Chi è davvero Rosa Bazzi? - Lucy
articolo

Alessandra Carati

Chi è davvero Rosa Bazzi?

14 Marzo 2024

Tutti abbiamo cristallizzate nella mente alcune immagini di Rosa Bazzi, condannata assieme al marito Olindo per la strage di Erba. Ma chi è davvero Rosa Bazzi? Tra fantasie sconnesse, vulnerabilità feroce e conversazioni fuori dallo spazio e dal tempo, chi l'ha incontrata in carcere è rimasto impigliato nella sua psiche inafferrabile, senza che il desiderio di comprenderla fosse scalfito dalla sua frammentazione: un profilo di Rosa Bazzi delineato da chi ha cercato di conoscerla.

Da quando è uscito Rosy – romanzo di fatti sulla figura di Rosa Bazzi – spesso mi domandano: perché lei? Capisco l’origine di questa curiosità, eppure, a rischio di sembrare insincera, confesso di non essermi interrogata sulla questione fino alla prima stesura.

E non l’ho fatto nemmeno all’inizio di tutto, quando nel febbraio del 2019, assecondando una decisione d’impulso, ho chiesto di poter assistere come uditrice a un’intervista che avrebbe rilasciato in carcere. Sono arrivata all’appuntamento senza essermi documentata sulla vicenda di Erba, né in rete, né altrove, solo con l’eco dei ricordi radi e vividi della strage. 

Rosa Bazzi era la donna che ha vissuto dentro una narrazione pervasiva, monolitica: il carrarmato, il mostro, l’assassina feroce, la maniaca, la nevrotica oscura, la madre mancata, la donna delle pulizie diabolica e manipolatrice; è il luogo in cui si trova la maggior parte di noi, e in cui mi trovavo io, quel giorno di febbraio nel carcere di Bollate.

Nella memoria conservavo le uniche immagini in cui compare da sola, e a cui siamo stati esposti durante gli ultimi diciassette anni: lei che, durante il processo di primo grado, siede al banco dei testimoni, incassata nelle spalle, spaurita, dentro un maglione color vinaccia; lei con un caschetto castano, che nel video “della confessione” –  anche se non è una confessione, è l’incontro privato tra uno psichiatra e il suo osservato –  agita le mani nell’aria, si dispera; lei, poco prima dell’arresto, al di là del cancello di casa, un paio di ciabatte di spugna ai piedi e lo sguardo tronfio rivolto all’obiettivo – un brandello mandato in onda cento, mille volte su ogni canale, a diverse ore del giorno.

Come un magnete, quelle immagini mi respingevano e a tratti esercitavano una forza attrattiva. Sulla scorta di questa ambivalenza, ho affrontato gli incontri in carcere, le ore dilatate nell’ascolto ininterrotto a cui Rosa mi inchiodava. 

Chi sapeva di noi due mi interrogava, immaginando una rivelazione, la scoperta di un segreto, di dettagli sconosciuti; ignorava che nel tempo passato insieme brancolavo. Mi disorientava con ricordi incostanti, circostanze sballate e contraddittorie, situazioni senza riferimenti, senza nomi. A domanda, non riusciva a raccontare lo stesso fatto due volte nello stesso modo: le cose accadevano in un luogo e poi in un altro, a volte in un tempo e poi in un tempo diverso. Era impossibile fare chiarezza. Mi portava ritagli di giornale che qualche compagna di detenzione le aveva passato, “Parlano di me?” chiedeva. Voleva che glieli leggessi, e alla fine insisteva che gliene spiegassi il contenuto. Diceva: “Più facile”, se usavo frasi poco immediate, parole non comuni. 

Presto mi sono rassegnata alla sua difficoltà nel comprendere, nell’organizzare un discorso, stabilire nessi logici, rievocare ricordi e metterli in sequenza. Parlava per frammenti scollegati, inverosimili. Mescolava fatti accaduti e produzioni fantastiche senza coscienza di farlo, con passaggi disancorati dal piano di realtà, in preda a una confusione mentale che s’intensificava sotto la spinta di stati emotivi densi. Mi travolgeva di parole per scaricare la sua ansia, in un’accelerazione progressiva che mi tagliava fuori da ogni possibile dialogo.

Frustrata, mi sono rivolta altrove, all’ordine del discorso giuridico, alla sua compattezza, per assicurarmi un’ancora; avrei scritto dell’inchiesta, della verità processuale, di quella fattuale, dei punti in cui le due sembrano spaiarsi: perché la figura di lei mi spaventava, il suo caos, la nebbia mentale, i cambi di umore improvvisi a cui mi costringeva. E la prima stesura era piena di spavento. Era una scrittura in cui le resistevo in ogni possibile modo. L’ho messa da parte. 

“Parlava per frammenti scollegati, inverosimili. Mescolava fatti accaduti e produzioni fantastiche senza coscienza di farlo, con passaggi disancorati dal piano di realtà”.

Sono tornata a Rosa, una donna di un metro e cinquanta, con un deficit cognitivo accertato e la capacità di mettere in scacco qualsiasi decifrazione. Nella sala spoglia del carcere, mi sono arresa all’unico piano di comunicazione disponibile: le sue emozioni. E le mie: il fastidio di non riuscire a starle dietro, il disagio del luogo, un senso di alienazione; l’incapacità di mollare tutto, mollare lei.

Rosa è sempre stata tutta compresa dentro la figura del marito: durante il processo di primo grado, all’interno della gabbia, gli si raggomitolava addosso con le guance arrossate; fuori, aveva sempre dipeso da lui per le questioni pratiche, lei che sapeva fare solo la sua firma, non guidava, a malapena contava i soldi; lui che era incapace di badare a sé stesso, alla casa. La loro vita era un ingranaggio modulato sulle esigenze di entrambi, dove non arrivava uno arrivava l’altra. Negli anni avevano costruito una simbiosi perfetta, che funzionava senza intoppi. 

L’abbraccio del marito la conteneva. Il 10 gennaio 2007, in custodia cautelare da due giorni, quando le comunica il proposito di addossarsi i delitti in modo che lei possa tornare a casa, Rosa si dispera: “Vuoi che esco di qua e mi butto sotto un treno?”, gli dice. La minaccia della separazione è una minaccia alla propria sopravvivenza. L’8 gennaio, subito dopo l’arresto, separata da lui per la prima volta, piange da sola in cella e tra singhiozzi e lamenti lo chiama ininterrottamente per trentadue minuti: “Dove sei?”, “Perché mi hai lasciata?”, “Ti prego aiutami”, “Non voglio stare qui”, “Ti prego non andare via”, “Mi manchi tanto da morire”, “Ti supplico non lasciarmi da sola”, “Non ce la faccio”, “Aiutami ti prego, dove sei?”, “Ti prego torna qui”.

Li legava un sentimento totale, che la faceva sentire al riparo, protetta. Finché fossero rimasti insieme, non ci sarebbe stata nessuna possibilità, nessun rischio di cacciarsi nei pericoli del mondo. Non aveva bisogno di niente, tutto si esauriva tra le braccia del marito, che avrebbe sempre vegliato. La cella matrimoniale, che di continuo lui invocava da dentro il carcere, fa pensare al sarcofago etrusco degli sposi: per sempre insieme, la donna davanti e l’uomo dietro, a cingerle una spalla.

È quasi impossibile immaginare l’effetto di una situazione simile, la malìa di una fiducia primaria che non ammette alcuna condizione; il luogo felice; il proprio posto nell’universo; il precipizio del dissolversi dentro l’altro e lasciare che prenda su di sé tutta la fatica del vivere. E tremare, sapendo di essere completamente disponibile. 

Qualsiasi cosa lui desiderasse, l’avrebbe accontentato: la trippa a metà settimana, le gite in camper, assumersi la colpa della strage, precedendolo, per evitare a ogni costo la rottura della coppia. Non aveva nessuna paura di sbagliare perché faceva quello che lui diceva, e tutto era perfetto. Il marito decideva che auto comprare, quali mobili per la casa, quando e dove andare in ferie, perfino la lunghezza a cui doveva tenere i capelli. Siccome la relazione era simbiotica, anche lui aveva bisogno di Rosa – “Un uomo senza la moglie può al massimo andare a stare sotto i ponti” diceva – e, tra i due, era lei a mantenere una maggiore autonomia. 

Entrambi vivevano l’assolutezza del sentimento, nel senso di una cosa del tutto liberata, sciolta, non imbrigliata dalla responsabilità di sé.

“Qualsiasi cosa lui desiderasse, l’avrebbe accontentato: la trippa a metà settimana, le gite in camper, assumersi la colpa della strage, precedendolo, per evitare a ogni costo la rottura della coppia”.

Rosa forse si era sentita costretta a cedere alla simbiosi a causa delle proprie mancanze, per costruirsi un riparo dal mondo che la terrorizzava. Era sì una dominata, ma con una forte garanzia di sicurezza: c’era sempre qualcuno che la orientava, la proteggeva. E a sua volta, dominava il marito, dal basso, piegandolo ai suoi desideri con degli artifici legati alla propria incapacità, al proprio stato di donna fragile e bisognosa. Non sapeva prendere l’autobus? Lui l’accompagnava ovunque; non era in grado di tenere i conti? Che non si preoccupasse, lui si sarebbe occupato di organizzare il calendario delle spese.

La strategia del femminile arcaico, a cui siamo ricorse per centinaia di anni, quando eravamo senza risorse, in uno stato di minorità, relegate al fondo dell’inquadratura; quando l’unico potere per noi accessibile era dentro il confine domestico, nel matrimonio e nel parto.

C’era una convenienza nell’abbraccio del marito: il contenimento di sé, e c’era un prezzo da pagare: l’individuazione. Perché la linea che separa la protezione dalla manipolazione è sottile. 

“Adesso mi vesto come voglio, tengo i capelli come voglio. Adesso ho anch’io le mie cose da fare, i miei corsi, il mio lavoro. Non mi controlla più” dice, per segnare il confine con un passato in cui ogni decisione passava attraverso gli occhi di lui.

Eppure non ha scelto di emanciparsi. Lo strappo dalla simbiosi è seguito alla carcerazione, che li ha forzatamente separati. Perché il distacco richiede il coraggio di rinunciare al sentimento totale, alla fiducia senza condizioni di cui ognuno di noi è stato privato in anni precoci; il coraggio di barattare una situazione di assoluto benessere, in cui tutto è stabilito, deciso, calmo, con la libertà, che è caos. 

Guardare fuori dalla relazione, affacciarsi al mondo significa separarsi e sperimentare la perdita, e poi la solitudine. Quando le domando perché assecondasse sempre il marito: “Perché sono una che non mi piace stare da sola. Ho paura”. Da una situazione di dipendenza totale, ha vissuto, dentro il carcere, l’intensità distruttiva dell’abbandono, con la minaccia di finirne annichilita – più volte e per lunghi periodi è stata sottoposta a osservazione per prevenire il rischio suicidario. Per la prima volta nella vita ha fatto l’esperienza di un isolamento profondo, un dolore che ci accomuna tutti, una paura capace di decidere comportamenti, azioni.

“Non siamo niente” aveva gridato la mattina in cui era stata arrestata, per pararsi dai microfoni dei giornalisti che avevano invaso il cortile. Eppure, nonostante la rottura della coppia, negli anni ha trovato un modo di resistere a quel sentimento di nullità. 

Rosa, suo malgrado, è arrivata a trasgredire la propria guida, a tradire il bisogno del marito di sentirsi potente attraverso di lei. Eretica suo malgrado, ha inaugurato dentro il carcere un cammino di emancipazione. Ha acquisito una forza autonoma, senza più bisogno di ricevere forza dagli altri. Attraverso questa forza è riuscita a passare da noi a io. Nel nuovo stato, avrebbe potuto attingere a un’energia psichica inesauribile, simile a quella liberata dalla fusione dell’atomo, con un centro che brucia continuamente e a cui ancorarsi in ogni momento.

“Rosa, suo malgrado, è arrivata a trasgredire la propria guida, a tradire il bisogno del marito di sentirsi potente attraverso di lei”.

Non è così, non del tutto, perché la sua indipendenza non è seguita a un atto di coraggio, è seguita a un destino mutato. Per lei la simbiosi non è chiusa, si perpetua e si parcellizza, spostandosi su figure di volta in volta rilevanti nella sua vita. A volte si sente ancora dominata dall’istituzione, da educatori, psicologi, da altri detenuti, persino dagli avvocati. E si accende di una collera violenta che è segno di impotenza, di rivolta inutile, protesta incapace di cambiamento.

In altre occasioni, asseconda il suo interlocutore mostrandosi accondiscendente – lo faceva anche con me – con il solo scopo di sentire intorno a sé un clima benevolo, protettivo. Nell’unica perizia psichiatrica a cui è stata sottoposta, nel 2019, si fa riferimento a un alto livello di compiacenza; disponibilità a sottomettersi agli altri, soprattutto se significativi, per non perdere la relazione con loro; suggestionabilità, vulnerabilità.

Anche se il terribile – la separazione della coppia – è già avvenuto, Rosa rimane esposta. Il suo essere così confusa, sola, incapace di controllo, oggetto di manipolazione è stato spaventoso per me. Ne ho percepito tutta la forza ricattatoria e ho lasciato che fosse lei a dominarmi, mi sono ritrovata a essere suo ostaggio, come lei è ostaggio del mondo. Lo specchio si è ribaltato. Rosa non si nasconde, agisce la minorità, si rifiuta di incarnare la vittima. La sua figura è un disturbo che resiste.

Ci costringe ad attraversare l’angoscia dell’abuso, a sentirne la rabbia e la frustrazione; e da lì, a decifrare le relazioni di potere e di lotta, in cui siamo immersi quando amiamo, quando parliamo, quando scriviamo.

Alessandra Carati

Alessandra Carati è scrittrice, editor, sceneggiatrice. Il suo ultimo libro è Rosy (Mondadori, 2024).

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