La fine di internet è cominciata col Gamergate - Lucy
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Matteo Lupetti

La fine di internet è cominciata col Gamergate

Online, siamo ormai abituati al peggio, tra insulti, violenze, hater. Dieci anni fa però non era così, almeno fino allo scoppio del Gamergate, eclatante caso di molestie nei confronti di alcune sviluppatrici di videogiochi. Non è un caso, forse, che tutto sia nato dalla rabbia di un uomo lasciato.

Il 15 agosto del 2019, sul «New York Times» apparve una schermata nera dove il nostro cursore veniva rincorso e aggredito da un’orda di freccine del mouse. Poi, una scritta in verde acido: Everything is Gamergate.

Cinque anni prima, un movimento chiamato Gamergate aveva rappresentato la culla o almeno l’anticipazione di molti dei fenomeni e delle battaglie a cui assistiamo oggi, online e offline, dalle campagne di consumatori contro i film troppo “politicamente corretti” all’emersione delle estreme destre globali che hanno portato Donald Trump alla presidenza statunitense. Il Gamergate è “tutto”, come si dice a volte scherzosamente online e come intitolò il NYT.

Ma, più precisamente, il Gamergate è stato un movimento indirizzato all’allontanamento di chiunque non fosse un uomo eterosessuale, cisgenere e bianco dall’industria videoludica occidentale. E, prima ancora, è stata la vendetta di un uomo, Eron Gjoni, nei confronti della persona che lo aveva lasciato, Zoë Quinn.

Nel 2014 Zoë Quinn aveva da poco pubblicato gratuitamente su Steam, la principale piattaforma di distribuzione digitale di videogiochi per computer in occidente, la sua opera più nota: Depression Quest, realizzata con Patrick Lindsey e Isaac Schankler. Si tratta di un racconto a bivi con scelte multiple, pensato per far capire come sia la vita delle persone che soffrono di depressione. 

Quinn (persona di genere non binario che all’epoca si presentava come donna) usciva da una breve relazione con un programmatore, Eron Gjoni. Era finita, ma Gjoni non aveva accettato la rottura e aveva anzi passato un mese a raccogliere tutta la documentazione possibile sulla loro storia: messaggi sui social, email, foto, indizi sugli spostamenti di Quinn… Aveva insistito perché si rivedessero, ma durante l’incontro aveva aggredito fisicamente Quinn, che chiuse definitivamente i rapporti. In quel momento Gjoni decise di usare il materiale recuperato per vendicarsi e allestire un blog intitolato The Zoe Post. 

“Il ‘Gamergate’ è stato un movimento indirizzato all’allontanamento di chiunque non fosse un uomo eterosessuale, cisgenere e bianco dall’industria videoludica occidentale”.

In un articolo pubblicato sulla rivista «Boston» Gjoni raccontò al giornalista Zachary Jason la nascita di The Zoe Post. Pensato come una narrazione divisa in capitoli, il racconto si nutriva di un obiettivo preciso: “provocare più dolore e danno possibile.” Nel testo, lungo 9425 parole e diffuso online a metà agosto 2014, Gjoni accusava Quinn di comportamenti manipolatori e ipocriti rispetto alle sue posizioni pubbliche. Inoltre sosteneva di essere stato tradito da Quinn con cinque persone diverse, tra cui un giornalista specializzato in videogiochi: Nathan Grayson. 

Quando The Zoe Post iniziò a circolare online negli ambienti videoludici questo dettaglio, la relazione tra Quinn e Grayson, divenne lo spunto decisivo per quello che sarebbe diventato il Gamergate, che in quel momento si chiamava The Quinnspiracy, handle (nome utente) di Quinn su Twitter. L’hashtag #GamerGate sarebbe stato usato solo successivamente, e fu inventato dall’attore conservatore Adam Baldwin.

I gamer incolpavano Quinn di aver sfruttato la sua relazione con Grayson per ottenere recensioni favorevoli per Depression Quest. Sebbene Grayson non avesse mai recensito il videogioco, The Zoe Post venne interpretato come la prova di una collusione tra stampa videoludica e l’ambiente femminista di cui Quinn faceva notoriamente parte e che stava guadagnando spazio nel mondo dei videogiochi. 

Secondo uno studio del 2014 che ha monitorato più di 130 mila articoli pubblicati nei precedenti 12 mesi su 23 testate videoludiche solo lo 0,41% dei pezzi citava argomenti legati al femminismo: non proprio un’epidemia. Ma questa ipotetica invasione femminista avrebbe avuto come conseguenza anche l’uscita di opere, come Depression Quest, che ai gamer non sembravano neanche veri videogiochi. Anche prima di The Zoe Post, il gioco di Quinn era già stato accolto con diffidenza, persino con astio. “Non mi sembra possibile considerarlo un gioco, giacché non penso che sia fatto per intrattenere” commentò un utente su Steam

Anche se il Gamergate affermava che il proprio obiettivo fosse la stampa videoludica, i suoi reali bersagli erano le sviluppatrici, come dimostrato anche da un’analisi di Newsweek. Anzi, chat tra membri del movimento mostravano come le discussioni sui problemi di etica nel giornalismo videoludico fungessero da copertura per diversi attacchi contro le donne. L’ostilità verso il femminismo mascherata da promozione dell’etica giornalistica è stato l’elemento unificante del Gamergate, che è altrimenti un fenomeno difficile da inquadrare in modo univoco, denso com’è di contraddizioni interne. Il Gamergate si definiva un movimento per la difesa dei consumatori, era privo di leader, esisteva prevalentemente online.

Emersero alcune personalità attorno alle quali la community si riunì, soprattutto YouTuber che videro nel Gamergate opportunità di aumentare pubblico e guadagni e di infierire su un’informazione tradizionale già in cattiva salute che in gran parte si opponeva al movimento. Si organizzò su piattaforme online particolarmente adatte allo scopo, le image board, forum con utenza prevalentemente e preferibilmente anonima e in cui i vecchi post scompaiono, e si diffuse nel mainstream sulla piattaforma Reddit. Ma le sue azioni (le molestie) si svolsero principalmente su Twitter (ora X), all’epoca scarsamente interessato al controllo dei contenuti. 

Quando The Zoe Post venne pubblicato Quinn si trovava fuori casa, a San Francisco, e da quel momento, per mesi, dovette vivere in fuga; i suoi account furono hackerati e i suoi dati personali – indirizzo, numero di telefono, foto intime – pubblicati online. L’uomo che frequentava all’epoca, Alex Lifschitz, perse il lavoro a causa delle pressioni del Gamergate sull’azienda. Quinn ha raccontato la sua storia nel memoir Crash Override: How Gamergate (Nearly) Destroyed My Life, and How We Can Win the Fight Against Online Hate (PublicAffairs, 2017).

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Quinn non fu l’unica vittima delle molestie del Gamergate. Per chi lavorava nel mondo dei videogiochi, opporsi al movimento o anche solo essere donna o appartenere a una minoranza aumentava il rischio di ritrovare i propri dati sensibili diffusi online, come accadde alla critica Jenn Frank, alla sviluppatrice Brianna Wu, allo sviluppatore Phil Fish e soprattutto ad Anita Sarkeesian, content creator che legge la cultura pop sotto la lente degli studi di genere. Nel maggio del 2012 Sarkeesian ottenne quasi 159 mila dollari di finanziamento su Kickstarter (l’obiettivo iniziale era di soli 6000 dollari) per realizzare una serie di videosaggi intitolata Tropes vs Women in Video Games, dedicata alla rappresentazione delle donne nei videogiochi. Per molti, Tropes vs Women in Video Games rappresentò una novità assoluta, il primo contatto tra discorsi femministi e videogiochi. Per questa ragione, Sarkeesian divenne bersaglio dei gamer e a giugno 2012 venne persino pubblicato un videogioco il cui obiettivo era pestarla a sangue.

A fine agosto 2014, con The Zoe Post già online, uscì un nuovo episodio di Tropes vs Women in Video Games, intitolato Women as Background Decoration, part 2, che analizzava la funzione meramente decorativa dei corpi femminili nei videogiochi, oggetti disponibili per essere sessualizzati e sottoposti a violenze. Poco dopo l’uscita del video, Sarkessian ricevette messaggi minatori che riportavano il suo indirizzo e i nomi dei suoi genitori, costringendola così a lasciare casa. A ottobre, minacce di strage la obbligarono ad annullare un suo intervento alla Utah State University (la polizia le disse che secondo la legge dello Stato era impossibile vietare che le persone venissero armate all’incontro).

Non era la prima volta che si verificavano discriminazioni di questo tipo nell’industria videoludica, e nel 2013 le stesse image board da cui nasceva il Gamergate avevano messo in piedi una campagna di molestie contro femministe nere. Ma nel 2014, le condizioni nel mondo dei videogiochi erano propizie per l’esplosione di tensioni accumulatesi nel tempo a causa dell’intrecciarsi di due percorsi paralleli. 

L’industria videoludica nasce in uno specifico contesto culturale, quello dei campus statunitensi negli anni della guerra fredda, dove allo sviluppo dell’informatica a scopo militare si mescolano immaginario fantasy e fantascientifico in ambienti per lo più frequentati da uomini. E anche se inizialmente i videogiochi furono presentati come intrattenimento per tutta la famiglia, o per gli adulti che frequentavano i locali dove erano installati, a partire dalla prima console di Nintendo, il Famicom/NES, e poi soprattutto dagli anni Novanta, le grandi compagnie scelsero di puntare su un pubblico definito, cioè su coloro che le prime ricerche di mercato del settore identificavano come audience predominante: il gamer maschio, adolescente, eterosessuale, cisgenere e, per lo più, bianco.

La console portatile di Nintendo fu il Game Boy, non la Game Girl. Certo, anche altre persone giocavano e sviluppavano videogiochi, e anzi i videogiochi per computer di maggior successo, Myst di Cyan (1993) e The Sims di Electronic Arts (2000), erano stati giocati tanto da donne quanto da uomini; ciononostante la grande industria (e la stampa) videoludica aveva per un periodo parlato solo al gamer e del gamer. Nel 2014 la situazione era però molto diversa.

Già alla fine degli anni Novanta, dopo appena un decennio di dominio, il gamer entrava in crisi. Avevano iniziato a diffondersi videogiochi gratuiti giocabili direttamente sul browser internet e basati sul plug-in Flash di Adobe. Centinaia di opere, disponibili su praticamente qualsiasi computer senza doverle installare, tra cui la più famosa è probabilmente FarmVille di Zynga, arrivata su Facebook nel 2009.

Nel decennio successivo i grandi editori di videogiochi – prima tra tutti Nintendo con le Nintendo DS e Wii – avevano poi cercato di ampliare il mercato raggiungendo persone che prima non avrebbero mai considerato l’acquisto di una console. E intanto, proprio grazie all’esperienza acquisita con Flash, cominciava a svilupparsi la scena dei videogiochi per smartphone, oggi la principale piattaforma hardware nell’industria videoludica. Basti pensare a quanto siano stati diffusi giochi come Angry Birds di Rovio (2009), o Candy Crush Saga di King (2012), scaricato più di tre miliardi di volte.

Sempre con Flash era iniziato anche un altro processo: la semplificazione, in un certo senso la democratizzazione, degli strumenti di sviluppo dei videogiochi. Flash permetteva a persone provenienti dal mondo del fumetto e dell’illustrazione di sperimentare con il videogioco in modi relativamente semplici e anche Quinn aveva imparato a programmare e a fare i suoi primi videogiochi su Flash.

Negli anni successivi cominciarono a uscire nuovi strumenti sempre più facili da usare, come Twine, un software gratuito e open-source che permette di realizzare storie interattive a bivi che poi possono essere giocate, anche in questo caso, direttamente su un browser internet. Intanto, grazie a reti internet più veloci e diffuse diventava più semplice distribuire digitalmente qualsiasi genere di videogioco: un piccolo studio di sviluppo non aveva più bisogno degli investimenti di un editore che stampasse migliaia di CD e li distribuisse nei negozi: poteva mettere il suo gioco online, magari su Steam, e venderlo direttamente all’utente. Il libro-manifesto di questa nuova era del videogioco è Rise of the Videogame Zinesters di Anna Anthropy (Seven Stories Press, 2012), che ha un eloquente sottotitolo: “come freak, normaloni, dilettanti, artisti, sognatori, fuoricorso, queer, casalinghe e persone come te si stanno riappropriando di una forma d’arte.”

“Anche se il ‘Gamergate’ affermava che il proprio obiettivo fosse la stampa videoludica, i suoi reali bersagli erano le sviluppatrici”.

Ora le grandi compagnie creavano videogiochi non più per soli gamer, lo smartphone diventava l’hardware di riferimento dell’industria, donne trans inondavano internet di racconti interattivi gratuiti e si stava sviluppando il campo accademico dei game studies.

“I gamer non devono essere il vostro pubblico [dell’industria videoludica nda].” scriveva la critica Leigh Alexander nell’agosto del  2014. “Gamer non è più solo una datata etichetta demografica che sempre più persone preferiscono evitare. Questa storia dei gamer è finita. E per questo sono arrabbiati.” 

Erano anni che la critica si lamentava  dello stereotipo del gamer, ormai inadatto a raccontare un mondo dove quasi tutte le persone si trovavano prima o poi a giocare a un videogioco. L’industria videoludica era ancora prevalentemente maschile, ma secondo i dati dell’Entertainment Software Association all’epoca del Gamergate in USA il 48% delle persone che videogiocavano erano donne, e le videogiocatrici sopra i 18 anni erano il doppio dei videogiocatori sotto i 18 anni. 

In pochi giorni, prendendo spunto soprattutto dall’articolo di Alexander e da un pezzo intitolato La fine dei gamer, scritto dallo studioso Dan Golding, diverse testate iniziarono a mettere in discussione l’etichetta di gamer in una dozzina di interventi collettivamente noti come “gamers are dead,” “i gamer sono morti”. Per i gamer fu la conferma al sospetto di un attacco coordinato contro la loro identità.

L’alt-right, l’estrema destra statunitense suprematista bianca che poi avrebbe individuato un alleato in Donald Trump, intuì di poter sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Come lo colsero anche tutti quei gruppi antifemministi contigui all’alt-right e che facevano (e fanno tuttora) parte della “maschiosfera“, la galassia che va dalle organizzazioni per i diritti degli uomini ai pick-up artist, i guru del rimorchio. Ma nessuno afferrò l’opportunità quanto Steve Bannon. Bannon era all’epoca direttore responsabile della testata Breitbart News, che puntava a diventare punto di riferimento dell’alt-right, e in seguito sarebbe diventato amministratore delegato della campagna elettorale di Trump, per cui avrebbe applicato le tattiche di propaganda online a base di trolling e meme sviluppate da Breitbert e dal Gamergate.

Bannon vide nel Gamergate la possibilità di diffondere le idee dell’alt-right statunitense a un pubblico sensibile al messaggio. Gli studi di Erik Hurst hanno individuato che la diminuzione nelle ore di lavoro dei giovani statunitensi (tra i 21 e i 30 anni) dal 2004 al 2017 fu compensata da un aumento delle ore trascorse a videogiocare. Colpiti da una crescente automazione nei lavori a scarsa specializzazione e dalla crisi economica del 2008, giovani uomini esclusi dal mondo del lavoro hanno trovato rifugio e soddisfazione in mondi virtuali sempre più online (il celebre World of Warcraft viene lanciato proprio nel 2004) e progettati appositamente per realizzare desideri e aspettative che sembravano sempre più irraggiungibili nel mondo fisico.

Con l’espansione del mercato e la democratizzazione degli strumenti di sviluppo, i gamer percepirono che anche il mondo del videogioco rischiava di non appartenere più loro e reagirono con il Gamergate, incolpando nemici che sentivano arrivare dall’esterno, come il femminismo. Fu facile per Bannon e l’alt-right dire loro “sapete cos’altro vi ha tolto il femminismo, insieme ai suoi amici immigrati, gay e trans? Vi ha tolto il lavoro, vi ha tolto la possibilità di trovare una donna che vi faccia trovare pronto in tavola quando rincasate. Vi hanno rubato la patria.” Con il Gamergate, le destre trovarono e svilupparono un percorso per raggiungere, arruolare e radicalizzare uomini frustrati e socio-economicamente emarginati. Nel 2015 il noto hacker neonazista Andrew “weev” Auernheimer affermò che il Gamergate era stato fino a quel momento “il mezzo migliore per attrarre persone nell’orbita del nazionalismo bianco.” 

Bulle femministe stanno facendo a pezzi l’industria videoludica è il titolo del primo articolo di Breitbart sul tema. A scriverlo fu  Milo Yiannopoulos, che grazie alla sua copertura del Gamergate divenne una delle principali personalità dell’alt-right. “Oggi nell’industria ci sono due fazioni ferocemente contrapposte. Da una parte giornalisti e attivisti, interessati più alle questioni di genere che ai videogiochi di cui dovrebbero trattare, e dall’altra parte i gamer che, derisi, ridicolizzati e bullizzati, non si piegano.” Un altro suo articolo si intitola: “La sinistra autoritaria stava per vincere la guerra culturale… ma poi arrivò il Gamergate.” Su Breitbart, il Gamergate diventò simbolo della vittoriosa resistenza contro il femminismo, contro il politicamente corretto e soprattutto contro il marxismo culturale.

Quella dell’esistenza del marxismo culturale è una teoria nata dalla necessità di inventarsi una nuova minaccia bolscevica dopo la fine della guerra fredda – un’idea particolarmente amata da Andrew Breitbart, fondatore dell’omonima testata. Secondo la teoria del marxismo culturale, le istituzioni culturali e accademiche puntano a insidiare la società occidentale promuovendo la diffusione del pensiero marxista sotto forma di femminismo, antiomobitransfobia, antirazzismo – in generale di tutto ciò che è “politicamente corretto.”

La presunta esistenza del marxismo culturale è centrale nell’ideologia delle destre occidentali. È alla base tanto del manifesto pubblicato online da Anders Behring Breivik, terrorista responsabile di due attentati contro il governo norvegese e contro un raduno politico sull’isola di Utøya nel 2011, quanto del pamphlet Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori di Federico Rampini (Mondadori, 2022). Ha anche origini antisemite, perché secondo la versione originale della teoria il marxismo culturale sarebbe un progetto iniziato dagli studiosi marxisti tedeschi di origine ebraica della scuola di Francoforte, fuggiti negli USA dopo l’ascesa al potere di Hitler. Durante il Gamergate, la Digital Games Research Association (DiGRA), una società non profit dedicata allo studio accademico del gioco e interessata anche al contributo degli studi di genere in questa ricerca, venne accusata di essere “la fonte velenosa da cui spilla tutto questo male,” come affermò lo youtuber e membro del Gamergate Carl “Sargon of Akkad” Benjamin. Anche secondo il Gamergate il politicamente corretto è il prodotto subdolo della cultura accademica.

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Per quanto il movimento abbia raggiunto il suo picco nel 2015 non solo non è morto, ma è diventato stabilmente parte di percorsi politici statunitensi e internazionali. Le sue posizioni, i suoi concetti e il lessico dell’estrema destra statunitense di cui si era imbevuto fanno ora intimamente parte della cultura di internet, sono in ogni polemica per un film con un’attrice nera, in ogni campagna di trolling organizzata per cacciare un artista sgradito. È recentissima l’ultima campagna nata negli ambienti del Gamergate, stavolta contro la società di consulenza Sweet Baby Inc., accusata di obbligare gli studi di sviluppo a seguire “l’agenda woke” del politicamente corretto e di provocare pure il fallimento commerciale dei videogiochi a cui lavora e che sono destinati a essere rifiutati dai veri gamer. Il Gamergate non solo è tutto: il Gamergate è adesso.

L’ultimo videogioco a cui Zoë Quinn ha lavorato è stato Solar Ash, sviluppato da Heart Machine e pubblicato da Annapurna Interactive nel 2021. Oggi il suo handle su X è “UnburntWitch”, la strega che non è bruciata.

Matteo Lupetti

Matteo Lupetti è fumettista e critico. Collabora con diverse testate scrivendo soprattutto di fumetti e videogiochi.

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