"Anni seri con Serianni". Un ritratto del grande linguista - Lucy
articolo

Francesca Serafini

“Anni seri con Serianni”. Un ritratto del grande linguista

Curioso e disponibile con gli studenti, sensibile nell'incoraggiare, senza indirizzarle, le inclinazioni dei suoi allievi, chiaro e rigoroso nell'esporre argomenti complessi: la lezione di Luca Serianni sarà sempre una guida per i futuri insegnanti.

Dante non ha resistito da solo nella selva oscura per più di venti terzine. Già alla ventunesima, potendo determinare il suo inferno – inventandolo per tutti noi, per sempre – ha fatto comparire Virgilio. Io, abbandonata al caso, ho dovuto avere più pazienza, ma nell’attesa, se non altro, rispetto a lui ho potuto contare su temperature più miti. Quelle che nell’autunno del 1990 mi vedevano matricola nella facoltà di Lettere e Filosofia (come si chiamava allora) della «Sapienza» di Roma, spaventata e confusa da un centinaio di insegnamenti tra i quali scegliere, senza nessuno che mi indicasse da quali fosse meglio partire: quali, in funzione propedeutica, potessero facilitare il percorso che mi apprestavo a intraprendere. In un piano di studi nella mia testa ancora molto nebuloso, l’istinto di sopravvivenza mi portò a cominciare dalle materie che erano più vicine alle mie letture e alle mie passioni (letteratura italiana, storia della letteratura contemporanea, letterature comparate, ecc.). E però, dopo poco più di un mese, mi sembrava di vagare spersa tra lezioni, sia pure interessanti, che non riuscivano a trasmettermi un metodo: proprio quello, si dà il caso, di cui sentivo di avere bisogno. Finché, sentii parlare di Luca Serianni.

C’era, nel modo in cui lo nominavano gli studenti che avevano già cominciato a seguire il suo corso, una sorta di adorazione, come se questo professore di storia della lingua italiana avesse delle doti sciamaniche in grado di iniziare i propri allievi a un qualche segreto culto della parola. Così, attratta da questo fascino incantatorio diffratto, a un certo punto andai a seguire una lezione anche solo per la curiosità di conoscere quest’uomo capace di suscitare così tanta ammirazione.

E lì – prima di ogni altra cosa – mi sono trovata di fronte al suo italiano stellante (per usare un aggettivo del suo Carducci): elegantissimo e stratificato, pieno di luci e di sfumature. Tutte caratteristiche che naturalmente riguardavano – riguardano! – anche la sua lingua scritta, come poi avrei scoperto (dove tuttavia, per sua natura, c’è l’agio di un tempo di controllo e di riformulazione; una possibilità di rilettura che ha concesso anche ad altri di raggiungere quel livello di bellezza, se posso usare una categoria estranea al suo stesso metodo: e sfido però chiunque abbia letto almeno una sua pagina di prosa a contestarne qui la validità); ma che nell’orale – dove il suo dominio della lingua era pressoché identico, tanto da annientare qualunque scarto diamesico che lui stesso ci avrebbe poi insegnato a riconoscere – in lui come in nessun altro aumentavano di intensità grazie alla musicalità della sua prosodia, le sue capacità retoriche: l’ironia, anche solo nella sospensione di alcune pause mirate (e quell’ironia – come dice Natalia Ginzburg di Cesare Pavese – «è la cosa di lui che più ricordo e piango»); tutte virtù che ora sopravvivono soltanto nei ricordi privati e in un certo numero di interventi a convegni o lezioni registrate, come quella con cui si congedò dalla «Sapienza» il 14 giugno del 2017.

Per me, in quel nostro primo incontro, si trattò, come si buon ben immaginare, di una folgorazione: estetica – proprio per la qualità mirabolante della sua lingua – ancora prima che pedagogica. D’altra parte, da questo punto di vista, in quell’occasione riuscii a trarre ben pochi insegnamenti, dal momento che nella sua analisi del terzo canto dell’Inferno (una storia, si potrebbe dire, cominciata con Dante), Serianni fece continuamente ricorso a termini del lessico specialistico della linguistica che, si capiva, aveva già introdotto nelle lezioni precedenti e la cui conoscenza quindi poteva dare per scontata. Così, vincendo ogni resistenza a espormi con lui con la mia pronuncia romana (quanto coraggio ci voleva a presentarsi al suo cospetto con tutti i miei difetti di dizione, prima di scoprire che in lui suscitavano tutt’al più curiosità per la storia che intanto gli raccontavano?), alla fine della lezione lo avvicinai per chiedergli su quale dei libri in programma avrei potuto recuperare nozioni come affricata alveolare o sibilante, che avevo diligentemente appuntato sul mio quaderno ma di cui ignoravo il significato. Naturalmente mi diede subito le indicazioni bibliografiche che mi servivano, ma poi fece di più. Si offrì di tenere qualche lezione supplementare per permettermi di recuperare il tempo perduto: a me e ad altri che avevano avuto la stessa folgorazione tardiva. Qualcosa di inimmaginabile al confronto con i comportamenti di altri suoi colleghi che spesso non si presentavano neanche alle lezioni regolarmente calendarizzate; e che immediatamente mi chiarì il senso di tutto il trasporto che avevo avvertito in chiunque mi avesse parlato prima di lui: e che mi fece aderire senza esitazione a quello stesso culto (che poi due anni dopo avrebbe sancito la nascita dell’Accademia degli Scrausi: un gruppo di giovanissimi invasati della lingua che – tra le altre cose ­– ogni tanto alle feste si divertivano a rivisitare il gioco dei mimi rappresentando, in sostituzione dei titoli dei film, fenomeni linguistici come l’epentesi o l’anafonesi).

“C’era, nel modo in cui lo nominavano gli studenti che avevano già cominciato a seguire il suo corso, una sorta di adorazione, come se questo professore di storia della lingua italiana avesse delle doti sciamaniche in grado di iniziare i propri allievi a un qualche segreto culto della parola”.

Luca Serianni c’era sempre per i suoi studenti. Negli orari delle lezioni e in quelli fissati per il ricevimento; e poi anche via telefono di casa (prima che arrivassero altri mezzi a rendere ancora più immediato il confronto su un dubbio da sottoporgli). Sempre, tranne quando quel telefono lo staccava lui per seguire senza interruzioni gli episodi dell’Ispettore Derrick. Una confidenza che lo umanizzò nella nostra percezione adorante e che, prima che il suo metodo ci fu del tutto chiaro, ce lo faceva immaginare soltanto alle prese con i testi del Duecento o i libretti d’opera, altra sua grande passione. In realtà, per il linguista, come poi ci avrebbe insegnato, tutto è testo, e non c’è differenza in curiosità tra àmbiti diversi e non necessariamente letterari (è noto, per esempio, il suo interesse per il linguaggio medico): tant’è che in un tempo in cui studiare all’università i testi dei cantautori sembrava ancora un azzardo, lui non fece alcuna resistenza ad accogliere i nostri interessi giovanilistici, permettendoci, proprio attraverso quello studio, di arrivare alla nostra prima pubblicazione (La lingua cantata, curata da lui, insieme a Gianni Borgna, nel 1994: un libro che tra l’altro si chiudeva con una postfazione di Fabrizio De André, che diede inizio a un’altra bellissima storia, continuata con un film e un altro libro che sarebbero arrivati nel tempo anche grazie a Dori Ghezzi).

Nella lezione di congedo del 2017 (a cui peraltro andammo accompagnati proprio da Dori), a un certo punto Serianni dice: «i maestri assolvono il loro compito se si limitano a riconoscere i talenti e a valorizzarli, senza coartare in nessun senso le rispettive inclinazioni di studio e di ricerca. Per quel che mi riguarda, ho cercato, come ho potuto e saputo, di attenermi a questo principio. I miei allievi hanno tutti un loro profilo specifico, all’interno di un sapere e di un metodo condiviso».

Niente di più vero nella mia esperienza. Ho avuto anch’io con Luca – come era diventato per tutti noi Scrausi, da quando ci invitò a passare al reciproco tu (anche se non poteva esistere un lei, nel rispetto, più carico di senso di quello che in cuor nostro avremmo continuato idealmente a riservagli) ­– un rapporto unico: unico, appunto, per come diversificava il suo atteggiamento didattico in base alle caratteristiche di ognuno di noi.

In me gli era stata chiarissima da subito l’inclinazione creativa. Appresa, prima ancora che dalla prassi scrittoria, dalle storie che improvvisavo occasionalmente quando ci si ritrovava in situazioni conviviali: una su tutte, fargli credere, una volta, che ero nipote di Ungaretti, salvo riderne insieme, immediatamente dopo, per la gratuità insensata dell’invenzione, che lo lasciava sempre spiazzato e però anche molto divertito. Attitudine che nel tempo ho trasformato in un mestiere e che lui aveva intuito fin da quando mi presentavo al ricevimento per patteggiare nel piano di studi un esame di filologia in meno per aggiungerne uno, per esempio, di letteratura teatrale. E sempre ha accolto le mie stravaganze, come quando provai a raccontare la punteggiatura attraverso i personaggi della serie televisiva Scrubs, in un libro a cui nel tempo regalò una bellissima prefazione.

Qualcuno, nei giorni immediatamente successivi alla sua morte (come è crudele questa parola: quanto, ancora, così inaccettabile), giocando con i suoni del suo nome, nei pressi della «Sapienza» fece comparire il murale “Anni seri con Serianni”. Anni seri, serissimi, eppure tanto divertenti ed entusiasmanti, come è sempre – quando ci è concesso – il tempo dedicato ad apprendere gli strumenti necessari a capire chi siamo e come fare a costruire per noi una storia che ci rappresenti. In quegli anni lì, anche se ancora non lo sapevamo, con Giordano Meacci (altro regalo di Serianni, visto che il sodalizio artistico che ci lega da allora cominciò proprio seguendo le sue lezioni) imparavamo il metodo per evitare anacronismi nella lingua di Cesare e Vittorio – i protagonisti del film di Claudio Caligari Non essere cattivo, scritto nel 2013 ma ambientato nel 1995 – provando a dare verità ai loro dialoghi (attraverso una ricerca meticolosa del gergo della droga nella borgata romana di quegli anni); e poi a quelli di tutti personaggi che abbiamo fatto parlare nel tempo, scrivendoli.

Quella formazione, in qualche modo, ci ha permesso di essere quello che volevamo. Per questo, su un altro piano, tenendo conto di tutto l’impegno che Serianni ha profuso nel tempo per diffondere la conoscenza della lingua proprio come strumento di autodeterminazione, di dignità e di libertà, mi chiedo che cosa penserebbe oggi dei dati emersi nell’ultima pubblicazione OCSE che vede l’Italia in una posizione di classifica preoccupante (se non direttamente desolante). Con un italiano su tre risultato analfabeta funzionale, cioè non in grado di leggere e comprendere un testo scritto, di fare calcoli e di risolvere problemi.

Qui, sapendo quanto questo tema gli stesse a cuore, sento la necessità di uno sforzo di approfondimento. E nel tentativo di darmi una qualche risposta, ho bisogno di spaziare, di spostarmi altrove, come lui mi ha visto fare tante volte, sempre curioso di capire dove sarei andata a parare, anche quando nelle mie digressioni pop chiamavo in causa fenomeni che gli erano del tutto estranei (per esempio, proprio nella prefazione al mio saggio sulla punteggiatura, a un certo punto scrive: “Quasi all’inizio del libro si paragona l’apprendimento della lingua a un videogioco a più livelli, chiamando in causa Urban chaos, un videogame del 1999, appartenente al genere ‘avventura dinamica’ (come apprendo da Wikipedia: i videogiochi sono tra le tante cose di cui non so assolutamente nulla)”).

Così, coerente con quella prassi, divago anche qui, con la promessa, prima di chiudere, di tornare a lui e al flusso centrale del discorso (che resta, per quanto cerchi di negarmelo, l’idea di fermare il ricordo di una persona che ho amato e che non c’è più).

E dunque, spaziando, parliamo di Steven Johnson. Sono passati vent’anni esatti da quando lo studioso americano di neuroscienze dava alle stampe il saggio Tutto quello che fa male ti fa bene (pubblicato l’anno dopo in Italia da Mondadori e da allora mai più ristampato: e anche questo – chissà – è un segno dei tempi che corrono) inebriandoci con una ventata di ottimismo nel suo modo di considerare «la cultura popolare» (includendo nell’insieme varie forme di narrazione: dalle serie televisive al reality show, ma anche – ecco che torna – il videogioco) che Johnson riteneva essere diventata «sempre più sofisticata», pretendendo da parte del fruitore “un impegno cognitivo maggiore ogni anno”, laddove molti commentatori suoi contemporanei vedevano invece ‘una corsa verso il fondo e un ottundimento: una società sempre più infantilizzata’, per usare le parole di George Will”.

Per arrivare alla sua convinzione, Johnson si basava su un criterio che, proprio con Serianni, potremmo definire “sanamente empirico”. E cioè, tramite un carotaggio sistematico di un certo numero di prodotti televisivi e non, confrontati con altri simili degli anni precedenti e analizzati con lo stesso rigore con cui un linguista, appunto, può sottoporre a spoglio un determinato corpus di testi. E, esattamente come il linguista, svincolando la ricerca da un giudizio di valore estetico, interessato com’era Johnson non tanto a stabilire se, per esempio, I Soprano fossero più belli di Starsky e Hutch (questa, semmai, è una libertà che mi prendo io, di là dal legame generazionale con un telefilm che pure ho amato da bambina) ma ad analizzare la maggiore complessità narrativa dei primi, con più strand alternati, rispetto alla semplicità lineare dei secondi, i cui episodi non derogavano mai dallo schema fisso crimine/indagine/arresto dei colpevoli (un po’ come Derrick, che esce infatti negli stessi anni).

Il passaggio da una linea narrativa a un’altra (per soffermarmi solo su uno degli aspetti presi in considerazione da Johnson: finendo, mi rendo conto, per semplificare anche il suo pensiero) in una serie come I Soprano comportava una fruizione partecipe da parte dello spettatore, continuamente disorientato nel racconto, mai preso per mano didascalicamente, ma sempre stimolato a completare le informazioni che gli venivano passate in modo frammentario con un coinvolgimento che chiamava in causa la sua intelligenza, a cui veniva attribuita fiducia, in modo da arrivare a una doppia gratificazione nella visione: quella determinata dalla storia in sé, al dunque ricomposta nel processo di rielaborazione; e quella ancora più significativa derivante proprio dall’aver contribuito attivamente a quel risultato.

Nel 2005 gli algoritmi di Netflix (quelli con cui se la prende anche Nanni Moretti nel Sol dell’avvenire) e, a maggior ragione, l’intelligenza artificiale erano di là da venire, e si assisteva a una fioritura di narrazioni sempre più complesse e diversificate. Per un po’, insomma, ci siamo divertiti e ci siamo sentiti tutti più intelligenti, perché c’era qualcuno (gli autori? i produttori? i registi?) che scommettevano sulla nostra capacità di comprensione (esattamente come Serianni su quella dei suoi allievi) e, con la loro fiducia, ci permettevano di esercitarla, accrescendola di fatto in ogni nuova fruizione.

È andata così, se ci pensiamo, passando ora a un piano più prettamente linguistico, anche quando la Rai ha cominciato le sue trasmissioni televisive. Naturalmente gli autori, i conduttori, i primi giornalisti andati in onda, erano perfettamente consapevoli che a quel tempo (parliamo degli inizi degli anni Cinquanta) gran parte del nostro paese era ancora dialettofona. Nondimeno, i programmi erano tutti in italiano – un italiano articolato e controllato nella dizione – e quei programmi, anche grazie alla progressiva diffusione degli apparecchi televisivi (o alle visioni collettive nelle abitazioni di chi se ne poteva permettere uno), contribuirono sensibilmente nel tempo a diffondere quell’italiano anche in fasce della popolazione che non avrebbero avuto altri mezzi per sviluppare certe competenze linguistiche (come dimostrano alcuni studi fondamentali di Tullio De Mauro). E questo anche perché nessuno si era sognato di non ritenere in grado quei cittadini (cittadini, appunto: e non semplicemente pubblico) di poterle acquisire.

È così che da sempre ci siamo evoluti in ogni àmbito. Con qualcuno che si è assunto la responsabilità di alzare l’asticella: nella speranza che molti, se non proprio tutti, sarebbero stati in grado di compiere, anche solo per emulazione, quel passo in più.

Tutto questo, fino a un momento preciso che non sono in grado di individuare, anche se il 2005 dell’uscita del saggio di Johnson – e anche quello dei maggiori riconoscimenti per la serie Lost ­che in fatto di strutture narrative ha rappresentato una svolta significativa – può stabilire almeno in questo contesto un simbolico terminus post quem. Dopo il quale, in effetti, inizia quel processo di transizione individuato dallo psicologo sociale Jonathan Haidt ­– in un ideale crossover tra il saggio di Johnson e l’altrettanto illuminante La generazione ansiosa del suo connazionale – che segna intorno alla metà degli anni Dieci del Duemila il definitivo passaggio “da ‘un’infanzia fondata sul gioco’ a ‘un’infanzia fondata sul telefono'”, con tutto quello che ha comportato questo cambiamento in termini di capacità di concentrazione nell’apprendimento di qualunque tipo di informazione.

Proprio tenendo conto della frammentarietà della fruizione dei contenuti di qualsiasi tipo, e però con l’obiettivo di incrementare i suoi numeri per via di una concorrenza sempre più feroce, da lì il mercato ha ribaltato le premesse studiate da Johnson, più o meno secondo questo criterio: se abbasso il livello di complessità (di una struttura narrativa come della lingua in generale) permetto l’accesso a un determinato prodotto a un pubblico tanto più ampio. Un pubblico al quale, evidentemente, di fatto non veniva più riconosciuta intelligenza e possibilità di evolverla.

Le conseguenze di questo cambio di rotta si possono osservare a diversi livelli anche alle nostre latitudini (dove per esempio a livello linguistico storie e reel nei social hanno riproposto su larga scala e senza filtri la diffusione di dialetti e parlate locali: e chissà se non sia anche per questo che perdiamo posti in classifica nella comprensione dei testi scritti, che sono ovviamente in italiano). Non solo riscontrando strutture narrative sempre più omologate nella tv e nel cinema (con qualche eccezione d’autore, certo), ma anche un italiano sempre più povero e semplificato nella sintassi e nel lessico, livellato da interventi editoriali massicci nelle produzioni letterarie (ovviamente anche qui, per fortuna, con meravigliose eccezioni). E, per riflesso, un pubblico – questo il dato più inquietante – sempre più somigliante a quell’idea di lui che editori e produttori avevano in mente quando incominciarono a presumere come dovergli confezionare un’operina su misura, partendo dall’idea, come scrive Johnson, che «le “masse” vogliono piaceri semplici e stupidi, e le grandi aziende dei media vogliono dare alle masse ciò che queste richiedono».

Viene in mente in proposito un passaggio di Angelus novus in cui Walter Benjamin scrive: “mai, di fronte all’opera d’arte o a una forma artistica, si rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo a chi la riceve. Non solo ogni riferimento a un pubblico determinato o ai suoi esponenti porta fuori strada: ma anche il concetto di ricettore ‘ideale’ è nocivo in tutte le indagini estetiche, poiché queste sono semplicemente tenute a presupporre l’esistenza e la natura dell’uomo in generale”.

Ora, se questa nozione (di uomo in generale così come di pubblico in generale; quanto di più distante dal rapporto di Serianni col suo pubblico, i suoi allievi: considerati ognuno per le sue caratteristiche specifiche) può sortire danni nell’arte – in direzione dell’appiattimento, dell’omologazione, ecc. – molti di più ne può determinare nei suoi destinatari. Perché l’acquisizione di certe competenze – esattamente come i diritti sociali e civili – purtroppo non è da intendersi per sempre, e senza una continua sollecitazione e una buona manutenzione certe abilità possono regredire (come i diritti, appunto, per questo hanno senso iniziative come la Giornata della Memoria); e proprio l’arte, in tutte le sue forme (comprese certe considerate di intrattenimento), può aiutarci a tenerle in esercizio nella direzione individuata da Steven Johnson. E sostenuta anche, qualche tempo fa, proprio sulle pagine di questa rivista, da Gaja Cenciarelli, quando ci ha ricordato l’importanza di continuare a leggere James Joyce a scuola, superando lo spettro della sua complessità, proprio perché leggerlo “equivale anche, e soprattutto, all’opportunità di aprire un varco diverso alla nostra interpretazione della realtà e alla ricchezza che a essa deriva da un continuo spostamento di prospettiva”. Che è l’unico modo per provare ad apprendere gli strumenti utili a districarci in una realtà sempre più complessa e che finiremo per non comprendere più, disabituati (e spaventati) come siamo da tutto ciò che non sia stato semplificato per noi da chi ci reputa incapaci di quel famoso passo in più da sempre essenziale a ogni evoluzione umana. E a cui i fatti finiscono poi per dare ragione (in una confusione strategica tra causa ed effetto), come hanno confermato i dati Ocse del dicembre 2024.

“Luca Serianni c’era sempre per i suoi studenti. Negli orari delle lezioni e in quelli fissati per il ricevimento; e poi anche via telefono di casa (prima che arrivassero altri mezzi a rendere ancora più immediato il confronto su un dubbio da sottoporgli)”.

Stiamo assistendo, in sostanza, a un fenomeno di analfabetismo di ritorno, che il Vocabolario Treccani definisce così: “espressione riferita a quella quota di alfabetizzati che, senza l’esercitazione delle competenze alfanumeriche, regredisce perdendo la capacità di utilizzare il linguaggio scritto per formulare e comprendere messaggi. L’analfabetismo di ritorno ha dunque effetti determinanti sulla capacità di un soggetto di esprimere il proprio diritto alla cittadinanza (dal voto al diritto all’informazione, alla tutela sul lavoro, ecc.) e di potersi inserire socialmente in modo autonomo”.

Per tutti gli anni della sua docenza, e con un impegno a tempo pieno anche dopo il suo pensionamento, Luca Serianni – ecco che finalmente torno a lui – ha insistito sul legame tra conoscenza della lingua e diritto alla cittadinanza. E sul ruolo decisivo della scuola, specialmente quella dell’obbligo, nell’acquisizione di competenze linguistiche necessarie a esercitare in piena consapevolezza i propri diritti. Un aspetto su cui Serianni è tornato anche nella lezione di congedo del 2017 già più volte citata.

In quell’occasione, tra tante altre questioni riguardanti l’insegnamento dell’italiano nella scuola e nell’università, Serianni lanciò un’esortazione a tutti i docenti: “chi abbia scelto di fare l’insegnante ha scommesso sui propri scolari, e in generale sui giovani, sulla loro capacità di apprendere – quale che sia il punto di partenza – e sul loro percorso di maturazione. E insomma non può concedersi il lusso di essere pessimista”. Un insegnante, per esempio, non deve demonizzare i social o i mezzi della contemporaneità, come del resto non ha mai fatto Serianni, ma deve semmai addestrare i propri allievi a un uso più consapevole, in modo da permettere loro di avvalersi delle potenzialità di quei dispositivi senza rinunciare ad allenare le proprie abilità cognitive.

Questo, forse, un dovere morale di chiunque eserciti un ruolo pubblico. E queste, ancora, le parole di Serianni: “ai miei studenti di quest’anno ho ricordato il costante riferimento, nella mia attività professionale quotidiana, al secondo comma dell’art. 54 della Costituzione, che mi piace interpretare, andando forse oltre la lettera (ma, se non m’inganno, non fraintendendone lo spirito): ‘Sapete che cosa rappresentate per me?’ ho chiesto loro in una delle ultime lezioni. ‘Voi rappresentate lo Stato’. Specificando come lo Stato non è solo l’ente che eroga lo stipendio ai dipendenti pubblici. Lo Stato è, in primo luogo, l’insieme dei cittadini che fanno parte di una determinata comunità territoriale e quindi siamo tutti noi. Ma il funzionario pubblico ha un dovere specifico verso quei concittadini, dunque verso quella parte di Stato, che di volta in volta è diretta destinataria del suo lavoro: si tratterà dei pazienti per il medico ospedaliero, degli assistiti per l’impiegato dell’INPS e, com’è ovvio, dei propri allievi per il docente di qualsiasi grado scolastico”.

È un ricordo che mi commuove e che mi fa sentire orgogliosa di aver fatto parte di quella comunità riunita intorno al suo magistero. Eppure, nonostante tutte le cose che mi ha indicato (come fanno i veri maestri) – la consapevolezza, su tutto, che non esiste un italiano buono e uno cattivo, ma tanti italiani diversi, buoni o cattivi a seconda del contesto: la possibilità di muoversi tra registri e varietà privilegiando di volta in volta, secondo necessità, gli aspetti comunicativi o quelli espressivi della lingua – ora che ripenso ai suoi insegnamenti come a qualcosa di fondamentale per tutti in questi tempi pedestri, mi accorgo di non trovare un registro adeguato a un contesto che non lo prevede (“anche perché, la lingua degli angeli, chi la conosce?”, dice uno dei suoi professori a un giovanissimo De André nel film a lui dedicato).

Meglio, allora, rifugiarsi ancora una volta nelle sue parole, sempre tratte da quell’ultima preziosissima lezione nella nostra facoltà. Il passaggio ­– che è anche un primo passo da cui ripartire per sperare in una risalita nella prossima classifica Ocse; e in più: un frattale perfetto del suo metodo e del suo stile – sulla necessità insistita di potare, nell’insegnamento della lingua, un certo “grammaticalismo”. Dove, si potrebbe dire, il grammaticalismo sta alla grammatica come il concetto di complesso sta a quello di complicato. E il complicato, per quanto mi riguarda, è un spettro da tenere a distanza quanto l’eccessivamente semplificato, così come ricorda David Foster Wallace rispondendo a un’intervista del 1996: “Se uno scrittore si rassegna all’idea che il pubblico sia troppo stupido, ad aspettarlo ci sono due trappole. Una è la trappola dell’avanguardismo: si fa l’idea che sta scrivendo per altri scrittori, perciò non si preoccupa di rendersi accessibile o affrontare questioni rilevanti. Si preoccupa di far sì che ciò che scrive sia strutturalmente e tecnicamente raffinatissimo: involuto al punto giusto, ricco di appropriati riferimenti intertestuali… L’opera deve sprizzare intelligenza. Ma all’autore non importa nulla se sta comunicando o meno con un lettore interessato a provare quella stretta allo stomaco che è poi il motivo principale per cui leggiamo. Sul fronte opposto ci sono opere volgari, ciniche, commerciali, realizzate secondo formule prestabilite – essenzialmente, il corrispondente letterario della tv – che manipolano il lettore, che presentano materiale grottescamente semplificato con uno stile avvincente perché infantile”.

L’involuto di Wallace è il corrispettivo di “inutilmente complicato”. Come certe derive di Christopher Nolan nel cinema; o come la regola del pronome senza accento in combinazione con stesso, che è forse l’intervento di politica linguistica più militante di Serianni, da sempre votato a un’economia della norma, perché una regola più semplice da comprendere è anche una regola più semplice da insegnare e dunque da applicare (e se il fine dell’accento è distinguere il pronome dalla congiunzione, tanto vale estendere quell’accento a tutti gli usi del pronome, indipendentemente dalle parole a cui è abbinato anche quando la loro presenza basterebbe a chiarire lo statuto linguistico del sé senza la necessità dell’accento).

Ma torniamo alla potatura del “grammaticalismo”, per capire quali elementi della grammatica rientrano nella categoria secondo Luca Serianni:

“Qual è l’utilità di individuare il complemento di unione, che sarebbe il complemento indiretto di ‘Vado a scuola con lo zaino?’ Nessuna: siamo solo di fronte alla manifestazione di una sindrome classificatoria fine a sé stessa che in altra occasione mi è capitato di definire “catastale”. A scuola – e nella vita – il tempo è prezioso e non va sciupato. Molto meglio insistere sui concetti fondanti di analisi logica (definire davvero che cosa sia il soggetto può richiedere diverse lezioni), approfondire i meccanismi e le stratificazioni del lessico, valorizzare le varianti sociolinguistiche e verificare, in corpore vili, che il concetto di ‘errore’ non si dà quasi mai come una realtà ontologica, ma cambia a seconda delle variabili in gioco: scritto / parlato, registro sostenuto / rilassato, confidenza / non confidenza con l’interlocutore, o anche passato / presente: vadi per il congiuntivo di andare ci fa sorridere almeno fin dai tempi di Fantozzi, ma è stata a lungo una forma possibile in italiano e non nasce come una creazione teratologica, bensì come uno dei tanti casi di analogia all’interno del sistema verbale (e precisamente di rimodellamento sulle forme della prima coniugazione: vadi corrisponde ad andare così come il congiuntivo canti corrisponde a cantare; in base allo stesso movente per il quale tu cante – esito foneticamente atteso del lat. CANTAS – è diventato canti per attrazione delle seconde persone di presente indicativo delle altre coniugazioni: tu temi, leggi, senti), che presentano -i ab origine“.

Questa, l’ultima lezione. E anche una lezione per sempre: e per tutti, compresi i Grammar Nazi che spopolano sui social network. Con Serianni a ricordarci l’importanza della Storia, dal momento che se si guarda alla grammatica da un punto di vista diacronico (Luca è stato prima di tutto – tra tanti aspetti della linguistica che hanno riguardato i suoi studi sterminati – un immenso storico della lingua), il concetto di errore perde di senso. Che è anche un modo per dire, in fondo, che la cultura resta l’unico modo per annullare gli errori. E anche, magari, i nazisti di ogni genere, compresi quelli grammaticali.

Francesca Serafini

Francesca Serafini è scrittrice, sceneggiatrice, saggista. Il suo ultimo libro è Tre madri (La nave di Teseo, 2021).

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