Educazione alla virilità - Lucy
articolo

Victoire Tuaillon

Educazione alla virilità

30 Marzo 2024

La mascolinità viene spesso descritta come una componente innata e imprescindibile dell'uomo, ma è davvero così? Un'intervista illuminante dell'autrice Victoire Tuaillon alla filosofa Olivia Gazalé tratta da "Fuori le palle" (Add Editore).

Ecco il miglior libro che abbia mai letto sulla mascolinità, quello che consiglio sempre, senza esitazione, a chi vuole avvicinarsi all’argomento. Il mito della virilità convoca storia, filosofia e sociologia per analizzare la trappola della virilità: cinquecento pagine gustose e colte, ricchissime, che si leggono come un romanzo. Il dialogo con Olivia Gazalé è stato così denso che ne abbiamo ricavato due episodi per il podcast. Chi li ha ascoltati immagino abbia subìto come me la malìa della sua voce, il suo umorismo tanto ironico quanto profondo e quell’intelligenza palpabile in ogni frase. Potrei ascoltarla parlare per ore.

VT:  Com’era l’uomo ideale dell’antica Roma?

OG: I canoni dell’uomo ideale sono stati stabiliti in Grecia e poi perfezionati (dal latino perficĕre, compiere) a Roma. Nella Grecia antica, il modello è l’andreia, ossia la virilità ideale. Sono prima di tutto canoni di bellezza fisica. L’idea è che la parte migliore del materiale umano, l’umana perfezione, sia il corpo maschile. Bisogna avere spalle larghe, bisogna essere alti – in Aristofane si trovano perfino dettagli che parlano di “natica paffuta ma verga minuta”, cui si aggiungono canoni di moralità, in particolare di derivazione stoica. Ercole, il miglior rappresentante dell’andreia greca, è stimato e ammirato per le sue qualità fisiche – forza, potenza e magnifica muscolatura – ma anche per il suo co- raggio, la perseveranza, il valore morale, l’audacia, la com- battività. In questi canoni troviamo sempre questo doppio ideale di potenza e di padronanza di sé.

VT: Bisognava saper essere padroni di sé, capaci di dominarsi?

OG: Di dominarsi, soprattutto. È questo a rendere l’uomo superiore alla donna, che è ritenuta collerica, irrazionale, avvenente, impulsiva. L’uomo, invece, si pensa sempre come padrone delle proprie emozioni e dei propri sentimenti. Lo stoicismo introdurrà l’idea per cui un uomo virile deve impara- re a sopportare il dolore, e addirittura a desiderare la morte. A diciassette anni, il giovane romano si veste di una toga, simbolo di pudor, che non è soltanto il pudore fisico, ma soprattutto il pudore emotivo. Un uomo non deve mostrare nulla, non deve piangere, né starnutire, né aver paura.

VT: Mi ha stupito leggere che in epoca romana l’uomo non doveva sputare, né starnutire, né tirare su col naso, né sbadigliare!

OG: Sì, perché sono segni di effeminatezza. Essere un uomo significa prima di tutto non essere una donna, questo è fondamentale. Nell’antichità essere effeminati era la macchia più ignobile – ed è stato così per molto tempo.

VT: Lo è ancora oggi…

OG: Certo. È per il disprezzo del femminile che essere effeminati viene ritenuto indice di vigliaccheria, pusillanimità e mollezza. Mollis è un’ingiuria usata con molta frequenza. La mollitia è l’ossessione romana, rimanda alla passività femminile, e quindi all’idea che la donna non sappia dominarsi (perché è soggetta al flusso mestruale), in opposizione a un uomo che, invece, dev’essere in grado di dominare l’erezione e le emissioni seminali…

VT: Può raccontarci la pratica della pederastia nella Grecia antica?

OG: Partiamo dal concetto che le categorie di eterosessualità e omosessualità in Grecia non esistevano. L’uomo, il libero cittadino, era polisessuale: oltre ad avere una sposa legit- tima, aveva amanti, concubine (chiamate etairai, etère), frequentava prostitute. E in gioventù viveva un rituale di passaggio, obbligatorio nella buona società ateniese: la pedagogia pederastica. Nel ginnasio (gumnasion), i giovani si allenavano nudi (gumnos, nudo), partecipavano a concorsi di bellezza, e si facevano ammirare e sedurre da uomini più maturi. Era riprovevole che un eromenos – un adolescente – non avesse un protettore, l’erastès, cui era demandato il compito di renderlo più virile. Si trattava di un’educazione intellettuale, culturale, che implicava anche il sesso. Il rapporto sessuale era rigidamente codificato: era l’erastès, quindi il più anziano, a dover penetrare analmente il ragazzo, mai l’opposto! Questo perché gli antichi greci ritenevano che essere fecondato dallo sperma di un uomo maturo contribuisse a virilizzare un ragazzo.

VT: Non c’è la stessa idea in Papua Nuova Guinea, presso i Baruya?

OG: Sì, come ha scritto l’antropologo Maurice Godelier, con un sistema di fellatio rituali: si trattava sempre della stessa idea secondo cui lo sperma è virilizzante, e soprattutto controbilancia l’effetto considerato nefasto del latte materno, femminizzante per l’uomo. La pederastia greca è una sorta di rito di passaggio. Per diventare adulti, bisogna passare per questa virilizzazione da parte dell’uomo più maturo. C’è un aneddoto piuttosto divertente in una commedia di Aristofane, Gli uccelli. Un uomo dice a un altro: “Ma bravo Stilbonide! Trovi mio figlio che esce dalla palestra tutto lavato e non gli dai neanche un bacio, non gli rivolgi la parola, non te lo porti con te, non lo palpi tra le gambe… Un bell’amico di famiglia, davvero”.

VT: E a Roma?

OG: Le abitudini erano decisamente diverse, perché la società romana era molto più paternalista. Il padre di famiglia non avrebbe sopportato la concorrenza di un erastès nella propria autorità sul ragazzo. In compenso, c’erano giovani schiavi sessuali – a volte davvero molto giovani. L’imperatore Tiberio allevava e addestrava dei bambini, tra i due e i quattro anni, a nuotare in apnea tra le sue cosce durante il bagno quotidiano – li chiamava “i miei pesciolini” – perché gli praticassero delle fellatio

VT: Tiberio e molti altri: lei racconta di apposite scuole in cui si educavano i ragazzini a diventare schiavi sessuali.

OG: È così. I pueri delicati. Avevano pelle morbida, capelli lunghi, odore gradevole e allietavano con la loro aggraziata presenza i banchetti, e tutto ciò veniva accettato socialmente.

VT: Leggendo il suo libro ci si rende conto di quanto l’educazione dei ragazzi, nel corso della storia, sia stata spesso improntata all’estrema violenza. Oggi si usa ancora talvolta il proverbio “chi ama bene castiga bene”: l’idea di insegnare picchiando è la pedagogia che ha prevalso fin qui?

OG: L’obiettivo è temprare i ragazzi. Un uomo, un vero uomo, incassa il colpo e disprezza la sofferenza, ma tutto ciò non ha nulla di naturale… Si acquisisce inevitabilmente tramite quello che chiamo l’addestramento dei corpi maschili.

VT: I corpi maschili sono addestrati come quelli animali?

OG: Per lungo tempo è stato il fondamento stesso dell’educazione: si insegnava a suon di sberle, di frusta, di bacchetta. Bisognava soffrire. Il mito del guerriero è assolutamente centrale in tutta questa costruzione storica della virilità: lo scopo è produrre combattenti e guerrieri. E come si fabbrica un guerriero? Dicendogli: “Non hai paura di morire, non hai paura di soffrire”. Che fosse a Sparta o in epoca medievale – in entrambi i casi il servizio militare poteva iniziare a quattro anni – era un susseguirsi di vessazioni, di prove spossanti per imparare a sopportare il freddo, la fame, le botte. Immergendomi nella Storia, poi, mi ha molto colpito vedere quanto l’obbedienza e il servilismo siano sempre centrali nell’apprendimento. Nell’esercito c’è bisogno di obbedienza e di disciplina, per produrre ragazzi temprati e obbedienti fino al fanatismo.

VT: Fino agli anni Cinquanta non era poi così raro che i maestri picchiassero allievi e allieve…

OG: È capitato anche a me, alla fine degli anni Sessanta! Per altro, venivano picchiati soprattutto i ragazzi, meno le ragazze. Mi ricordo che all’ultimo anno di elementari il maestro ci picchiava sulle dita con il righello.

VT: Essere stati educati in maniera violenta è senz’altro un’esperienza condivisa con i nostri genitori e nonni, no?

OG: Sì, ed è anche in questo senso che dico “diventare un uomo è un fardello”. Sicuramente neppure diventare una donna, in epoche passate, era poi tanto semplice. A colpirmi di più è stato vedere fino a che punto l’insieme di questi rituali iniziatici fosse doloroso. Abbiamo parlato del rituale della pedagogia pederastica, ma nel contesto del servizio militare ateniese c’erano anche altri rituali assai barbari. Per esempio, la marginalizzazione: un ragazzo di 17 o 18 anni veniva abbandonato nella foresta per diverse settimane. Doveva arrangiarsi contando sulle sue sole forze, nascondersi durante il giorno e cacciare di notte, per nutrirsi. Qual era l’interesse di sottoporlo a tutto questo, se non quello di creare un guerriero temprato? Ed era l’unica finalità: la creazione del guerriero.

VT: Lei mostra fino a che punto il modello centrale del maschile sia l’eroe-guerriero, il soldato.

OG: Vir viene dal sanscrito virâ, ‘l’eroe’. L’eroismo è fondamentalmente tale. Il codardo, il vile è assimilato al femminile, sempre. È un mezzo uomo, un non-uomo. Colui che muore sul campo di battaglia, invece, è il modello della virilità.

Educazione alla virilità -

VT: È sconcertante vedere come i luoghi in cui viviamo siano stati modellati sull’ideale e sull’immaginario dell’eroe, del guerriero, del soldato.

OG: Nella virilità c’è un’evidente e fortissima dimensione patriottica. Altrettanto sconcertante è la stigmatizzazione sistematica della codardia, il fatto che gli obiettori di coscienza siano malvisti. C’è una vera e propria imposizione a essere un buon soldato, ereditata dall’antica Grecia, che oggi per fortuna comincia a vacillare. L’abolizione del servizio militare obbligatorio, per esempio, è un enorme passo avanti. Non bisogna dimenticare che nel XIX secolo i bambini venivano cresciuti con l’ossessione dell’epopea imperiale dell’esercito e nel culto della guerra. Bandiere, sfilate, parate: l’intera società viveva a tempo di marcia. È chiaro che non è più così, ma in molti Paesi l’ideale archetipico della virilità resta il soldato.

VT: Lei spiega anche come l’esercito, molto concretamente, con- trollasse la virilità delle sue reclute. Di fatto, l’esame per il servizio militare era anche un esame di virilità.

OG: Ci sono molti elementi riguardo al servizio militare in Hi stoire de la virilité. In effetti si veniva passati al vaglio: i gracili potevano essere scartati – e quelli che non riuscivano a passare la selezione erano molto malvisti, derisi, esclusi – mentre il ragazzo alto, bello e atletico era desti- nato a una radiosa carriera militare. Queste discriminazioni sono ancora attuali – magari non nell’esercito, ma nella vita – perfino nei colloqui di lavoro, si sa.

VT: E la virilità ha anche delle conseguenze politiche, in partico- lare nel fascismo. Il fascismo ha davvero spinto il culto della virilità ai massimi livelli.

OG: Sì, e questo passa innanzitutto attraverso il culto dei muscoli, della forza e di una certa brutalità, spinta alla sua quintessenza. C’è un libro molto interessante Männer- phantasien, di Klaus Theweleit che, analizzando la letteratura dei corpi franchi, mostra come dietro quel bisogno di formare una corazza dura, brutale, invincibile, impassibile, ci fosse una terribile angoscia di frammentazione, di dissoluzione. Per i nazisti la paura dell’indifferenza era una vera e propria ossessione. L’ideologia nazista, come spesso fanno le ideologie molto dogmatiche, voleva salvaguardare a tutti i costi polarità opposte: l’uomo è davvero un uomo, radicalmente opposto alla donna; non c’è nulla in comune tra i due e i ruoli sono delimitati in modo chiaro. In questa ideologia, l’abominio supremo era l’effeminato o l’omosessuale – si può parlare di un vero e proprio “omocausto” per lo sterminio degli omosessuali. Perché? Perché l’omosessuale sfuma le frontiere, abolisce le distinzioni di classe e “razza”: è un effeminato, quello che i nazisti chiamavano giudeo. In fin dei conti, l’omosessuale concentra in sé tutte le macchie della degenerazione e, soprattutto, infrange la differenziazione assoluta dei sessi.

“Andando a fondo, ho capito che il problema non derivava solo dagli stereotipi di genere sul femminile, ma anche dagli stereotipi riguardo il maschile”.

VT: Idea fondamentale nel sistema fascista…

OG: Fondamentale, sì. Lo dice bene Theweleit: nel nazismo c’è un disprezzo, una misoginia immensa. Eppure, sono state numerose le donne che hanno votato Hitler, portandolo al potere – prima di essere rimesse in cucina e relegate alla procreazione. La donna serviva a creare ragazzi. Giovani fascisti.

VT: Scrivere Il mito della virilità ha cambiato il suo sguardo?

OG: Sì, molto. In principio lavoravo sul femminile. Cercavo di approfondire fenomeni come il soffitto di cristallo, lo stupro, le molestie… Ma andando a fondo, ho capito che il problema non derivava solo dagli stereotipi di genere sul femminile, ma anche dagli stereotipi riguardo il maschile. Tirando le fila, ho finalmente capito quello che intendeva Bourdieu dicendo che la virilità è allo stesso tempo un privilegio e una trappola. Analizzando la storia del maschile ci si rende conto di quanto il dominio fallico abbia pesato sulle donne, ma anche sugli uomini, tanto che si può parlare di una reale oppressione dell’uomo da parte dell’uomo. Trovavo l’espressione “l’uomo vittima” irritante, perché viene di solito usato dai mascolinisti per dire che l’uomo è vittima delle donne… Oggi il mio sguardo è cambiato. Penso che gli uomini siano vittime, ma prima di tutto e soprattutto vittime di loro stessi e di una certa immagine della virilità. 

Victoire Tuaillon

Victoire Tuaillon è giornalista e autrice francese. Dal 2017 cura il podcast Les Couilles sur la table. Il suo ultimo libro è Fuori le palle. Privilegi e trappole della mascolinità (ADD editore, 2023).

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