Nicola H. Cosentino
19 Giugno 2025
Spoiler: lo sei già troppo per alcuni e troppo poco per altri. Tanto vale fidarti dei tuoi gusti, meglio se contraddittori.
Per tutta la vita, da quando ho scoperto che mi piacciono i libri – e che mi piace parlare di libri, esprimere giudizi anche netti su dei libri, consigliarne alcuni e non consigliarne altri – mi è capitato di sentirmi dire che sono uno snob. Poi però ho finito col lavorarci, nel mondo dei libri, e qui mi succede l’esatto contrario, cioè che mi dicano con un certo stupore che non sono per niente snob, a volte che non lo sono abbastanza. Ma che cos’è davvero uno snob? Vorrei provare a capirlo, con l’aiuto di Sveva Casati Modignani e William Burroughs. (Se state pensando “Che strana coppia” forse siete degli snob.)
Sveva Casati Modignani è lo pseudonimo con cui Bice Cairati firma da più di quarant’anni romanzi di grande successo. Fino al terzo libro ha scritto insieme al marito Nullo Cantaroni, ma poi lui si è ammalato di Parkinson e lei ha proseguito da sola. Circa un anno fa, la Sveva – come la chiamano le sue lettrici – è stata intervistata sul Corriere della Sera dalla giornalista Roberta Scorranese, a cui ha dato risposte molto interessanti. Per esempio, quando Scorranese le dice a mo’ di incoraggiamento che il tipo di narrativa di cui è regina, il feuilleton, è un genere nel quale si sono cimentati grandi autori del passato, Cairati risponde: “Ma la smetta, le mie sono ciofeche e basta”. Poco più avanti, fa un ragionamento sul successo – il suo, quello degli altri – e sul modo in cui viene percepita dagli intellettuali. Racconta di aver scoperto che il cardinal Ravasi, famoso per essere un biblista molto raffinato, ha letto tutti i suoi libri. Ma anche che, nonostante la fama quarantennale, non riesce a confrontarsi con alcune sue colleghe, ad esempio Dacia Maraini.
“Perché?” le chiede Scorranese. Cairati risponde: “Perché ho paura dello snobismo cattivo, quello che ferisce. Una volta al Salone del Libro di Torino Beniamino Placido mi disse ‘Ah che brava, io non la leggo ma mia madre sì’. Gli risposi che si era comportato come un vero maleducato e me ne andai”.
Ecco, questo di Sveva Casati Modignani che dà del maleducato a Beniamino Placido è uno dei miei aneddoti preferiti sul tema “intellettuali”. Sia perché contrappone due figure quasi archetipiche del mondo dell’editoria – la scrittrice di romanzi rosa e il critico radicale, sempre nemici e quasi mai dello stesso sesso – sia perché, pur sentendomi solidale con la Sveva, a me non sembra che dire “io non la leggo, mia madre sì”, sia una cosa da maleducati. Forse da snob, ok, ma lo snobismo, o meglio, lo snobismo come comportamento cattivo, è spesso negli occhi di chi guarda.
Oggi, tutti odiano gli snob. La politica populista degli ultimi anni ha edificato gran parte del proprio successo sulla contrapposizione fra cosiddetti snob e popolo, dicendo che l’intellettuale è per forza nemico della gente comune, della cosiddetta “pancia” del paese. E, di riflesso, che la pancia del paese è automaticamente quella in cui prospera il cattivo gusto, a cui per ragioni democratiche dobbiamo arrenderci. Questo ha condotto a una costante denigrazione dei prodotti culturali poco accessibili alla maggioranza e a sovrapporre la definizione di snob o radical chic con quelle, lontanissime, di intellettuale e di presuntuoso. Di colpo, tutto ciò che riguarda la cultura e lo studio è diventato “snob”. Anche far valere la propria competenza in un determinato campo, a sentire alcuni, è sintomo di snobismo.
Ma cos’è lo snobismo? Chi è lo snob?
Secondo il poeta francese Paul Valéry, che certamente se ne intendeva, lo snob è “colui che non osa confessare che s’annoia quando s’annoia e che si diverte quando si diverte”. Una posizione interessante, soprattutto per chi come me non ha un’idea chiara di cosa sia la noia, se vada effettivamente misurata in sbadigli o in assenza di stimoli.
Mi spiego meglio: alcuni passaggi di Le affinità elettive di Goethe sono, per un lettore di oggi, certamente più noiosi di un film della saga di 007, eppure offrono più stimoli intellettuali, quindi un altro tipo di divertimento. Dire che mi divertono entrambi e mi annoiano entrambi, per ragioni diverse, è un’affermazione da snob?
“Di colpo, tutto ciò che riguarda la cultura e lo studio è diventato ‘snob’. Anche far valere la propria competenza in un determinato campo, a sentire alcuni, è sintomo di snobismo.”
Si è a lungo pensato che la parola “snob” fosse l’abbreviazione della locuzione latina s(ine) nob(ilitate), senza nobiltà. In realtà, “snob” è un’espressione inglese che significava, in origine, “cittadino di basso ceto” e per estensione “persona non fine, non adeguata a un ambiente colto e raffinato”. Ossia il contrario di quello che intendiamo adesso. Oggi, infatti, secondo la Treccani, lo snob è “chi ammira e imita ciò che è o crede sia caratteristico o distintivo di ambienti più elevati; chi ostenta modi aristocratici, raffinati, eccentrici, e talora di altezza, superiorità”.
Ma come si fa a capire se si tratta di ostentazione o di gusto reale? Cioè, è snob chi legittimamente ama le cose belle o chi non le ama e finge di amarle? O, ancora più difficile, chi le ama e lo ricorda a tutti ogni volta che può?
Per quelli che fingono di amare una cosa alla moda, nell’ultimo decennio si è diffuso un altro termine: “poser”. Il poser, per fare un esempio probabilmente familiare a tutti, è chi indossa la maglietta dei Nirvana senza esserne appassionato. In casi più gravi, senza averli mai ascoltati. Un atteggiamento antipatico, ma che non mi sento di condannare. Io stesso, a tredici anni, avevo una felpa dei Green Day, dei quali conoscevo solo il disco American Idiot e poco altro. Quella felpa faceva di me un poser, eppure era anche un modo sincero di essere il me stesso pre-adolescente: insicuro, ignorante ma curioso, molto ingenuo – quindi non-snob, perché un vero snob, un ultra-snob, avrebbe senz’altro condannato la mia ostentazione.
Oggi, vent’anni dopo quella felpa, mi trovo spesso a metà delle due barricate: per alcuni, generalmente persone lontane dal mio ambiente professionale, sono molto snob; per altri non lo sono abbastanza. Molti dei miei amici scrittori, giornalisti, editori eccetera vanno in cortocircuito quando scoprono che ricordo a memoria tutti i podi del festival di Sanremo dal 1989, che ho guardato almeno due stagioni di Bridgerton con sincera curiosità e che a lungo, almeno finché Mad men non mi ha divertito altrettanto, ho considerato Buffy l’ammazzavampiri la serie più bella di tutti i tempi. Per non parlare del proprietario del negozio di dischi da cui mi rifornisco a Milano: è felicissimo del mio amore sincero per Ivan Graziani, ma se avesse modo di sbirciare i miei ascolti su Spotify, se potesse scoprire che ho passato la scorsa settimana ad ascoltare in loop I colori del vento, dalla colonna sonora di Pocahontas, mi accoglierebbe con più freddezza.
“Oggi, tutti odiano gli snob. La politica populista degli ultimi anni ha edificato gran parte del proprio successo sulla contrapposizione fra cosiddetti snob e popolo, dicendo che l’intellettuale è per forza nemico della gente comune, della cosiddetta ‘pancia’ del paese”.
Quindi, chi sono io? Uno snob o un non-snob? O sono davvero, come credo, uno snob per chi ha paura degli snob e un amante del nazionalpopolare, del sentimentale, del verace per chi ha paura dei nazionalpopolari, dei sentimentali, dei veraci?
Forse può salvarmi William Burroughs, che nella sua raccolta di saggi e articoli La calcolatrice meccanica, pubblicato in Italiano da Adelphi nella traduzione di Andrew Tanzi, paragona Proust a Beckett, e individua nello snobismo la qualità che rende Proust umano.
“Beckett è letteralmente inumano” scrive Burroughs. “Si cercano invano motivazioni umane come gelosia, odio o amore. Anche la paura è assente. Nulla rimane delle emozioni umane se non la stanchezza e l’angoscia, tinte d’una tristezza remota. Proust, invece, riflette ogni sorta di emozione, paura, disprezzo, odio, amore. Tutto À la recherche du temps perdu è infatti una struttura elaborata e bellissima, creata con amore e che mette a nudo, come lui stesso ha detto, la poesia nello snobismo. Il fatto che fosse uno snob umanizza Proust in un modo in cui Beckett non è mai umanizzato. Le motivazioni basilari di Beckett sono assai oscure. Proust, in un certo senso, scriveva per inglobare e far sua una società che non lo aveva mai accettato fino in fondo. Questo, quantomeno, è senz’altro uno degli aspetti”.
“Ma come si fa a capire se si tratta di ostentazione o di gusto reale? Cioè, è snob chi legittimamente ama le cose belle o chi non le ama e finge di amarle? O, ancora più difficile, chi le ama e lo ricorda a tutti ogni volta che può?”
Inutile dire che il cortocircuito potrebbe continuare: ho appena citato Burroughs che cita Proust: per alcuni, sarebbe l’Everest dello snobismo; per altri, per gente che ha letto tutto, può darsi che citare Alla ricerca del tempo perduto sia scontato, come pure citare Burroughs. Funziona un po’ meno con Beckett, perché essere oscuri preserva sempre da un certo tipo di biasimo. Insomma, tutto è relativo. Quando mi chiedono qual è il mio romanzo preferito rispondo, generalmente, Cent’anni di solitudine. Che amo molto, davvero, e che ho letto più di tre volte, per ragioni lontanissime da quelle che in genere si associano allo snobismo; ragioni anzi viscerali, legate al puro divertimento. Ecco, quando dico che il mio romanzo preferito è Cent’anni di solitudine, le reazioni sono di due tipologie. Nella prima, l’interlocutore mi guarda come se avessi risposto Il libro delle barzellette su Totti – proprio perché, appunto, quello di García Márquez è un romanzo famosissimo, lettissimo, e da uno che lavora con i libri ci si aspettava forse una risposta meno abusata. Nella seconda, mi si accusa di essere snob, perché prima ancora che famosissimo e lettissimo, Cent’anni di solitudine è anche un romanzo lungo, ambizioso, complesso, in cui ci si può perdere.
Insomma, ognuno è troppo snob per qualcuno e troppo ingenuo per qualcun altro, ammesso, come ha scritto Burroughs di Proust, che nello snobismo non si celi la vera ingenuità, e un desiderio che accomuna tutti, da Beckett a Totti, da Sveva Casati Modignani a Beniamino Placido: quello di piacere. Persino il Cirano di Guccini non vuole altro che essere amato da Rossana, nonostante dica “spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato”. (Ma dove mi colloca, adesso, questa chiusa su Guccini? Fra gli snob, fra i banalissimi o fra tutti e due?)
Nicola H. Cosentino
Nicola H. Cosentino è scrittore, critico letterario e editor di Lucy. Collabora col «Corriere della Sera». Il suo ultimo romanzo è C’è molta speranza (ma nessuna per noi) (Guanda, 2025).
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