Federica Verona
Il fondatore di Maestri di Strada racconta il suo lavoro nelle periferie napoletane. E un’idea di scuola in cui l’educazione incontri la realtà quotidiana dei ragazzi, offrendo loro opportunità di crescita e di espressione lontano dai dogmi istituzionali.
Cesare Moreno di mestiere fa il maestro elementare e, da più di trent’anni, percorre le periferie napoletane intercettando adolescenti che coinvolge in un prezioso progetto parallelo alla scuola, di educativa di strada. Lavorando sul campo, lontano dalle ideologie, Maestri di Strada Onlus – l’associazione da lui fondata e di cui oggi è presidente – raggiunge ogni anno migliaia di ragazze e ragazzi. Di questi, circa trecento entrano poi a far parte di una quotidianità fatta di laboratori, relazioni, esperienze artistiche e di scambio, che mette in discussione i concetti classici del fare educazione e scuola.
Ho incontrato Cesare Moreno a Barra, nella periferia orientale di Napoli. Ai piedi del Vulcano, tra case popolari riabilitate da murales di artisti di fama internazionale e dimore della media borghesia (e il mare, ovviamente). Dopo un breve giro del rione, a bordo del suo grande e riconoscibile furgone bianco, la nostra conversazione ha inizio nella sede di Maestri di Strada Onlus, una vecchia scuola che l’associazione ha in uso e che pian piano sta ristrutturando.
Cesare, raccontami il tuo lavoro, cosa fai ma soprattutto il perché lo fai.
“Maestri di Strada” è un’organizzazione che tende a trasformare la scuola come fondamento del contratto sociale. Per “scuola” si intende qualcosa di funzionale alla politica, nel senso della polis, quindi della città. Ci occupiamo di legami umani che si possono creare intorno alla scuola e alla dimensione della cura. L’idea diffusa è che la scuola elementare, media e superiore, debba escludere le famiglie invece di includerle, e distanziare i ragazzi fra loro. Ed è qui che la natura isolazionista della scuola corrisponde molto bene con la struttura isolazionista dell’abitare in città. Le piazze non sono più luoghi d’incontro, ma campi di battaglia della criminalità assortita. Mancano nel nostro territorio luoghi di incontro significativi per i ragazzi. Le parrocchie non funzionano come spazi di aggregazione, gli scout nemmeno, così come le federazioni giovanili dei partiti. Ma l’io deriva dal noi. Possiamo usare una metafora che va bene anche per gli urbanisti: il fuoco del villaggio alimenta anche i focolai domestici e non il contrario. Nei libri di scuola e anche nei libri più colti, l’immagine prevalente è quella di un uomo che viveva solo e che solo poi ha capito che aggregandosi ad altri poteva stare meglio. Ha iniziato a vivere coi grandi gruppi, che stavano assieme sulla base di necessità fisiche come la caccia. E i dipinti sulle pareti che ci hanno lasciato questi gruppi la dicono lunga sul fatto che l’arte non è un bisogno secondario. Quegli uomini erano morti di paura, morti di fame, morti di freddo, con le tigri con i denti a sciabola in agguato, ma per difendersi dipingevano. E’ chiaro che il dipingere, l’arte, è un bisogno primario di un gruppo. La dimensione sociale del vivere precede la dimensione individuale e la scuola dovrebbe essere un luogo dove la dimensione sociale del vivere viene esaltata, non sminuita.
“Cesare Moreno di mestiere fa il maestro elementare e, da più di trent’anni, percorre le periferie napoletane intercettando adolescenti che coinvolge in un prezioso progetto parallelo alla scuola, di educativa di strada”.
Ma cos’è la scuola?
Se guardiamo alle competenze trasversali, la prima è la cooperazione e la seconda è la solidarietà umana, cioè la capacità di empatizzare con l’altro, la capacità di sentire il dolore dell’altro. E la scuola non dovrebbe essere un luogo in cui si educano le persone, ma un luogo in cui fare in modo che quelle persone diventino padrone di tutto ciò che hanno dentro. Nella realtà, invece, è un’organizzazione che finisce per stendere una cortina impenetrabile sulle emozioni e i sentimenti delle persone. Poi queste emozioni, guarda caso, vengono fuori nei momenti di crisi e ci si dice “Uh, le persone sono un po’ fasciste”. E certo che lo sono, se le si abbandona a se stesse. Le emozioni diventano fasciste quando sono elementari: alla paura e all’aggressione si reagisce con l’aggressione. Al coltello si reagisce con il coltello.
Quale soluzione abbiamo?
Se noi vogliamo in qualche modo invertire la tendenza, anche se è un discorso ultra utopistico, e mettere un po’ di sabbia negli ingranaggi di questa macchina che maciulla le umanità delle persone, trasforma gli individui in individualisti, l’essere sociale in essere asociale e le persone vive in persone recluse, allora dobbiamo far funzionare l’educazione come Dio comanda.
Tu nasci come educatore? Come sei diventato maestro di strada?
Io nasco come insegnante, ma ho iniziato tardi, a 38 anni. Prima ho vissuto per strada, ho fatto l’estremista, ho fatto Lotta Continua e lì ho imparato le cose fondamentali. Ho capito come funzionano la società, la borghesia, l’università. Come funziona la scuola, dove sono entrato già con l’idea che le aule fossero il posto giusto in cui giocare la partita della cittadinanza del prendere voce.
Gli edifici che ospitano le scuole oggi sono spesso vecchi e strutturalmente inadeguati, anche dal punto di vista normativo, oltre che progettuale. Cosa ne pensi?
Il modello è quello del 1643: le aule avevano finestre alte per impedire ai ragazzi di guardare fuori, e la struttura ricalcava quella dei conventi. La scuola moderna è stata inventata dai preti protestanti in mezzo a una grande discussione: la scuola avrebbe dovuto avere un carattere preventivo rispetto al crimine e all’immoralità o un carattere di promozione del benessere? Il pensiero generale sposava l’idea che la scuola dovesse prevenire il crimine. Nella famiglia di quel tempo inoltre c’era l’abitare, il produrre e l’insegnare. Stava tutto insieme. E’ così che la creazione della scuola collettiva, quando fino ad allora c’era la scuola individuale, è stata una grande scoperta. Ma oggi, sostanzialmente, sia la struttura fisica sia la struttura psichica della scuola sono rimaste quelle di quasi 400 anni fa. L’unico architetto famoso, che sappia io, che ha pensato a delle scuole aperte al territorio è stato Michelucci con le scuole di Pistoia. Poi ci ha pensato Danilo Dolci con la scuola di Mirto. Le scuole del Parco Trotter a Milano sono un esempio. Ma l’architettura di riferimento rimane quella del convento.
Quando parli di “struttura psichica” intendi che anche i programmi scolastici sono molto datati, no?
Certo. Noi abbiamo delle scuole chiuse e dei saperi chiusi, se vuoi passare dalle scuole aperte ai saperi aperti devi aprire l’architettura. Io l’ho fatto in questa scuola abbattendo i muri e aprendo. I tecnici mi dicevano “ma perché devi fare tutte ‘ste porte? Devi tenere conto della sicurezza” e io rispondevo che a me della sicurezza non me ne fotte niente. La scuola deve essere fatta tra il dentro e il fuori, per me. Si cresce quando da fuori si portano le cose dentro e da dentro si portano le cose fuori. La grande scommessa è che questo metodo presuppone un insegnante che debba essere creativo, che si debba inventare le cose. Servirebbe affidarsi alla libera esplorazione della città, al vagabondare creativo. I clochard, da questo punto di vista, sono veri e propri esploratori, perché vedono le cose in modo diverso. Per me, la corrispondenza tra la struttura della vita urbana e la struttura del sapere è biunivoca.
C’è questa idea forse tutta italiana per cui la scuola debba essere un dovere, qualcosa di molto noioso e faticoso, lontano dalla gioia e dal piacere di apprendere e formarsi.
Questa dimensione della sofferenza è tipicamente da preti: la mortificazione della carne. Alfieri che dice: “sempre fermamente volli e si lega alla sedia per studiare”. C’è l’idea che per raffinare le conoscenze si debba passare per la sofferenza, per la fatica. Il sacrificio risale a Hegel, che diceva che la “cosa in sé” si raggiunge quando si spoglia la “cosa per sé”. Noi facciamo il contrario.
Il vostro lavoro si attiva in una periferia che è fatta di contraddizioni. Me la racconti? Non ne voglio una definizione, perché non mi sembra interessante definirla, ma una narrazione.
La periferia innanzitutto è riferita a se stessa, i periferici si riferiscono solo a se stessi. E c’è un nucleo di piccola e media borghesia che si è arrogata il diritto di parlare a nome della città e lo ha fatto con le canzoni, con la letteratura, il cinema. Il problema fondamentale della periferia è quello di non avere voce propria nella scena pubblica e di starci solo per le cose negative. Pensa se la borghesia stesse sulla scena pubblica tutte le volte che uno ammazza la moglie o la picchia, tutte le volte che va in galera perché ha rubato, tutte le volte che sta sotto inchiesta. Se noi parlassimo della borghesia solo quando fa cazzate, la borghesia risulterebbe senza voce. Invece viceversa la borghesia parla perché scrive le poesie, fa le mostre d’arte, fa le sculture, fa le canzoni quelle buone, non quelle dei neomelodici. Per me quello delle periferie è un problema narrativo, è come tu la racconti. E quindi come si fa a non essere periferia? Basta che i periferici inizino a parlare in prima persona e a raccontare come sono, occupando invece uno spazio pubblico. La scuola ha un ruolo fondamentale da questo punto di vista. Il fatto, ad esempio, che molti insegnanti o dirigenti siano convinti che la periferia possa diventare importante nella misura in cui riesce ad imitare i ricchi è sbagliata. La periferia diventa importante nel momento in cui parla di sé con il suo linguaggio imponendo il proprio modo di vedere, perché il modo di vedere pulito e forbito non è l’unico modo di vedere.
Questa cosa del linguaggio è molto interessante, perché si crede sempre che il linguaggio dei ragazzi di oggi sia sbagliato, si giudicano per il modo in cui parlano, invece è anche un modo per costruire una propria identità, un proprio codice. Chi sono i ragazzi che vengono qui? Come ci arrivano a voi?
I ragazzi qui ci arrivano con i loro piedi. Noi andiamo nelle scuole, facciamo delle attività e poi gli diciamo che se queste attività le trovano interessanti, possono venire al centro e le approfondiamo insieme. Noi contattiamo un migliaio di ragazzi all’anno, da noi ne vengono circa 200/300. Sono i più disgraziati, anche se iniziamo ad avere anche quattro o cinque figli dell’agio, non solo del disagio. Il figlio di un’insegnante, il figlio di un’educatrice. Persone colte che capiscono che i loro figli venendo qui apprendono meglio che stando con i loro coetanei del proprio gruppo di appartenenza. Un nostro vanto, la nostra definizione di espressione scolastica, parte da un concetto molto chiaro, ovvero che l’emarginazione interiore è la madre di tutte le emarginazioni. L’emarginazione interiore la può avere anche il figlio di un borghese, perché sì, anche i ricchi piangono. C’è una democrazia del malessere, oggi: il disagio psichico è esteso anche a chi vive nell’agio socio-economico. Per questo il discorso della città e dei luoghi diventa fondamentale, perché i luoghi sociali della città sono fintamente sociali. La discoteca, ad esempio, è un luogo sociale ma è importante porre in differenza le dinamiche di folla e le dinamiche sociali. Le dinamiche di folla mettono assieme le persone sulla base di emozioni elementari con conseguenti disastri assortiti. Invece una dinamica sociale può mettere insieme anche migliaia di persone ma sulla base di una vera interazione cooperativa. Qui a Ponticelli non non è vero che non ci sono gli spazi verdi, ci sono, ma non sono attrezzati, oppure non ci sono strutture per il tempo libero, quelle che abbiamo sono state distrutte. E’ un luogo pieno di iniziative del sociale ma il tema è che le scuole sono estranee a tutto ciò.
Napoli è cambiata moltissimo e le dinamiche che sta vivendo sono le stesse di Milano, Firenze, Venezia con questa rinnovata dimensione del turismo. A me colpisce Napoli sia molto ripulita, sembra scomparsa la microcriminalità a favore delle attività turistiche ad esempio. Mi chiedevo come questa dinamica, alla quale contribuisce anche il successo di serie tv come Mare fuori, stia intaccando la periferia. Come vedi il futuro di Napoli rispetto alla trasformazione in atto?
Queste dinamiche non sono governate, accadono: è successo che coloro che facevano gli scippi ora hanno capito che è molto meglio svuotare i portafogli attivando catene di Airbnb. Hanno trasformato i vicoli, così le vespe che servivano per gli scippi non possono più passare dai troppi tavolini. Non è che il governo della città abbia programmato tutto questo e non ha nemmeno in nessun modo pensato che poteva valorizzare la periferia ridistribuendo gli ospiti delle navi da crociera. Noi Maestri di Strada abbiamo una piccola agenzia turistica. Si chiama Fiera dell’est e facciamo turismo sociale, con quattro cinque scolaresche all’anno, invece di fare la gita nei luoghi classici li portiamo qui a vedere i murales, a mangiare nella nostra mensa. Per esempio se questa ondata di turismo che sta affogando il centro storico fosse stata governata da qualcuno, invece di riversare i turisti nei vicoletti, si sarebbe potuto farli dormire ad esempio a San Giovanni, organizzando un serio sistema di trasporto verso il centro. Ma se pensiamo che il Comune di Napoli non è nemmeno in grado di riscuotere l’euro di tassa… Gli albergatori la incassano ma non la versano. Del resto, senza andare lontano: a Venezia il turismo è stato pianificato? Ora ci si accorge che è invasivo e fanno il numero chiuso, ma c’erano molti sistemi per evitare di arrivare a questo. Anche perché poi l’Italia è il posto in cui giri l’angolo e trovi un castello, giri una via e trovi una villa, basterebbe inserire nel circuito del turismo anche i luoghi più residui.
La politica è la grande assente, in questo dibattito. Se tu dovessi costruire un manifesto di punti urgenti e necessari per le città a partire dal mestiere che fai, cosa metteresti al primo posto?
Servirebbe una politica per gli alloggi dedicati ai minorenni. Un minorenne abita separatamente dalla famiglia – nel carcere minorile o in casa famiglia – se fa qualche guaio, ma io vorrei avere dei luoghi per i minorenni prima che combinino i guai. A Bolzano c’è un albergo fondato da un prete protestante, un albergo-collegio, per far studiare le arti e i mestieri ai ragazzi del contado. Se io potessi fare la stessa cosa qui lo avrei già fatto. Se un adolescente per vari motivi ritenesse che temporaneamente o definitivamente non vuole vivere con la propria famiglia, dovrebbe avere un posto a lui dedicato.
In fondo anche questo è un dogma, la famiglia non deve essere per forza quella naturale, che ti corrisponde geneticamente ma quella che ti costruisci. Anche la famiglia è pensata come un obbligo sociale del quale dover fare parte, una costrizione sociale dalla quale sarebbe importante uscire soprattutto quando le condizioni sociali sono faticose e complesse.
Il fatto è che c’era uno sfogo, un tempo. Il padrino, la madrina, gli amici, la comunità… Il ragazzo aveva la possibilità di prendere delle pause dalla famiglia e di fare mille esperienze senza i genitori. Potrebbe essere importante avere dei luoghi sani che ospitino ragazze e ragazzi con la necessità di stare lontano da casa, anche solo per quindici giorni, perché magari vogliono scappare dalle dinamiche tossiche di genitori separati che litigano o che magari hanno un altro compagno o compagna. Sarebbe importantissimo offrirgli uno spazio. Delle foresterie più che degli alberghi dove proporre attività a libera scelta, socio educative. Un minorenne oggi ha tutta una serie di comportamenti simili a un maggiorenne, ma poi gli manca la possibilità fondamentale di vivere per conto suo con un minimo di struttura. La casa come servizio, nel gestire la casa, si acquisiscono moltissime competenze trasversali. Il termine “cattivo” significa “prigioniero”. Chi è “cattivo” è soprattutto prigioniero di un copione che non sa cambiare. Il contrario di “cattivo” non è “buono” ma è “libero”. E se io voglio che gli adolescenti siano meno arrabbiati, meno aggressivi, li devo liberare, e la casa potrebbe essere un oggetto di libertà. Il problema sono insegnanti ed educatori convinti che la scuola serva per formare la classe dirigente di domani. Non è così, questi ragazzi sono morti di fame e morti di fame resteranno. Tra un morto di fame che non sa leggere né scrivere, però, campa meglio quello che sa leggere e scrivere, perché trova espedienti materiali e riesce a gestire meglio le frustrazioni. Come dice Danilo Dolci: “c’è chi insegna senza nascondere l’assurdo che è nel mondo”. La società non è ingiusta, è super ingiusta, sta creando discriminazione più che nel passato, ma è qui che viviamo e dobbiamo trovare un modo per sopravvivere in questa società. I ragazzi quando vengono qui stanno bene, proprio perché non nascondiamo l’assurdo non promettiamo loro che troveranno lavoro, facendogli il predicozzo. Facciamo cose che ci piacciono qui e ora, se ci piacciono qui e ora ci sarà un futuro, se le cose dispiacciono qui e ora il futuro non ci può essere. Serve dire loro che noi teniamo a loro.
Quella cosa dell’essere visti.
Sì, esatto. Noi li dobbiamo vedere, tenere conto di quello che a loro piace. Tutte le infinite teorie, i consigli e le istituzioni pedagogiche, possono essere riassunte in una sola parola: “cura”. Se io ti curo, anche tu ti curi.
Federica Verona
Federica Verona è un’architetta e urbanista che si occupa di disagio abitativo, di progetti di social housing e processi di diffusione della cultura in contesti abitativi e periferici. Ha fondato ‘Super – il festival delle periferie’. Collabora con CCL (Consorzio Cooperative Lavoratori). Scrive di città.
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