Come fa Caravaggio a illuminarci col buio? - Lucy sulla cultura
articolo

Giuseppe Zucco

Come fa Caravaggio a illuminarci col buio?

23 Giugno 2025

L'opera di Caravaggio, lo dimostra il successo dell'ultima mostra romana a Palazzo Barberini, è ancora una delle esperienze estetiche più potenti che possiamo compiere. A renderla così unica, fra le altre cose, c'è il modo in cui il pittore, come nessuno, ha saputo dosare l'oscurità e la luce.

Se dunque la luce in te è tenebra,
quanto grande sarà la tenebra!

Matteo, 6-23

Una faccia poco rassicurante

Dal 1983, e poi fino al 2002, l’anno in cui la pallida luna della Lira si eclissò dietro l’astro nascente dell’Euro, circolò in Italia una strana banconota dal taglio di centomila lire, su cui era stampigliata la faccia a tinte fosche di Caravaggio. 

Ovviamente, la banconota riportava molto altro. Tra aerei motivi floreali, nei toni del verdino, del rossiccio, del marroncino, baluginavano le riproduzioni di due capolavori, Buona ventura (1596-1597), in cui una donna legge la mano a un uomo, e La canestra di frutta (1596 –1600), un cesto di vimini colmo di uva, mele, pesche, fichi, considerato tra le prime nature morte della storia dell’arte. 

Ma ciò che attirava l’attenzione era proprio la faccia di Caravaggio. Una faccia poco rassicurante, da canaglia, da coltello facile, che avresti rifuggito correndo se lo avessi incontrato di notte tornando a casa. I capelli arruffati, le ciglia aggrottate, gli occhi acuti e come sporgenti, le borse troppo gonfie degli occhi, i baffi ispidi e spioventi sotto cui le labbra sembravano trattenere uno spunto. 

Questa faccia è un’invenzione postuma. La tratteggiò a carboncino Ottavio Leoni nel 1621, undici anni dopo la morte di Caravaggio, avvenuta nei pressi di Porto Ercole in circostanze mai chiarite, tanto che nessuno sa dove posò l’ultima volta il capo e quali topolini rosicchiarono le sue ossa. Ma se un fantasma non infesta un luogo in particolare, allora li infesta tutti. E forse questo significa avere trattenuto la faccia poco rassicurante di Caravaggio nei nostri portafogli, nelle nostre tasche, cioè nelle nostre caverne misteriose, nelle nostre profondità, nel buio che ci portiamo dentro. Caravaggio, vagando nei secoli, non trovando casa migliore, si è trasferito qui, fino a diventare il custode di questo buio, la guida dentro questo buio, il fratellino maggiore che a volte ci tiene per mano dentro i labirinti del buio, e a volte, con insolenza, mollando la presa e ridendo sguaiatamente, ci lascia soli ad allungare le braccia tremanti dentro questo buio che non ammette limiti. 

Scrive Giorgio Manganelli: “Vi sono nomi con i quali noi italiani, colti o incolti, viviamo la nostra vita: Dante, Michelangelo, Raffaello, Verdi. È un elenco slegato, discontinuo, ma credo si possa dire che, in qualche modo, qualcosa di codesti ingegni è mescolato all’impasto del nostro vivere”. Anche Caravaggio fa parte di questo elenco slegato, e come pochi altri è mescolato all’impasto del nostro vivere, soprattutto se si intende la vita come una tenebra fittissima, e per di più sterminata, squassata e rischiarata di tanto in tanto dai bagliori del sogno, dell’incubo, dell’immaginazione. 

Il regno del brutto non era ancora arrivato

Arrivo un pomeriggio d’aprile alla mostra Caravaggio 2025. Una brezza primaverile mi elettrizza i capelli. La chioma appuntita di due altissime palme oscilla. Cola del miele dal cuore barbarico di Roma trafitto dal profumo delle piante in fiore. Palazzo Barberini, le cui labbra di marmo risplendono al tocco delle labbra infuocate del sole, è un abbaglio. Cammino e levo una mano per riparare la vista. Il cielo è teso e lucido come un palloncino azzurrissimo sul punto di scoppiare. 

Fa strano guardare il cielo prima di immergersi nelle oscure visioni di Caravaggio. È più o meno come gonfiare le guance d’aria prima di tuffarsi in acque tempestose. Scrive sempre Giorgio Manganelli, ”Alcune notizie e annotazioni colpiscono la fantasia: ad esempio, che quasi mai usasse l’azzurro a dipingere il cielo; non ci sono cieli nei suoi quadri, ma grandi neri, era un pittore di fosforescenze che fuoriuscivano dalle tenebre. Sappiamo da un contemporaneo che il suo studio era una sorta di “camera oscura”, con pareti dipinte di nero, e può darsi che avesse in uggia il cielo, come convenzione pittorica e come luogo intollerabilmente simbolico”.

Tuttavia, finché sono fuori, l’azzurro permane. I gabbiani, vorticando lassù, e calando in picchiata, sono il filo bianco che ricuce le ragioni del cielo spoglio della misericordia degli dei alle ragioni della terra brulicante di turisti che scattano foto e mangiano il gelato. Chissà cosa penseranno guardando me e gli altri visitatori disporsi in una lunga fila che ripiega più volte su se stessa. Forse, ai loro occhietti, non saremo l’ennesimo gruppo di persone che attende di entrare in una delle mostre più fortunate dell’anno, i cui biglietti vanno a ruba, tanto che diventa sempre più difficile trovare posto, ma un incauto serpente che sta per infilarsi in una caverna misteriosa.

Uno steward in completo nero leva un nastro di mezzo e ci indica la via. Un fremito percorre la fila. Qualcuno sgattaiola più veloce degli altri, e anch’io allungo il passo. È la fretta di chi non vede l’ora di trovarsi al cospetto della persona amata. 

Una volta dentro, le pupille si dilatano, gli occhi si abituano alla penombra. I quadri emergono come isole di luce abbagliata sulle pareti scure. Il primo quadro che vedo si intitola Mondafrutto (1592–1593). È il ritratto di un ragazzo dalla camicia bianca aperta sul petto. Serissimo e serafico, sta sbucciando della frutta con un coltello. La cosa che mi colpisce sono le sue unghie trasparenti, di una trasparenza quasi liquida, e però deliziosamente orlate di nero. È un particolare che ricorre in altri quadri, e che via via si declina in molteplici variazioni (per esempio, i piedi nudi e sporchi di uno dei tre aguzzini de La crocefissione di San Pietro). C’è qui un’intuizione di Caravaggio. Il realismo, quando accade, porta sempre con sé una quota di imprevisto, di sporcizia, di impurità, di indecenza. La vita studiata dal vero non ammette figure ideali. 

“Prima che il nero mi sommerga e mi inabissi, mi entra dagli occhi, dalla bocca, dalle orecchie, dalle narici, ed è una cosa perfino dolce, come se il simile richiamasse il simile, e il nero di Caravaggio si riconnettesse finalmente al mio nero più profondo, questo nero che ci portiamo dentro, il nero prenatale in cui abbiamo nuotato come gamberetti”.

Il secondo quadro che vedo si intitola Il bacchino malato (1593–1594). È una strana figura. Un dio, in questo caso Bacco, declassato a ragazzino, per di più sgraziato, contratto in scomoda posa, corroso da qualche malattia. Le labbra bluastre. La pelle giallina o verdognola o di un bianco cadaverico. Perfino il fogliame che gli corona la testa ha un aspetto esausto. Cosa noto qui, e in che modo questo quadro si ricollega agli altri? Nell’opera di Caravaggio, anche quando i soggetti sono strettamente religiosi, c’è poco spazio per l’ideale o il divino (soprattutto se per ideale o divino si intende un’ideologica armonia delle forme).

Molto prima di Baudelaire, di Dostoevskij, di Nietzsche, a Caravaggio interessa l’umano, il troppo umano, l’umano rivelato fin nelle sue più infime pieghe – o ancora meglio, per essere esatti, il corpo, la carne, la carne scossa dal moto violento e contraddittorio delle pulsioni, dei desideri, dei sentimenti, e lavorata dall’incombere del tempo che passa, il tempo che tutto avvizzisce. Per questo il realismo di Caravaggio, che è talmente fedele al vero da apparire allucinato, coglie sempre nei corpi qualcosa di deforme o deformato, e di sgradevole e grossolano – cioè, in definitiva, di brutto, un brutto oggettivo, che nulla ha a che fare con intenti morali.

Tutti aspetti che nel corso dei secoli hanno precipitato i suoi dipinti nell’oblio, almeno fino a quando Roberto Longhi, con i suoi amorevoli studi, nel corso del Novecento, notando l’enorme influenza della sua opera sulla pittura successiva, non ha assegnato a Caravaggio lo scettro che gli spettava nel campo dell’arte.

Basta ricordare qui quanto scrive Stendhal, ”Per l’orrore che egli risentiva per l’ideale sciocco, il Caravaggio non correggeva nessuno dei difetti dei modelli ch’egli fermava nella strada per farli posare. Ho veduto a Berlino alcuni suoi quadri che furono rifiutati dalle persone che li avevano ordinati perché troppo brutti. Il regno del brutto non era ancora arrivato”.

Poi un gomito mi fruga le costole. Un alito caldo mi sferza il collo. Qualcuno mi sfiora, mi tocca, mi pesta un piede. I visitatori della mostra, come mobile siepe, crescono e s’infittiscono davanti ai quadri, tanto che non riesco più a coglierli nella loro interezza, avendone sempre una visione parziale, così che il mondo di Caravaggio, a brani, a strappi, a squarci, viene a me con improvviso balenio tra le teste annerite dall’ombra. Anche questo disagio fa parte della lezione di Caravaggio. Cos’è la vita se non accordo o disaccordo di corpi, perfino ora, soprattutto qui, mentre mi sollevo sulle punte dei piedi per guardare meglio? E cos’è la realtà se non il prodotto dello sfregamento dei corpi, del loro intreccio, del loro rapporto? In un attimo Caravaggio e Carlo Levi sembrano toccarsi e andare d’accordo, “l’individuo non è un realtà chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti”.

Il terzo quadro che vedo si intitola I bari (1594). È la scena di una truffa. Un ragazzo molto elegante e dal viso pulito sogguarda le carte da gioco che ha in mano. Due uomini lo stringono in trappola. Il primo, alle sue spalle, gli legge di nascosto le carte e fa dei segni. Il secondo, davanti, aspetta di tirare fuori una carta nascosta dietro la schiena. Messa così, il quadro appare il momento culminante di un’avventura. Un giovane aristocratico, abbandonando gli agi di una casa dorata, vaga nei sobborghi di una città, entra in una bettola, incontra gente vestita peggio di lui e soccombe. C’è un’ironia feroce in tutto ciò. E un giudizio spietato sull’aristocrazia. Per dirla alla Sergio Leone, quando un uomo molto elegante incontra un uomo con i guanti bucati, quello molto elegante è un uomo morto. Ma non è questo a fare del quadro un capolavoro.

Tantomeno il fatto che Caravaggio abbia tratto questa scena dalla vita sconcia delle borgate, cosa del tutto inedita per l’epoca, che desterà enorme meraviglia nei suoi contemporanei, facendo fioccare infinite imitazioni. Spira come un vento sulla superficie del quadro. Il laghetto della tela è increspato. Ogni figura è mossa. In un quadro che per sua natura dovrebbe raccogliere l’immobilità dei soggetti dipinti, i corpi sembrano fremere e respirare. Che stregoneria è mai questa? Il paradosso si spiega così. Caravaggio coglie sempre i suoi personaggi nel mezzo di un’azione, come se i corpi fossero la soglia vibrante tra due movimenti, uno che va e uno che viene. Se volessimo fare un salto di secoli, potremmo dire che Caravaggio inventa il cinema e che i suoi quadri sono fotogrammi.

Del resto, I bari sarebbe un perfetto fotogramma di un film di Martin Scorsese, mostrando ante litteram qualche fattaccio di Quei bravi ragazzi. Ma la portata filosofica di questa scoperta va oltre. In realtà, qui, e poi lungo tutta la sua opera, Caravaggio ci sta dicendo che se la vita e la realtà si fondano sul corpo, allora la vita e la realtà saranno sempre mosse, in movimento, in atto, e sempre parte di un flusso. Dove c’è vita c’è corpo, e dove c’è corpo c’è movimento, e dove c’è movimento c’è tempo, non il tempo degli orologi, ma il tempo delle sensazioni, delle durate, delle intensità, lì dove lo scoccare di un attimo può equivalere al volgere di un giorno, o di un secolo. Per questo i suoi quadri sono la celebrazione della vita che accade, della vita che non finisce di accadere. E il movimento che anima le sue tele porta sempre a una resurrezione delle immagini dal nero sepolcro della Storia. Tanto che ancora oggi, guardandoli, i suoi quadri sembrano vibrare e assestarsi davanti ai nostri occhi per la prima volta.

Nel nero prima del nero

La temperatura sale. La gente aumenta. Il brusio cresce. Gli addetti di sala, come sacrestani tra le navate di una cattedrale, ci invitano al silenzio. Le voci calano, poi tornano a ronzare più forte di prima. Così provo dispetto per me stesso. Perché mi accorgo di fare quanto tutti gli altri stanno facendo con serietà maniacale. Foto. Video. Allora mi strappo le cuffiette dalle orecchie mentre da un’app una voce femminile mi sta indicando come guardare i quadri e a quali dettagli prestare attenzione.

Cosa ne farò una volta a casa di questo stupido bottino, foto male illuminate e video mossi? C’è cosa più stupida di orientare il proprio sguardo seguendo una voce pre-registrata? Perché non guardo Caravaggio, ma davvero, senza filtri, ricavandone lezione e godimento, quando nulla ci divide e siamo qui l’uno per l’altro? Forse che non sia così interessato? Forse che Caravaggio non riguardi la mia vita? Forse che sia qui attirato dalle sirene del marketing, con tutti i manifesti della mostra in giro da mesi? Oppure, cosa infinitamente peggiore, non è che in questo modo mi stia tirando indietro, così da difendermi da quanto Caravaggio sta cercando di farmi vedere? Per questo ho fatto foto e video, levando il telefono come uno scudo davanti a me? Per paura che Caravaggio mi riveli qualcosa di inaudito, che mi farà battere i denti? Che razza di arido stronzo sono diventato se non riesco ad attingere forza ed energia neanche lì dove forza ed energia traboccano?

Mi faccio da parte. Mi accuccio in un angolo della sala. Caccio il telefono in tasca. Respiro corto. Gli addetti di sala, seguendo arcane disposizioni, richiamano chiunque cerchi di farsi una foto davanti a un certo quadro. Sudo. Ho labbra arse. Serro le palpebre. La tentazione di abbandonare la sala è fortissima. Faccio per andare e apro gli occhi. Un tremito mi scuote interamente. Così vedo. Vedo il nero dei quadri di Caravaggio. Vedo il nero dei quadri di Caravaggio addensarsi, montare con cresta d’onda e tracimare dalle cornici. Vedo il nero dei quadri di Caravaggio schiumare, allagare il pavimento, colmare la sala. In un attimo, i miei piedi si fanno neri, le mie gambe si fanno nere, la mia pancia si fa nera, e nere le mani, le braccia, le spalle. Non ho neanche il tempo di arrendermi e urlare.

Prima che il nero mi sommerga e mi inabissi, mi entra dagli occhi, dalla bocca, dalle orecchie, dalle narici, ed è una cosa perfino dolce, come se il simile richiamasse il simile, e il nero di Caravaggio si riconnettesse finalmente al mio nero più profondo, questo nero che ci portiamo dentro, il nero prenatale in cui abbiamo nuotato come gamberetti, il nero primordiale delle caverne misteriose, il nero interstellare rigato dal passaggio di una cometa o di una astronave, il nero più nero delle fiabe, delle selve oscure e degli occhi ciechi di Omero, che da sempre tutto sa e tutto vede.

Cos’è questo nero che occupa la superficie dei quadri di Caravaggio, e che di solito vediamo senza però riuscire a vedere davvero? Caravaggio lo stende sulle tele fin da principio, ma è da un certo punto in poi che si fa addirittura più vivido e consistente. Giovan Pietro Bellori, che fu biografo e critico d’arte tra i più importanti, nel 1672, compilando Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, riassume l’attività di Caravaggio con una minuta espressione che sfrigola di sconcerto e meraviglia. Dipingendo Santa Caterina d’Alessandria (1598-1599), una donna dall’occhio fiero che stringe tra le mani una lunga lama rossa di sangue, Caravaggio inizia a “ingagliardire gli scuri”. E brilla di esattezza, quel verbo – ‘ingagliardire’ – una volta associato agli scuri, alle oscurità, al nero. Un verbo che designa forza, potenza, addirittura generosità, ma del tipo più estremo, e che di solito descrive i fenomeni naturali, quando questi crescono, s’intensificano, e come i venti, e le bufere, colmano il mondo di pericoli e di nuove possibilità.

Ecco, da quel punto in poi, Caravaggio riesce a infondere vita al nero dei suoi quadri. E lo usa a profusione. Bellori osserva che Caravaggio “facevasi ogni giorno più noto per lo colorito che egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo alli corpi”. E se è vero che Caravaggio scopre e adotta questa nuovissima oscurità per meglio accordarsi all’oscurità delle grandi chiese in cui i suoi quadri venivano appesi, abolendo così ogni distinzione tra il nero reale e il nero dipinto, e altrettanto vero che, lavorando su queste grandi campiture di nero, del suo Tempo, cioè della Storia, che forse disprezzava in massimo grado, non se ne preoccupa più, spazzando tutto via, e lasciando al nero, il nero del cosmo infinito o della mente, la possibilità di rivelare i corpi e connettere le loro azioni. 

Viene da pensare che Caravaggio sia uno pochi che sia riuscito a misurarsi con il nero, il buio, l’oscurità, senza vacillare. Di solito, quando si guarda un suo quadro, è fin troppo facile concentrarsi sulle figure. Queste, tracciate con colori violenti e senza disegni preparatori, sembrano vita dipinta con la vita, e danno sempre la sensazione di muoversi oltre la cornice. Io per primo, negli ultimi anni, ho trascorso interi pomeriggi a palazzo Barberini fissando lo strano broncio con cui Giuditta piega le labbra mentre taglia la testa a Oloferne, un dolcissimo nodo di fierezza e brama e risentimento, così carico di rivelazioni sui moti segreti del cuore umano, che, per quanto mi riguarda, potrebbe giocarsela da solo con l’intera opera di Sigmund Freud.

Eppure, oltre alle figure, bisognerebbe concentrarsi sui fondali dei suoi quadri, neri per la maggior parte. Il miracolo dei quadri di Caravaggio è che quel nero, da cui le figure emergono venendo alla luce, monta in un modo tale da dare l’idea di essere un’entità gravida e senziente. Sì, nei quadri di Caravaggio, il nero, così denso e vischioso, che sembra sempre ribollire e espandersi, è il ventre gravido da cui nascono tutte le cose, il nero prima del Big Bang, il nero prima del nero. Non sarebbe affatto azzardato pensare che quel nero sia l’immaginazione in atto, da cui la vita zampilla a fiotti. Scrive Anna Maria Ortese, “purtroppo non si tiene conto che il reale è a più strati, e che l’intero Creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione”. Ed ecco cos’è il nero magmatico di Caravaggio. L’ultimo strato. Pura e profondissima immaginazione. 

“Viene da pensare che Caravaggio sia uno pochi che sia riuscito a misurarsi con il nero, il buio, l’oscurità, senza vacillare. Di solito, quando si guarda un suo quadro, è fin troppo facile concentrarsi sulle figure”.

Di solito siamo portati ad associare al nero il lutto, la morte, il presagio che ogni cosa cadrà in qualche abisso di dolore. Caravaggio spariglia tutto questo. Nei suoi quadri il nero non richiama la tristezza, ma la gioia, una gioia stordente, poiché il nero permette alla vita, di qualsiasi ordine e grado, di emergere e venire alla luce. Cosa che apre un nuovo paradosso. La pittura di Caravaggio brulica di crocefissioni, cadute, martirii, morsi, ferite, deposizioni, e teste tagliate, tutte simili, dato che Caravaggio amava autoritrarsi così, con la testa spiccata dal collo orlato di sangue.

Eppure non c’è spettatore di Caravaggio che dopo un primo turbamento non senta scorrere nel suo corpo una specie di elettrica impetuosa euforia, la stessa euforia che ci visita quando attraversiamo il buio dei nostri sogni, lì dove sentiamo la vita rivelarsi per ciò che è: una terra misteriosa in cui non vi è distinzione tra vita e morte, tra godimento e sofferenza, tra gioia e umiliazione, tra i regni e le specie, dove tutto è intrecciato a tutto, e ogni cosa è attributo di una sola sostanza.

Forse non è un caso se tra gli eredi di Caravaggio ci sia Fëdor Dostoevskij, che dal nero gravido e senziente ha cavato l’uomo del sottosuolo con il suo mal di denti, o David Lynch, i cui film sono infestati di stanze e corridoi nerissimi da cui la vita trabocca in forme nuove.

Ed è questo il lascito più grande di Caravaggio. Ricordarci costantemente che il buio, l’immaginazione, questo fondo denso e vischioso in cui la vita risiede al colmo delle sue possibilità, dimora fuori e dentro di noi. Rimanendo in contatto con questo buio, scopriremo la vita che verrà. Esplorando questo buio, conosceremo la parte più viva e scatenata del mondo e di noi stessi. Poiché, come scrive Wendell Berry, “andare al buio con la luce è conoscere la luce. / Conoscere il buio è andare al buio. Vai ad occhi chiusi / e scopri che anche il buio sboccia e canta, / ed è percorso da oscuri piedi e oscure ali”. 

Giuseppe Zucco

Giuseppe Zucco è scrittore e lavora alla Rai. Il suo ultimo libro è Il signore delle acque (Nutrimenti, 2025).

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