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Isabella De Silvestro

Combattere la violenza istituzionale, dentro e fuori dal carcere. Intervista a Valeria Verdolini

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Come sconfiggere la violenza istituzionale? Come creare società più giuste? Forse tornando a creare utopie che ci coinvolgano tutti. Un’intervista con la sociologa Valeria Verdolini, a partire dal suo libro "Abolire l’impossibile" (Add editore).

“L’abolizionismo non chiede un vuoto, ma costruisce una trama di presenze e una cultura della responsabilità, senza confondere la giustizia con la reclusione né la protezione con la sorveglianza”. Lo scrive Valeria Verdolini, ricercatrice, sociologa del diritto e attivista. Verdolini è anche presidente di Antigone Lombardia e autrice di saggi che intrecciano esperienza sul campo e riflessione teorica. Dopo L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia (Carocci), frutto del lungo impegno con l’associazione Antigone, Verdolini torna con Abolire l’impossibile. Le forme della violenza, le pratiche della libertà, un libro che non parla solo di carcere, anche se il tema resta rilevante: “non si abbandonano i grandi amori” dice ridendo.

Il saggio è il risultato di anni di studio, letture, docenza e confronto diretto con le istituzioni e le comunità, una riflessione lucida e stimolante sulle pratiche della violenza, sulle istituzioni che le legittimano e sugli antidoti possibili, che si costruiscono insieme, come comunità. In questa intervista, Verdolini ci guida attraverso i concetti di abolizionismo, deistituzionalizzazione e realismo magico, esplorando i legami tra potere, istituzioni e la vita concreta delle persone, dentro e fuori dai luoghi di detenzione.

Partirei dalla fine: e cioè dalla bibliografia ricchissima e variegata che nutre e interroga le pagine di Abolire l’impossibile. Questo libro è frutto dei tuoi studi multidisciplinari e degli anni di docenza universitaria?

Sì, è così: una sintesi del mio lavoro accademico e del mio impegno da attivista. Ho tenuto per quasi dieci anni un corso universitario sulla disuguaglianza, e prima di occuparmi di carcere ho indagato i confini: su questo tema ho scritto articoli accademici e ho contribuito alla realizzazione di un documentario che seguiva sette migranti nel loro percorso attraverso il confine. Quanto al femminismo, è una compagnia di lunga data: fin dal liceo, grazie a professoresse che ci facevano leggere il pensiero della differenza, ho approfondito autrici come Carla Lonzi, Lia Cigarini e Adriana Cavarero; poi, all’università, mi sono confrontata con il femminismo giuridico.

In generale, tutto ciò che si trova nel libro nasce dall’intreccio di percorsi diversi: l’idea era anche trasformare un sapere accademico in un sapere politico, radicato nella realtà sociale.

Quando ho terminato il mio precedente saggio, L’istituzione reietta, avevo già constatato che il carcere non funziona e non realizza ciò che dichiara di fare. Questa constatazione ha posto una domanda: “Come possiamo affrontare questa situazione? Dove collocare il cambiamento?”. Volevo ampliare lo sguardo e pormi interrogativi più ambiziosi. In questo percorso si sono intrecciati diversi stimoli: avevo scritto l’introduzione al libro Abolire le prigioni di Angela Davis e a confrontarmi con le esperienze basagliane in Brasile. Si tratta di due percorsi paralleli, diversi ma con punti in comune: da un lato l’abolizione delle prigioni, dall’altro il percorso di deistituzionalizzazione. Gradualmente ho provato a mettere ordine, distinguendo tra abolizioni riuscite e quelle che definisco “possibili” o “impossibili”.

Il libro ha una struttura molto originale. In particolare, ci sono due parti dove si elencano manifestazioni delle strutture violente della nostra società. Le chiami “affioramenti” e “detriti”. Un affioramento è per esempio l’uccisione del diciottenne Federico Aldrovandi per mano di quattro agenti di polizia nel 2005. Un detrito è l’omicidio di Soumalia Sacko, bracciante nei campi di Gioia Tauro e sindacalista, colpito da un colpo di fucile mentre recupera lamiere per rinforzare le baracche del campo di San Ferdinando. L’omicida si giustifica dicendo di proteggere la proprietà privata; il processo non tratta la matrice razziale. Cosa connota gli affioramenti e cosa i detriti?

All’inizio avevo previsto solo gli “affioramenti”, immaginando due cicli dedicati a ciò che emerge in superficie: come la punta di un iceberg, ne vedi solo una parte, mentre tutto il resto rimane sommerso. L’idea era mostrare le forme manifeste della violenza, quei momenti in cui la violenza eccede la dimensione istituzionale, diventa visibile, scandalosa. Per questo avevo scelto casi che attraversano tempi e luoghi diversi, ma che riguardano sempre le tre grandi istituzioni del controllo: carcere, confine e polizia.

Poi, però, mi è sembrato che la seconda parte del libro avesse bisogno di un registro differente. Ricordo che stavo camminando sulla spiaggia quando ho pensato ai “detriti”: residui di strutture molto più antiche, ormai solidificate e cristallizzate. A differenza della radicalità esplosiva degli affioramenti, i detriti – pur contenendo spesso una violenza altrettanto forte – sono episodi che si sono sedimentati nel tempo e nello spazio, che vengono da lontano e mantengono una continuità con storie passate.

Per questo hanno caratteristiche diverse: sono i resti di strutture che, anche abolendo le istituzioni, continuerebbero comunque a esistere in qualche forma.

Il tuo libro mostra con molta chiarezza che abolire un’istituzione violenta non significa necessariamente riuscire ad eliminare la violenza su cui quell’istituzione era fondata. La schiavitù è stata formalmente abolita, eppure sappiamo che continua a esistere in molte parti del mondo; i manicomi sono stati chiusi, ma sopravvivono forme di internamento e mortificazione per ragioni di salute mentale.

Il punto che cerco di sviluppare è questo: abolire un’istituzione violenta, di per sé, non basta. Se non si interviene anche sulle strutture culturali e politiche che legittimano la separazione, il controllo e il contenimento, quella stessa logica troverà nuovi modi per manifestarsi.

Nella letteratura statunitense è spiegato molto chiaramente: l’abolizione della schiavitù non ha eliminato i meccanismi di segregazione, che si sono trasformati nel ghetto e nel ricorso sistematico all’incarcerazione. E quando anche le leggi Jim Crow e le norme sulla segregazione razziale sono state superate, altre forme di esclusione hanno continuato a operare. In altre parole, puoi abolire singoli dispositivi, ma se non affronti le ragioni culturali e politiche che producono il bisogno di separare qualcuno da una comunità, quella spinta riemergerà altrove – a volte in forme più sottili, altre volte in modo evidente.
Lo stesso discorso vale per i manicomi. La legge 180 prevedeva non solo l’abolizione dell’istituzione manicomiale, ma un ripensamento collettivo del modo in cui una comunità si fa carico della sofferenza, insieme a una riorganizzazione territoriale della cura e della sanità pubblica. Il fatto che questa trasformazione culturale e politica non sia stata pienamente realizzata – non certo per volontà dei suoi promotori – ha lasciato nella società una domanda “manicomiale” che non è scomparsa.
Così, anche se sono stati compiuti passi avanti, un residuo di quella logica sopravvive: prima negli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), rimasti nonostante la chiusura dei manicomi, poi – con la loro abolizione – nell’uso del carcere come luogo che finisce per raccogliere forme di sofferenza psichiatrica. 

Le rivoluzioni di questa portata avvengono perché la società, in quel momento, è pronta a compiere un salto o possono invece esplodere prima che la maturazione sociale sia avvenuta, sollecitandola?

Diciamo che qui non è semplice capire cosa venga prima. Sicuramente deve esistere un contesto in cui certe trasformazioni siano almeno pensabili. E quel contesto, negli anni in cui nasce l’esperienza triestina, c’era: le mobilitazioni degli anni Sessanta e dei primi Settanta, l’eredità del ’68, i giovani studenti di medicina che decidono di raggiungere Basaglia a Trieste… Insomma, quella di Basaglia non era una voce isolata.
Allo stesso tempo, però, è vero anche il contrario: a volte bisogna rischiare e andare oltre ciò che sembra possibile, buttare il cuore oltre l’ostacolo e vedere cosa accade quando si apre una finestra. È un atto di coraggio.

Quando Basaglia e i suoi parlano di “utopia della realtà”, dicono  esattamente questo: rendere possibile  nel presente qualcosa che fino a un attimo prima sembrava soltanto immaginabile.

C’è una frase di Mariame Kaba, che torna più di una volta nel tuo libro: “la speranza è disciplina”. Come si difende la disciplina della speranza dai continui attacchi che le vengono inferti?

Quando Mariame Kaba dice che “la speranza è disciplina”, invita a perseverare anche quando tutto sembra remare contro. Significa continuare a credere nella possibilità del cambiamento anche quando appare impossibile, anche quando è faticoso, anche quando vincono forze politiche autoritarie o quando i movimenti sembrano indeboliti o anacronistici. La disciplina della speranza è, in fondo, la scelta di non demordere.

C’è poi un altro aspetto: la speranza non va intesa solo come entusiasmo ottimistico o slancio emotivo momentaneo. Deve diventare un metodo, una pratica politica fatta certo di passione, ma soprattutto di costanza. È il modo con cui si porta avanti un’idea trasformativa, il modo in cui si pensa e si costruisce la possibilità di un cambiamento. Per questo, nel libro, insisto sul fatto che l’abolizione non è un fine ma una pratica. In termini molto semplici, l’abolizionismo è un metodo perché implica credere che possa esistere un “dopo” diverso dal presente, un tempo possibile alternativo a quello che viviamo. Non si tratta di immaginare un’utopia come un futuro perfetto da realizzare, ma di aprire spazi del possibile nel qui e ora.

Pensi che nella lotta contro le strutture e le pratiche della violenza esista un ordine di priorità, oppure tutto è inevitabilmente interconnesso?

Credo che le cose possano procedere insieme, perché sono chiaramente intrecciate. Però, se dovessi indicare un punto da cui partire, direi il confine. E infatti, nel libro, mettendo al centro il Mediterraneo, dichiaro questa scelta. Il confine è uno degli spazi dove la violenza è più intensa e, allo stesso tempo, è strettamente legato sia alla polizia sia al carcere. 

Da un lato, abbiamo un carcere sovraffollato di persone straniere, e spesso la loro presenza lì è effetto diretto della violenza del confine. Dall’altro, molte pratiche di discriminazione e profiling da parte della polizia derivano proprio dalla logica del confine. E non intendo solo il confine fisico, ma il confine come processo di “bordering”: il meccanismo che porta a vedere nell’altro qualcuno da separare, controllare, respingere. 

Il confine, inoltre, conserva al suo interno una continuità con la dimensione coloniale: mantiene le stesse matrici e le stesse forme che hanno attraversato la storia delle relazioni tra Nord e Sud del mondo, le stesse che erano alla base dell’invenzione di istituzioni come la schiavitù. Quando il colonialismo formale finisce, ci troviamo davanti alla sfida di fare i conti con quella prossimità e con quelle gerarchie costruite nel tempo, forme di subordinazione differenziata. Chi si muove nel mondo immaginando di potersi spostare liberamente si scontra con l’impossibilità imposta dal confine, che diventa un modo per mantenere in vita quelle stesse strutture di oppressione, ingiustizia e disuguaglianza.

A un certo punto del libro inviti a interrogarsi su quanto i nostri desideri possano trasformarsi in gabbie per quelli degli altri. Allora mi chiedo: se consideriamo l’“Occidente” come la sede sociale del potere – economico, storico, prodotto di privilegi sedimentati – è davvero possibile che generi desideri che non si traducano, almeno in parte, in forme di subordinazione per qualcun altro?

Dipende da come li pensiamo: i desideri vanno ripensati. Ed è qui che entrano in gioco, da una parte, l’immaginazione e ciò che nel libro chiamo realismo magico, e dall’altra la necessità di dare forma a modalità di convivenza che non si fondino su meccanismi costanti di sopraffazione. Il primo passo, però, è esserne consapevoli.

Le strutture culturali dell’oppressione funzionano proprio così: rendono naturale ciò che è artificiale, fanno apparire come eterne – vedi le montagne o gli alberi – dinamiche che invece sono culturalmente e storicamente costruite. Per questo è fondamentale interrogarsi su come tutto questo ci riguarda. La migrazione, per esempio, è stata spesso percepita come qualcosa che non ci tocca, quando invece ci riguarda eccome, così come ci riguardano molti altri processi che tendiamo a considerare esterni e dunque estranei.

Una volta riconosciuto che ci riguardano, il passo successivo è chiedersi come vogliamo starci dentro. E poi ricordarsi che le persone non sono necessariamente mosse da logiche di sopraffazione o indifferenza: lo abbiamo visto, per esempio, nell’ondata di solidarietà verso ciò che accadeva a Gaza. Quella spinta nasceva da un senso di empatia e dalla domanda “che cosa c’entra con me?”, che dimostra come sia possibile attivarsi anche per realtà che ci toccano indirettamente.

“La speranza non va intesa solo come entusiasmo ottimistico o slancio emotivo momentaneo. Deve diventare un metodo, una pratica politica fatta certo di passione, ma soprattutto di costanza. È il modo con cui si porta avanti un’idea trasformativa, il modo in cui si pensa e si costruisce la possibilità di un cambiamento”.

Nel libro Perché ero ragazzo (Sellerio), Alaa Faraj, migrante libico, racconta la sua incarcerazione ingiusta perché accusato  di essere uno scafista. Dell’Italia, Faraj conosce solo il carcere, e dentro le mura riesce ad attivare quello che chiamiamo “percorso trattamentale”: studia, segue corsi, impara l’italiano, scrive un libro. La sua vicenda – eccezionale, ma non isolata nella geografia carceraria contemporanea – mi ha fatto pensare a quando scrivi che il carcere ha assorbito la sofferenza sociale, diventando una forma di welfare minimo per chi è stato espulso. Avevo trovato un ragionamento simile in Prison Lives Matter (Eleuthera), dove Francesca Cerbini osserva che molte persone che vivono condizioni di marginalità accedono per la prima volta a determinati diritti – istruzione, sanità, percorsi formativi – proprio quando entrano in carcere, cioè nel momento in cui vengono private della libertà. È come se quello fosse il prezzo da pagare per avere accesso a un minimo di welfare.

Io questo fenomeno tendo a guardarlo dall’altra parte: il confine agisce come un dispositivo di inclusione differenziale. Proprio perché funziona così, prevede un accesso minimo – o addirittura nullo – ai diritti a seconda della tua capacità di rispondere alle richieste del mercato del lavoro, principalmente.

Detto questo, non avrei alcun dubbio nel dire che una libertà imperfetta è sempre meglio del carcere. Fuori, un accesso ai diritti è possibile: ci sono scuole di italiano, centri di formazione, percorsi di accoglienza. Il problema è che spesso la vera marginalità fatica a essere intercettata. Nel caso specifico di Faraj parliamo di una persona con risorse personali e relazionali importanti, e anche con un buon livello di istruzione. Questo gli permette di individuare strategie adattive quando può e dove può. Quando invece parlo di “welfare minimo di sopravvivenza” mi riferisco alle persone che non riescono ad attivare nulla perché sono troppo vulnerabili. Ed è lì che si entra in una dimensione quasi necropolitica.

Cioè?

Cioè una situazione in cui lo Stato non si fa davvero carico di queste persone, e le forme di gestione passano attraverso il carcere, che – rispetto alla strada – rappresenta una forma “migliore” di sopravvivenza. Penso a una donna che ho intervistato qualche tempo fa: era uscita dal carcere perché doveva fare la chemioterapia per un tumore, e mi disse che per fortuna era riuscita a ottenere una casa popolare, altrimenti avrebbe dovuto vivere per strada. E non voleva morire per strada. Ecco, penso a questa traiettoria: persone per cui il carcere diventa la prima casa, o comunque un luogo più sicuro della strada.

C’è un passaggio in cui scrivi che Basaglia ha potuto abolire il manicomio non da una posizione di assenza di potere, ma grazie al potere che aveva. Era infatti stato nominato direttore del manicomio di Gorizia. È qualcosa di ovvio, ma non ci avevo mai riflettuto in modo così netto. Ti chiedo quindi se il cambiamento passa più dall’interno o dall’esterno delle istituzioni?

Io uso il termine “abolizionismo” anche per il manicomio, ma va detto che i basagliani non lo usavano. Loro parlavano di “deistituzionalizzazione”. L’idea era che tanto la struttura dell’ospedale quanto gli operatori dovessero continuare a esistere, ma che cambiasse radicalmente la relazione di cura. Per questo il primo lavoro, politico e culturale, era proprio con gli operatori. Lo spiegano bene in Crimini di pace: occorre ripensare il modo di lavorare.

Loro parlano di un doppio movimento: hanno aperto le porte del manicomio, quindi il “dentro” è uscito fuori, ma era necessario anche che il “fuori” entrasse dentro, cioè che ci fosse una relazione più univoca tra il contesto sociale, la città e l’istituzione.

In sintesi: le istituzioni producono separazione. Se vuoi deistituzionalizzare o abolire, oltre al cambiamento normativo devi aprire l’istituzione, far cadere il muro della separazione e portare fuori ciò che sta dentro. Ma serve anche il movimento inverso: portare dentro ciò che sta fuori — relazioni, legami sociali, dimensione politica. Deve esserci una compenetrazione molto più forte tra società e soggetti istituzionalizzati. E questo vale anche per il carcere. Possiamo immaginare di “portare fuori” il carcere: molte persone già oggi scontano la pena in misure alternative, sono circa 90.000. Quindi la pena non è solo detenzione. Ma per deistituzionalizzare davvero il carcere serve immaginare una permeabilità totale tra interno ed esterno, dove ciò che accade nella società libera possa entrare dentro. Ed è esattamente ciò che oggi fatica ad accadere.

Questo mi fa pensare a discussioni che ho avuto con persone di ambienti anarchici e abolizionisti, per le quali qualsiasi forma di dialogo con l’istituzione carceraria sarebbe inaccettabile – anche quella necessaria per introdurre progetti, laboratori o spazi di dignità – perché l’istituzione è di per sé violenta e va abolita. Obbiettavo che intanto l’istituzione esiste e le persone ci vivono dentro. Come stare in questo “frattempo”?

Per me l’abolizionismo può anche essere pensato “da dentro”. Premesso che non sono anarchica – lo scrivo chiaramente anche nel libro, alla fine: non arrivo all’abolizione dello Stato né la desidero – io credo nello svuotamento delle funzioni istituzionali e nell’immaginare altre istituzioni possibili. Questo è il punto di partenza.

Il secondo aspetto è che arrivo all’abolizionismo partendo da un riformismo pratico. Ho sempre fatto sportelli, attività concrete dall’interno. In molti casi mi è sembrato che l’istituzione non solo non collaborasse, ma che fosse nociva: non rieduca, non migliora le prospettive di vita, non riduce l’aggressività, anzi spesso fa il contrario.

Detto questo, penso che non ci sia una contraddizione tra lavorare quotidianamente per migliorare le condizioni di chi è dentro e immaginare l’abolizione dell’istituzione. Il mio punto non è legittimare l’istituzione in sé, ma occuparmi di come stanno le persone dentro: ogni strumento utile a questo scopo è più che benvenuto.

Rimane poi la questione politica: quelle istituzioni sono nate per applicare criteri di separazione sociale. Io sono contraria a quel meccanismo e credo che vada abolito, sostituendolo con altri strumenti di gestione della devianza e dei conflitti sociali. Se tutto questo va a scapito di una certa coerenza ideologica, va bene così.

Mi sembra una perfetta conclusione.

Il punto centrale è come stanno le persone e come possano stare in una prospettiva futura. Sul medio periodo ha senso fare tutto ciò che è possibile: anche tutelare un solo diritto in più rappresenta comunque un risultato importante. Allo stesso tempo, è fondamentale riflettere sul senso delle azioni, sul perché le compiamo e sull’orizzonte a cui guardiamo. E questo orizzonte è quello in cui possiamo liberarci dalla necessità del carcere e delle altre forme di istituzionalizzazione della violenza.

Isabella De Silvestro

Isabella De Silvestro è giornalista freelance e scrive di diritti umani, cultura e sociale. Collabora con diversi giornali tra cui «Domani».

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