato, ma a essere inadeguato non è piuttosto il suo salario, che non gli consente di offrire ai figli quello che lui vorrebbe? E così via. 

Ero andata, insomma, per parlare di quanto il lavoro ci faccia male. Sono uscita carica di osservazioni molto utili, certo, ma di segno opposto: psicologa in un carcere, la mia intervistata raccontava di vedere i germogli di una guarigione nei suoi assistiti, quasi sempre, solo dal momento in cui il carcere assegnava loro lavori veri e propri, ancorché svolti in regime di reclusione. Non certo professioni della realizzazione, ma impieghi in posti che consideriamo umili, dalle mense aziendali ai call center. Eppure, garantiva lei, è indossando quelle cuffie e quel grembiule e non prima, che iniziano a smettere di essere persone delinquenti. A diventare, di nuovo, un’altra cosa. 

Poche settimane dopo usciva un’inchiesta straordinariamente informata e lucida sulla salute mentale degli italiani, intitolata Il fronte psichico (nottetempo). L’autrice, Jessica Giordana Masucci, impiega il lemma “lavoro” 130 volte in circa 200 pagine, e quasi sempre questa parola somiglia a una medicina. Tra gli italiani che usano psicofarmaci, quasi uno su cinque, le categorie professionali più rappresentate sono cassintegrati e pensionati; e per chi è depresso e senza lavoro, le politiche attive per riaverne uno funzionano meglio dei farmaci, e pure del versamento diretto di denaro. E così via. 

Che cosa non avrei, che persona sarei io se tutto il mio lavoro se lo prendesse Sofia? Proverei solo sollievo? Che posto nel mondo occuperei?  

Eppure non lavorare è la strada che una donna su due, in Italia, imbocca a un certo punto della propria vita. Per un’italiana su cinque avviene dopo una maternità. Tra queste (lo studio è dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, l’Inapp): metà perché non riesce a conciliare il lavoro con la cura del bambino. Un terzo perché il contratto che aveva era precario, e dopo la maternità è stata lasciata a piedi. Le restanti perché facendo il conto dello stipendio che prenderebbero lo dividono tra la retta del nido, la tata e le sei sedute mensili dall’ostetrica per la riabilitazione del pavimento pelvico, naturalmente a pagamento, naturalmente intra moenia nello stesso ospedale dove hanno partorito. Nessuna risponde “grazie, preferivo non lavorare”.

Di qui lo Statuto delle lavoratrici. Il Paese è in pieno declino di produttività e, garantiscono gli economisti di ogni orientamento, del lavoro delle donne ha bisogno. Certamente le donne e le loro famiglie, se non altro, hanno bisogno di lavorare. 

Il cosiddetto mercato del lavoro tende a tenerle ai margini. E a tenere ai margini, come le donne, anche tutte le persone che non possono o non vogliono obbedire a regole di produttività, di reperibilità, di flessibilità, potere e gerarchia che informano la maggioranza dei nostri posti di lavoro e che possiamo chiamare maschili, per convenzione ma non troppo. 

Al lavoro siamo tutti donne -

I padri che chiedono il congedo di paternità facoltativo nel disprezzo dei dirigenti; le persone che vogliono fare un buon lavoro ma per un numero finito di ore al giorno; chi è in difficoltà, soffre di forme di ansia o depressione (un italiano su cinque, nel 2021) e ha bisogno di un ritmo più lento per stare meglio e certo non di uscire dalla vita attiva. Chi non ha – come storicamente, e statisticamente, le donne – una moglie, cioè un coniuge la cui esistenza è votata in gran parte ad alleggerire la sua dai lavori domestici, emotivi, di cura. Persone che il lavoro, per come è strutturato e organizzato, tende a tagliare fuori. Sostituendole, dove si può, con Sofia: costa poco e a differenza di me, di noi, non rivendica diritti. 

L’umano, al lavoro, è decisamente fatto a forma di femmina. 

Siamo rassegnati ad accettare che se ne faccia a meno? 

Irene Soave

Irene Soave e giornalista al «Corriere della Sera», dove si occupa di esteri, attualità e cultura. Il suo ultimo libro è Lo statuto delle lavoratrici (Bompiani, 2024).

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