Francesco Pecoraro
Spesso delle città si dice che sono simili ai loro abitanti. Questo assunto non sembra valido per Berlino: la capitale tedesca, ancora parzialmente ferita dalla guerra, appare il contrario di quei giovani che ogni giorno la vivono.
Ragazze bionde, abbronzate, gambe lunghe, zigomi alti, occhi dell’azzurro e del verde più raro. Vanno in bici sulle piste ciclabili, una canotta corta, un paio di pantaloni, una breve gonna, una borsa. Sono bellissime, aperte, quiete, intensamente urbane. Sembrano esistere in pieno accordo con la città che le circonda, che le ha prodotte, che le ingloba e quasi se ne fregia.
Sono forma umana del ventunesimo secolo, levigata, slanciata, intera, pienamente compiuta. Emanano civiltà nel senso ristretto e proprio di piena e profonda appartenenza ad una civitas. Il loro habitat è Berlino e di Berlino non si può certo dire che sia a sua volta pienamente compiuta. Forma umana che trascende la storia, che sembra ignorarla come cosa che, forse giustamente, non la riguarda. Forma urbana che invece ne è ancora fortemente segnata e ti dice di cose che altrove non ci sono.
Questa città è stata il punto di applicazione, fattuale e simbolico, di tutti i principali contrasti politici, ideologici, militari del Ventesimo Secolo. A causa di questa centralità storica, ha rischiato di essere completamente distrutta. Dopo il 1945 ne restava in piedi solo il trenta per cento, forse meno. Non capisci cos’è stata la Seconda Guerra Mondiale, quali forze ha messo in gioco e quali conseguenze ha davvero avuto se non vieni qui, se non ti imbatti in questi edifici ancora sforacchiati dai colpi della battaglia, se non cammini questi spazi incerti, ancora indecisi sulla forma da assumere dopo più di cinquant’anni di azzeramento, se non osservi una foto aerea di Berlino ripresa alla fine del 1945.
Venendo qui capisci che per la Germania la seconda grande guerra è davvero durata molto più a lungo che altrove e che forse solo adesso quella vicenda si sta chiudendo. Insomma, andare a Berlino pensando che sia una città come le altre, con una sua storia, certo, con i suoi momenti critici e distruttivi, ma in fondo non molto dissimile da quella di ogni altra capitale europea, è certamente un errore. La storia di Berlino è marcata da una discontinuità temporale – vale a dire tra un prima e un dopo la guerra.
E da una discontinuità spaziale, tra l’Est e l’Ovest. Anzi le discontinuità storiche sono almeno tre: prima e dopo l’avvento del nazismo, prima e dopo la Guerra, prima e dopo il regime comunista e la divisione della città. Eccetera. Berlino è stata quasi annientata e capisci che solo ora si avvia forse a piena guarigione, solo ora si ricompone e si ritrova, prende fiato, si cerca, riflette, si riposa. Non so, forse da questo suo stato d’animo deriva la dolcezza che emana oggi. Palpabile, sorprendente, poetica, assolutamente unica. Non so.
“Questa città è stata il punto di applicazione, fattuale e simbolico, di tutti i principali contrasti politici, ideologici, militari del Ventesimo Secolo. A causa di questa centralità storica, ha rischiato di essere completamente distrutta”.
Forse è per via del clima estivo così dolce, del vento, lieve ma costante, vellutato. Forse perché vedi tutta questa gente giovane in giro, che si affaccenda con calma, che apre i negozi alle dieci o a mezzogiorno, siede al caffè, prende il sole sulla riva dei fiumi e dei laghi. Forse è a causa del traffico scarso, silenzioso, cauto, della pulizia di strade e marciapiedi. Ma è più probabile che sia questa fase di decompressione storica, di convalescenza della città, a darti l’impressione di dolcezza sommessa che sono in molti a condividere.
So pochissimo di Germania. Quel poco che so riguarda l’arte, che qui è stata quasi sempre intensamente concettuale, forse filosofica, spirituale, spesso politica – quasi mai percettiva, visiva, impressiva, emozionale. Se mi lasciassi andare ad affermazioni poco meditate, da parvenu delle cose germaniche, dire che è un’arte che ha cura dell’esattezza, che predilige i contorni definiti e rifugge ogni poetica dell’indefinito e dell’incerto. Ma forse sono cazzate.
Certo, anche solo guardando fuori dal finestrino del tuo aereo in fase di atterraggio, ti accorgi che qui a Berlino hanno cura di marcare il confine tra le cose che tra loro sono diverse. Se osservi le estensioni periferiche, vedi che non esistono quei tipici terrain vague, quelle aree incerte sotto utilizzate e in abbandono, quello scaricaticcio e quel pattume, quei rottami che invece sono frequentissimi nelle aree più esterne di ogni città.
Le cose finiscono e cominciano con precisione, i rifiuti hanno un loro posto definito, i prati e l’asfalto non lasciano spazio a niente di polveroso, non curato, casuale. Tutto questo mi conferma nell’idea che ho dei tedeschi, che è naturalmente farcita di banalità pre-concette. Ma subito Berlino te la rovescia con questa sua dolcezza e tolleranza, con la facilità con la quale ti lascia muovere, ma soprattutto con l’incertezza e l’ambiguità attuali del suo essere e del suo pensarsi.
Immagino che dall’istante successivo alla caduta del Muro, la città si sia chiesta: e ora? come fare? che fare? cosa significa tornare ad essere una sola compagine? come riannodare le maglie di una rete strappata da cinquant’anni? Chi dirigerà la Riunificazione? E come? Cosa deve diventare la città? A queste e probabilmente a un altro migliaio di domande del genere si sta dando una risposta da quindici anni. E del processo di Riunificazione non si vede la fine. La parte visibile del protagonista se la sono assunta le cose solide, l’architettura della città e delle sue istituzioni.
Ma qui ti dicono di tutta questa gente dell’Est che, dal Trentacinque all’Ottantanove, ha conosciuto solo regimi autoritari, cioè il nazismo e poi il comunismo staliniano e post staliniano. Gente che non sapeva cosa fosse la disoccupazione, che non doveva cercarsi una casa, che viveva di certezze a noi sconosciute. Gente perplessa, spaventata. Camminando per la città, dicevo, ti domandi spesso: qui si era di qua o di là? Questo edificio è nuovo, oppure risale a prima della Guerra? Questo chi l’ha costruito? I nazisti? I capitalisti? I comunisti? Oppure i prussiani? Certo, una cartina col tracciato del muro ti servirebbe e non è poi così facile trovarla.
La prima cosa che forse bisognerebbe fare appena giunti a Berlino è un salto alla libreria della città sulla Unter der linden. Lì c’è quasi tutto il materiale che ti serve per orientarti tra il prima e il dopo, l’est e l’ovest. Per esempio ti ricordi che la divisione della città, non consisteva nell’essere spaccata in due da un confine che separava due entità politiche contrapposte una di qua e una di là, ma Berlino ovest era una vera e propria enclave tenuta in vita artificialmente all’interno del territorio comunista.
E però osservando attentamente le cose dopo un po’ impari a capire se ti trovi di qua o di là di un muro che non c’è più, ma che ancora divide. L’architettura del regime di Pankow la riconosci ben presto dal fatto che è rozza, malridotta, se non in rovina. Ed è molto spesso incredibilmente mal costruita. Oppure è realizzata in uno stile incerto e bizzarro, che non sai da dove cazzo spunta fuori, vagamente rinascimentale, ma anche modernista, senza capo né coda, qualche volta affascinante, come sulla stupefacente Karl Marx Allee.
Ma è bene che ti sieda da qualche parte e che ti fermi ad osservare come sono fatte queste case, per provare a immaginare da quale cultura furono generate e perché. L’architettura è notoriamente un potente mass medium. Comunica concetti e simboli. E qui comunica essenzialmente che: stiamo dando la casa a tutti i lavoratori; le case comuniste, benché moderne, possiedono un decoro che non ha nulla da invidiare a quello degli edifici dei padroni; tutto questo si realizza subito e a gran velocità, della qualità delle costruzioni, insomma, chissenefrega. L’ultimo messaggio lo cogli soprattutto negli edifici successivi ai grandi interventi staliniani: pannelli prefabbricati pesanti messi su alla bell’e meglio, brutti, bruttissimi, grigi, tristissimi.
La cosa strana, ma non tanto, è che se l’Ovest è modernista, l’Est non lo è: i linguaggi novecenteschi e progressivi non hanno corso nella Germania est così come in Unione Sovietica. Ma non potendosi apertamente citare i linguaggi aristocratici precedenti, si finisce per comporre questi strani pastiche, prima, per poi rinunciare a qualsiasi linguaggio e produrre non più architettura, ma solo edilizia. Le osservazioni da fare sono parecchie, ma mi astengo.
Noto solo che la ricostruzione comunista di Alexanderplatz è invece un episodio di recupero tardivo del modernismo che produce un risultato talmente desolante da volgere quasi al metafisico. Il disagio che si prova mentre si siede ai tavolini di legno di un venditore di salsicce nei pressi del triste Orologio del Mondo è raro nella sua intensità: l’albergone, i grandi magazzini, gli edifici obsoleti e in disuso, lo spazio senza forma, grandissimo e quasi deserto, la fontana, la comicità involontaria della Torre della Televisione, con quella stupida palla sfaccettata che si sforza di sorprendere e riesce solo a darti fastidio.
Alexanderplatz è uno spazio nato morto – probabilmente sarà presto demolito e ricostruito perché non-sollevabile, irrecuperabile, incompatibile con l’intera città – e tuttavia sottilmente poetico per il carico di desolazione che vi provoca la percezione dell’esito del Comunismo come grande progetto di redenzione e riscatto.
Lì ho provato per la prima volta una sorta di risentimento: il socialismo reale, sovietico e non, col suo fallimento sordido e inequivocabile, porta la responsabilità storica di averci consegnato, si può dire legati mani e piedi e chissà per quanto tempo, nelle mani lerce dei dominanti d’occidente: se – gulag a parte – nemmeno una piazza, nemmeno questa, il comunismo è riuscito decentemente a costruire, penso mentre siedo ai tavolini del venditore di salsicce di Alexanderplatz, allora davvero meritava di cadere com’è caduto: nell’ignominia.
Quando viaggio per prima cosa vado nei musei, perché i musei dicono molte cose sul posto in cui ti trovi e le dicono direttamente, sinteticamente e intuitivamente, ma con una certa precisione.
L’arte funziona meglio di una spiegazione esplicita, quando si tratta di dire. I luoghi d’arte per me più importanti di Berlino sono la Gemaldegalerie e l’Alte Nationalgalerie, soprattutto quest’ultima.
È un edificio neoclassico, ma parecchio bizzarro, una sorta di tempio dorico e però con abside. Contiene arte germanica dalla fine del Settecento alla fine dell’Ottocento e mostra abbastanza chiaramente l’oscillazione, forse un po’ schizofrenica, tra mito gotico e mito classico dell’immaginario tedesco del tempo.
Vedi molto Schinkel e ti sembra un personaggio centrale, anche perché mostra di sapersi muovere con grande naturalezza su ambedue i terreni: sono bellissime le sue figurazioni di città gotiche, così come lo sono i quadri che hanno per oggetto il sogno classico. Nessuna lontananza storica, nessuna incertezza, tutto vi è ben definito e descritto nei particolari, come se si trattasse di un tempo assolutamente presente dal quale entrare e uscire per gettarsi nel mito alternativo, e viceversa.
In Caspar Friedrich il mito gotico si ammanta di sublime, producendo in chi guarda quel particolare tipo di emozione estetica che chiamiamo romantica. Successivamente sia Boecklin, che Max Klinger, che i loro epigoni, declinano quasi ossessivamente il sogno classico, vestendolo di simbolismo e dimostrando che alla fine dell’Ottocento il mito greco aveva ancora pieno corso. Resti incantato di fronte a tutta questa pittura, ancora così evocativa per noi, e ai progetti poetici che la sottendono e che sembrano esprimere un bisogno quasi fisiologico di radicamento nel mito.
E però il mito è doppio, l’immaginario tedesco sembra esitare di fronte a una biforcazione: allora come non pensare – uscendo di lì e forse banalmente/oppure forse tremendamente sbagliando – che in fondo il nazismo fu anche un momento di conciliazione tra sogno gotico e sogno ellenico? Tra l’enormità indicibile del sublime e la compostezza solare del classico? L’urbanistica nazista di Speer, il suo piano per Berlino, mai realizzato, non è forse una sorta di sintesi tra i due miti?
Pensi questo dopo che alla Gemaldegalerie, ospitata in un edificio contemporaneo ostinatamente brutto e stupido, hai visto tutto quel rinascimento italiano, così diverso e lontano da quello germanico, che ti pare resti ostinatamente legato a stilemi gotici di meravigliosa esattezza, forse un po’ arcigni nella loro affermazione di autonomia, di nitida e intransigente aderenza al reale.
La passione germanica per la cultura classica greca e romana la vedi bene al Alte museum e al Pergamon Museum, che ospita intere architetture ricomposte e in gran parte ricostruite ipoteticamente, come usava nel XIX secolo. Edifici incapsulati in un edificio più grande, greci, assiro-babilonesi, romani, che perciò creano un effetto paradossale e straniante. Il fregio dell’Altare di Pergamo corre tutt’intorno sulla parete di uno stanzone enorme, col soffitto traslucido, caldissimo e puzzolente, dove si affollano turisti di ogni provenienza, compresi molti russi, a testimoniare che già in età ellenistica la compostezza classica, che qui adorano, era solo un ricordo.
Stranissimo groviglio di figure umane e animali, cavalli rampanti con froge dilatate al massimo, serpenti a fauci spalancate che si avvinghiano e lottano con quelle che sembrano divinità (o sotto-divinità) barbute, pesci e tritoni con coda bi o tri forcuta, volti pieni di enigmatica paura e dolore fisico, forse persino un po’ comici nella violenza dell’espressione, nell’incomprensibilità di questo conflitto, dei motivi per cui si combatte, soprattutto.
Come poteva una cultura percorsa da quelle tensioni, che accomunava una nazione finalmente, e per la prima volta, unificata, starsene buona al centro dell’Europa a coltivarsi in silenzio orgoglio e potenza?
In meno di un secolo e mezzo per tre volte i germanici si sono mossi e per tre volte è stata l’apocalisse. E l’apocalisse alla fine è ricaduta su Berlino – città cosmopolita, smagata e forse mite anche allora – annientandola quasi del tutto.
Se qui non riesci a leggere con esattezza, e cioè nel giusto ordine cronologico, le tracce di questa epopea, certamente percepisci che si è consumato un dramma immenso, che nell’aria aleggiano colpe incancellabili, che il passato nasconde efferatezze indicibili e dunque non dette. Lo percepisci perché lo sai e perché ne vedi le tracce nel corpo vivo della città. L’ottagono di Leipziger Platz, per esempio, lo stanno ricostruendo solo ora.
“Forse è per via del clima estivo così dolce, del vento, lieve ma costante, vellutato. Forse perché vedi tutta questa gente giovane in giro, che si affaccenda con calma, che apre i negozi alle dieci o a mezzogiorno, siede al caffè, prende il sole sulla riva dei fiumi e dei laghi”.
Sulla contigua Potsdamer Platz – era andata anch’essa completamente distrutta, e tale era rimasta perché di lì passava il Muro – hanno terminato di recente un centro urbano molto attrattivo, nelle modalità in cui si manifesta oggi il nuovo spazio civile, vale a dire commercio, spettacolo, high tech e cultura pop.
Forse Potsdamer Platz è in grado di contrastare la forza del vecchio centro città, che era rimasto all’est e che oggi sembra reclamare potentemente il suo vecchio ruolo.
Lo percepisci perché lo sai e perché vedi qui e là numerosi i monumenti ai Caduti del Muro, cioè ai fuggiaschi uccisi mentre tentavano la fuga all’ovest. La foto istantanea della guardia di frontiera ripreso mentre scappa dall’est, mentre getta il fucile e salta il reticolato. I resti del Muro, il Check Point Charlie sulla Friedrichstrasse, dove i turisti si fanno fotografare assieme a figuranti che interpretano a pagamento le opposte gendarmerie di frontiera, un po’ come a Roma quei poveracci vestiti da gladiatori davanti al Colosseo. Il turismo anche qui comincia a colpire duro, a trasformare, cuocere e denaturare ogni cosa, persino la memoria del nazismo, persino e il muro, il comunismo, la sua polizia segreta: l’orrore banalmente attrae chi se ne sente al sicuro. Forse è un buon segno, forse il kitsch marca un superamento effettivo del passato, un distacco salutare: forse.
Ma non tutto ti viene porto nella dimensione commerciale del kitsch turistico, anzi. Berlino ti produce sovente un nodo in gola, la percezione della tragedia trascorsa ti sgomenta all’improvviso. La città possiede una sorta di astuzia nel sorprenderti indifeso: mentre fai una passeggiata, magari in cerca di un ristorante, ti ritrovi al cospetto della rovina di una cattedrale, di un edificio ancora abbandonato e semi-distrutto dalla guerra, di un monumento ai caduti, alla Shoah, di una croce o di un altarino che ti spiega che di lì passava il muro e che in quel punto sono morti questo e quello mentre cercavano di fuggire. E questo a prescindere dai veri e propri dispositivi emozionali intenzionalmente predisposti, delle macchine della memoria che non potrai fare a meno di visitare e dove lotterai con le lacrime.
Il museo di cultura e storia ebraica di Daniel Libeskind, qualsiasi cosa se ne voglia dire, è un monumento pop in stile drammaticamente espressionista, che un po’ sorprende, un po’ dà fastidio. Sorprende l’assoluta qualità tecnico formale della costruzione. Dà fastidio l’enfasi drammatica che emette, la scelta di questa chiusura interrotta solo da tagli obliqui, sottili come coltellate, prolungati come urli sulla superficie di metallo grigio: volumi incomprensibili. All’interno la cosa più convincente è il livello sotterraneo della memoria, nel quale Sacrificio, Fuga e Futuro si intrecciano su piani obliqui in modo non banale.
Sulle pareti, dove sono incisi i nomi delle città del mondo che dettero asilo agli ebrei perseguitati dal nazismo, NON CI SONO nomi di città italiane. E allora, nella desolazione, ti ricordi improvvisamente che tu provieni da un paese che fu complice di tutto questo, che collaborò, per la sua parte, allo sterminio, un paese dove era al potere un regime ufficialmente, fetidamente razzista e dove oggi è al governo un partito apertamente razzista. Alla fine del percorso dedicato alla Shoah c’è una porta dove un inserviente fa entrare pochissime persone alla volta. Dentro non c’è nulla, o meglio, c’è una sorta di camera dello sgomento, in cemento faccia-vista, semi-buia e illuminata solo da una sorta di altissima feritoia che capta i rumori della città e li amplifica.
Per un attimo non capisci il senso di tutto questo, ma immediatamente dopo capisci: solo nell’oscurità, mentre quelli che credevi fossero i tuoi simili continuano là sopra a vivere una vita quotidiana apparentemente civile, disinteressandosi completamente alla tua sorte, anzi, approvandola e condividendola, pallidamente provi per un istante cosa poteva significare essere ridotti a nulla, a meno che bestie, in luoghi dove nessuno, mai e poi mai, ti avrebbe aiutato, luoghi dove il tuo corpo costituiva un problema tecnico di smaltimento o riutilizzo rifiuti.
Alla fine del tuo giro sei convinto che in questo edificio, nel suo aspetto come nel contenuto, non c’è un solo elemento di conciliazione. Questo è abbastanza chiaro, pur nell’assenza totale delle immagini agghiaccianti del lager cui noi siamo invece abituati.
Ho letto che in Germania si vedono poco, anzi quasi mai, quelle foto e quei filmati con montagne di cadaveri scheletrici, di scarpe, occhiali, denti, eccetera. E nemmeno qui le vedi, per fortuna. Potevano farne un museo dell’orrore, sarebbe stato legittimo e forse giusto inchiodare il passato germanico alle sue responsabilità, ma non è stato fatto, quelle immagini non ci sono. Però, assieme all’orgoglio etnico, l’odio per ciò che gli ebrei hanno dovuto vivere e subire, c’è, eccome: non è un museo storico su una questione chiusa e distante, è la casa di una cultura massacrata, un excursus su una questione aperta che ha tuttora ripercussioni tremende. Tutto è ben lontano dal ricomporsi e pacificarsi, molto sangue sta scorrendo, molto ne deve ancora scorrere.
All’Est tutto ciò che è pubblico è anche un po’ più sciatto. Marciapiedi sconnessi, aiuole con l’erba alta, stazioni della metropolitana mal messe, eccetera. Eppure la città dell’Est, nonostante si percepisca che non è affatto risolta, che ha problemi non piccoli, oggi è la più vivace. Ciò è vero almeno per Mitte, l’area urbana centrale a nord dell’Isola dei Musei, che non ha subito danni irreparabili nel ’45. Per le strade di Mitte ti fai un’idea della Berlino storica, della perduta qualità di questa città, soprattutto in Sophienstrasse e nelle vie adiacenti. Per esempio appena più in là, sulla Rosenthal Platz piena di sole, tutto è ancora un po’ sbrecciato, scarruffato, e però vivo e quieto.
Kebab turchi coi tavolini fuori, take away cinesi, pizza a taglio italiana, lavanderie a gettone, caffè col pavimento di legno sporco, piccoli super-mercati molto mal tenuti, un chiosco che vende pane, proprio sulla piazza, con dentro una donna bellissima, le scale della metropolitana consumate e lerce, il tram che imbocca risoluto Rosenthaler Strasse, il semaforo interminabile, i cantieri aperti per lavori di chissà cosa.
Forse all’Ovest c’è qualcosa di corrispondente a Rosenthaler Platz, però non la incontri facilmente, vedi piuttosto il tipico modernismo germanico opulento. Roba un po’ sorda, monotona ma compitata correttamente, grandi viali alberati, deserti e zone invece densissime piene di caffè costosi e hotel e negozi schifosi tipo dolcegabbana-hugoboss-paul & shark. Ma Kantstrasse è invece lunga e triste senza alcuna singolarità che la marchi e la renda plausibile come meta, ma neppure come passeggiata. Spazi morti come ce ne sono in tutte le città.
E però qui a Berlino guardando una carta storica, una cartolina degli anni trenta, vieni a sapere che quello che oggi ti appare città cicatrizzata, quasi cauterizzata, nella sua asettica inutilità, oppure al contrario carica di mediocre degrado post-comunista e alcolico, invece un tempo è stata città viva e centrale, congestionata all’inverosimile, piena di negozi e traffici.
Quasi nessuno all’Est della città parla inglese. Nemmeno una parola. Nemmeno quelli che per il mestiere che fanno dovrebbero masticarne almeno un po’, per esempio i guardiani dei musei, che ti ammoniscono in tedesco per colpe che non capisci. Nemmeno quelli della sicurezza all’aeroporto lo sanno e ti dicono in tedesco di allargare le gambe per il controllo, tu non capisci, le cose vanno per le lunghe. Non lo sanno i camerieri dei ristoranti, i portieri degli alberghi, eccetera. Voglio dire meglio: non è che non sappiano l’inglese, sono estranei all’inglese per mancanza di contatto con la cultura anglo-americana, che per noi è invece pane quotidiano. Loro gravitavano in un’altra sfera del mondo, stavano dall’altra parte, studiavano altre lingue, conoscevano altre culture, erano sudditi dell’Impero d’Oriente, di cui ancora oggi sappiamo poco. Quasi tutto qui è scritto solo in tedesco, persino gli orari dei battelli affissi sulle rive dello Spree, persino i menù di molti ristoranti turistici. Occorre allora rammentarsi ancora una volta dell’ampiezza, dell’autonomia e della forza dell’universo germanico, della sua auto-sufficienza, nella cultura e nella roba. Quasi cento milioni, forse più, di parlanti tedesco, se ci aggiungi gli austriaci, gli svizzeri, eccetera. Erano e sono il nocciolo tosto d’Europa: non lo danno a vedere, ma capisci che non hanno paura di nessuno. Seguiteranno a scrivere e parlare la loro lingua, quando la nostra nessuno la parlerà più. Se ne staranno ancora qui, ben piantati al centro del continente, quando di noi non resterà più traccia.
“Emanano civiltà nel senso ristretto e proprio di piena e profonda appartenenza ad una civitas. Il loro habitat è Berlino e di Berlino non si può certo dire che sia a sua volta pienamente compiuta”.
Berlino è piena di vespe e ragni, soprattutto di vespe, piccole e arroganti. Ne sono piene le pasticcerie, dove ti servono porzioni di torta che ronzano. Se mangi all’aperto subisci una vera aggressione: annegano nel bicchiere di birra, ti si posano agli angoli della bocca mentre mastichi, si buttano nelle zuccheriere, su qualsiasi tipo di cibo. I ragni, grossissimi e paccuti, riempiono le siepi dei giardini, tessono tele enormi tra i muri e i lampioni, dove la notte controluce li vedi all’opera, quando il bagliore attira le falene, e altra roba. Presenze che sono qui probabilmente da migliaia di anni, indifferenti alla storia, alle guerre, sopravvissute ai bombardamenti, agli insetticidi, specie che nemmeno ci vedono, che non si accorgono di noi. Specie che sopravviveranno alla città, che hanno davanti un futuro immenso e probabilmente luminoso, che non hanno colpe da rimproverarsi, che solamente vivono e vogliono essere lasciate vivere, esattamente come le ragazze che sfrecciano in bici.
(Appunti recentemente rielaborati di un viaggio compiuto nel 2004).
Francesco Pecoraro
Francesco Pecoraro è architetto, poeta, scrittore. Il suo ultimo libro si intitola Solo vera è l’estate (Ponte alle Grazie, 2023).
newsletter
Le vite degli altri
Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.
La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.
Contenuti correlati
© Lucy 2025
art direction undesign
web design & development cosmo
sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga
00:00
00:00