Mattia Venturi
A tre anni dal Premio Strega vinto con "Spatriati", lo scrittore torna in libreria (e in Puglia) con "Malbianco". Un romanzo che inverte la rotta del precedente, e attraversando tutto il Novecento si concentra sui parassiti che colpiscono gli alberi più fragili, quelli genealogici.
A tre anni di distanza dalla vittoria del Premio Strega, Mario Desiati è tornato in libreria con Malbianco (Einaudi). Il protagonista, Marco Petrovici, è un nomade digitale che ha vagato per l’Europa senza mai realizzare il sogno di scrivere un libro, e che a quasi cinquant’anni decide di tornare in Puglia. È nella campagna tarantina che affonda le radici il suo malessere. È lì l’origine degli attacchi di panico che lo tormentano. Per guarire, Marco intraprende un viaggio a ritroso nella memoria familiare dei Petrovici, cercando di scardinare la reticenza che copre una storia lacunosa e frammentaria. Perché il segreto dell’identità risiede forse in ciò che sono stati coloro che ci hanno preceduti. Malbianco vuole sgombrare il campo dal male che si cela nella rimozione. Il silenzio è per il protagonista un cassetto chiuso e la chiave per aprirlo è il racconto: il vuoto va riempito di parole, o di musica, o meglio ancora di entrambe.
Per quanto io creda sia un esercizio sterile quello di sovrapporre la biografia di chi scrive con le storie che scrive, c’è una frase che mi torna in mente, che compare nelle ultime righe: “Questo libro, come tanti libri che si scrivono, è anche un modo di stare vicino a persone che non ci sono più, oppure sono lontane, così lontane da sembrare irraggiungibili […]. Queste persone così importanti per me hanno tutte lo stesso cognome, un cognome che spesso gli altri sbagliavano a scrivere. Per come le ricordo io avevano tanto pudore per cui basta così, e con questo libro ho voluto sentirmi vicino a loro ancora un po’.”
Sono elementi questi che acuiscono una sensazione che la lettura mi ha lasciato, quella di un cambio di rotta rispetto a Spatriati e in generale rispetto ai romanzi precedenti: da andata a ritorno; non presa di distanze, ma riconciliazione. Alcuni personaggi di Desiati – che si ustionano a contatto con una realtà traumatica contro cui il desiderio si infrange – si definiscono in negativo, Marco Petrovici si definisce in positivo: è ciò che viene prima di lui che stabilisce ciò che è.
È la prima cosa che gli chiedo.
Nei tuoi romanzi precedenti hai sempre raccontato il desiderio di emanciparsi dalle radici. Questa invece è la storia di un ritorno.
Per me è invece un distacco che usa l’apparente ritorno per una rivoluzione. Marco Petrovici torna perché, per costruire il proprio futuro, ha bisogno di mettere il passato in prospettiva, quindi passa una fase della propria vita nei luoghi in cui è cresciuto, ma non ha intenzione di restare. Il desiderio, anzi, è quello di ridiscutere tutto. È il motivo per cui abbiamo sempre studiato la storia. Burke, ad esempio, sostiene che gli storici siano i nuovi psicologi. Ridiscutere la propria storia permette al protagonista di superare i conflitti che vive. È un viaggio nel tempo, più che un ritorno a casa.
Pensa che ho cominciato a scrivere questo libro a giugno del 2018, quando ero nel bel mezzo dell’ennesima revisione di Spatriati. In tutti questi anni, per me è stato complicato parlare di Spatriati perché in realtà non parlavo di Spatriati: parlavo di Malbianco, ma nessuno lo sapeva. Fino a sei mesi fa, ho seguito la promozione di Spatriati in Francia e Germania perché ho un ottimo rapporto col pubblico e con gli editori lì. In quelle presentazioni, parlavo continuamente di rimettere in discussione la propria memoria, del fatto che non c’è futuro senza aver digerito il passato. Perché la memoria funziona come un processo fisiologico, come la digestione: elaboro, trattengo le sostanze vitali ed espello gli scarti. È quello che cerca di fare il protagonista del libro con gli strumenti che ha a disposizione.
Il malbianco cos’è?
Per anni ho cercato il nome del disagio del protagonista. Mi serviva una parola che raccontasse il conflitto di una persona nei confronti di una realtà in cui c’è qualcosa che non va: ci sono dei segreti, si ha anche un’idea di cosa riguardino questi segreti, ma le cose non vengono mai esplicitate. Questo non detto è un patto un po’ miserabile. Non poter dire le cose come stanno in un qualche modo ti esclude, ti fa sembrare un pazzo, ti dà la sensazione di non essere creduto, di non poter dire ciò che pensi alle persone che ti hanno cresciuto. È il caso dell’albero genealogico dei Petrovici.
Mentre cercavo questa parola, mi viene raccontata una storia. Uno degli alberi più significativi nella campagna di mio nonno è un castagno. Mi raccontano che questo castagno è stato mangiato dal malbianco. Si tratta di un feltro bianco che copre l’essenza verde delle foglie. In quel momento ho un’immagine chiara: quello è il non detto. Il non detto a proposito della storia di una famiglia fa sì che le persone che ne fanno parte perdano la loro essenza vitale, come se il malbianco potesse colpire anche l’albero genealogico. Così trovo il titolo.
Adesso mi capita di usare la parola malbianco – con questo significato – anche con altre persone che fanno parte della mia cerchia ristretta, amici o conoscenti. Quando qualcuno mi racconta, per esempio, che a casa sua non si può dire una certa cosa, allora dico: quello è malbianco.
Ricorre spesso l’immagine del male da cui ci si libera col racconto (o con la musica, come funziona per i tarantolati). Scrivi: “Se il trauma appare sotto forma di racconto su un pezzo di carta, non apparirà sul corpo.” Dei fantasmi ci si libera raccontandoli?
Ernesto De Martino usava la prova deflusso per definire il tentativo dei tarantati di guarire con la musica, il deflusso del male attraverso la danza. L’idea – metaforica – è che il ragno ti ha morso e quindi il veleno debba essere espulso con il sudore. In realtà, diceva De Martino, è il cattivo passato che defluisce, un male probabilmente legato a una qualche forma di disagio mentale, a forme depressive, a melancolie. Ovviamente questo suo studio – la sua grande intuizione – è del 1959. Sono passati più di sessant’anni. Oggi tante di quelle intuizioni si sono affinate, c’è tutta un’altra serie di studi sull’argomento. Però all’epoca fu rivoluzionario.
Uno dei temi sotterranei del romanzo è che c’è una connessione fra musica e stato mentale, fra creatività e stato mentale. Il libro racconta anche che da sempre, per gli esseri umani, la musica o la poesia sono una forma di resistenza al male e ho cercato di rappresentarlo anche facendo riferimento a questi aspetti della cultura del mio territorio. Questa musica popolare, la taranta, è legata al triangolo Taranto-Brindisi-Lecce. Ai tempi dell’Illuminismo, i napoletani – questo lo racconta sempre De Martino – mandavano scienziati in questa zona per capire come mai qua ci fossero queste epidemie coreutiche. Cioè com’è che qua la gente si ammala e per curarsi balla invece di prendersi una medicina? Pensavano che fosse una leggenda, una diceria, e poi hanno scoperto che era vero, che la gente lo faceva, solo che ovviamente c’erano delle altre implicazioni che sono quelle descritte da De Martino nella Terra del Rimosso e in Sud e Magia.
“Pensa che ho cominciato a scrivere questo libro a giugno del 2018, quando ero nel bel mezzo dell’ennesima revisione di Spatriati. In tutti questi anni, per me è stato complicato parlare di Spatriati perché in realtà non parlavo di Spatriati: parlavo di Malbianco”.
Poi c’è la poesia. Cosa utilizziamo nella ricerca di un’armonia col nostro corpo, con le cose che ci stanno attorno, col mondo in genere, se non le parole? La poesia, l’armonia della parola, è tra le forme primigenie di espressione, è uno degli strumenti del ricordo. Ci ha permesso di tramandare storie. Infatti, i primi poeti erano gli mnemones. Io scherzosamente dico sempre che il mestiere più antico del mondo è il poeta.
Scrivi a un certo punto: “È come quando gli archeologi si imbattono nel frammento di un vaso antico. È la tecnica del coccio. Da un pezzettino minuscolo si ottiene la proiezione del tutto.” In effetti, Marco deve colmare un racconto lacunoso e aggiungere i frammenti che mancano. Che ruolo ha l’immaginazione in questo racconto?
Il libro nasce proprio da questo. Io sono un grande lettore di paratesti, mi interessa moltissimo. Quando apro un libro mi soffermo molto sulle scelte che un autore fa in questo senso: esergo, bibliografie, ringraziamenti. Sono parti del libro che lo accompagneranno anche dopo la morte dell’autore, per questo sono molto importanti. In Malbianco l’esergo è una frase di Leonardo Da Vinci. Ho sentito di dover saldare un debito con Enzo Siciliano, che mi fece conoscere questa favola, Il salice, in cui si dice proprio: “e raccolti in sé tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte all’immaginazione”.
L’immaginazione è anche alla base della metafora freudiana del vaso. Freud diceva che l’archeologo trova un coccio e da quello ricostruisce la forma – o quantomeno l’ipotesi – del vaso, dell’anfora, della ciotola. Attraverso cosa lo fa? Come possiamo ricostruire la storia della nostra famiglia se non ne sappiamo niente? Abbiamo tre strumenti. Il primo, che è quello che usa inizialmente anche Marco Petrovici, è la psicoterapia: guardare dentro se stessi grazie alla guida di un terapeuta. Ma a un certo punto quello che hai dentro non basta, devi anche conoscere quello che c’è fuori, devi fare un minimo di ricerca storica: oggetti, testimonianze, domande a persone che ancora ci sono. E infine, quando non c’è altro, non ti resta che l’immaginazione. L’immaginazione comunque si fonda su qualcosa di vero, su un’esperienza che magari non abbiamo vissuto ma che è comunque presente.
Nel libro, questo aspetto emerge perché è proprio Marco che lo dichiara. Da un certo punto in poi, si affida (almeno in parte) all’immaginazione e quello che scopre è comunque vero. Oppure chissà.
A questo proposito, nella bibliografia compare la psicoanalista Galit Atlas, che dice che le persone che amiamo e quelle che ci hanno cresciuto vivono dentro di noi, proviamo il loro dolore emotivo, sogniamo i loro ricordi. Citi anche la sindrome degli antenati di Anne Ancelin Schützenberger. Il passato che risuona nel presente…
Sono le nuove frontiere delle neuroscienze. Atlas è una psicanalista israeliana che ha scritto un libro, dal titolo L’eredità emotiva, in cui racconta proprio come i traumi possano essere ereditati anche senza averli davvero vissuti. Pensa a un nonno che è reduce da un campo di prigionia, al rapporto che potrà instaurare con il figlio dopo aver vissuto quell’esperienza, ai non detti, e al rapporto che questo a sua volta instaurerà con suo figlio. Secondo Atlas, sia per il figlio che per il nipote, quell’esperienza va a formare la matrice della loro relazione col mondo. È un’esperienza fantasma della quale non si può che seguire le tracce se si vuole prendere in mano il proprio destino. Ed è quello che succede nel mio libro.
Anche se parliamo sempre di un romanzo, non di un saggio. La bibliografia è un elemento quasi pornografico: serve a dare uno strumento in più al lettore che vuole approfondire.
A un certo punto, Marco incontra un ricercatore tedesco che lavora nell’archivio di Bad Arolsen, luogo che conserva la memoria e i nomi dei deportati nei campi. Dal dialogo tra i due emergono due modi diversi, quello italiano e quello tedesco, di avere a che fare con l’orrore della guerra, col senso di colpa e la vergogna. Sigismond Stern, l’archivista, dice: “Noi stiamo facendo del nostro meglio per rendere più chiare le circostanze, in Italia è diverso”. Collettivamente con quale rimozione dobbiamo fare i conti?
Per scrivere quella parte del romanzo mi hanno aiutato molto gli studi di Gehrard Schreiber, uno storico tedesco che si è occupato dei rapporti tra Italia e Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. Lui è molto meticoloso, “dà i numeri” nel vero senso della parola, ti dice proprio quanti soldati hanno partecipato a quella o quell’altra battaglia. E si è occupato anche dei militari italiani internati in Germania dopo l’8 settembre. Ecco, c’è una riflessione che mi arriva da lui, ma che è piuttosto condivisa, e cioè che in Italia abbiamo operato un po’ una semplificazione: è come se l’8 settembre avesse lavato via tutto, ci avesse assolti. Come se avesse cancellato gli anni in cui abbiamo fatto la guerra al fianco della Germania nazista. Questo comporta anche forse che abbiamo sentito di non dover fare troppo i conti con quel periodo.
Sigismond Stern è un mélange di caratteri tedeschi con cui in questi anni ho parlato spesso. Mi piaceva immaginarlo come un personaggio che ha le idee chiare, mentre il protagonista, come me, non le ha affatto. In questi anni, come molti italiani che hanno vissuto in Germania, mi sono sentito dire che i tedeschi quella fase storica la stavano ancora pagando, ma che è importante elaborare perché solo elaborando puoi salvare il futuro. La mancata elaborazione passa poi da un piano collettivo a uno individuale. Nel senso che come un paese racconta la propria storia, il proprio passato, diventa importante anche per l’individuo. Perché in base a quello può prendere atto, eventualmente pagare le conseguenze e poi guardare avanti con uno sguardo nuovo. Stern è fatto così: si fa carico di un qualcosa che è successo prima di lui. Per questo si prende a cuore la causa di Marco Petrovici.
Mi piace molto la parola constatare, che è un motto della psicologia transgenerazionale. Constatare libera, perché ti indica dove c’è un conflitto che non è stato superato e come lo si può superare, come si può procedere. Cosa che invece l’assoluzione, specie se ingiustificata, non aiuta a fare. A questo proposito, c’è una cosa che ho scoperto parlando con persone che lavorano nell’archivio di Bad Arolsen come Stern, e che riguarda soprattutto i tedeschi: mi hanno raccontato che sono tanti quelli che si rivolgono a questi archivi quasi nella speranza di trovare un parente internato, un parente che non era nazista, perché quello equivarrebbe in qualche modo a un’assoluzione.
Ho letto in un’intervista che hai rilasciato dopo l’uscita di Spatriati che di lì in avanti ti saresti liberato di quelli che vengono definiti tuoi alter ego letterari, Martino Bux e Francesco Veleno. Che cosa è cambiato?
Martino Bux e Francesco Veleno sono maschere, e come tali cambiano anche da romanzo a romanzo. Hanno caratteri leggermente diversi di volta in volta e qualche leggera variazione anche da un punto di vista fisico. Entrambi incarnano un certo tipo di maschile. Martino è un uomo frustrato, incattivito, sulfureo. Francesco invece è inquieto, pavido, non so nemmeno quanto abbia contezza della sua identità. Ho deciso che me ne sarei liberato perché, come dicevo prima, quando ho chiuso Spatriati, in realtà ero già con Marco. Vedevo il traguardo di questo libro, o meglio, sapevo dove andava, ma non avevo ancora la voce.
Quando inizio la stesura di un libro, il mio primo problema è sempre quello di trovare la voce giusta. Perché le cose da dire già ci sono, ma è la voce, il ritmo di chi racconta, che ti dà il centro di una storia. A lungo ho cercato un uomo come Marco e sono partito dal nome, che è una caratteristica fondamentale dei miei personaggi. I nomi sono importanti anche nella nostra vita, perché sono una cosa che non dipende da te: viene scelta da altri ma ti accompagna per tutta la vita e tu non puoi fare altro che riappropriartene.
Marco Petrovici è un personaggio che forse è un po’ più solido, per alcuni aspetti, ma al contempo è più in crisi degli altri. Assomiglia molto al quasi cinquantenne che sono oggi. Marco, ad esempio, non è ironico. L’ironia è una qualità rarissima, che talvolta le persone si attribuiscono. Ecco, io scrivendo questo libro ho scoperto, alla soglia dei cinquant’anni, di non essere dotato di ironia. Purtroppo quella che pensavo fosse ironia altro non è che un ottuso sarcasmo martinese senza alcuna nobiltà.
C’entra anche il desiderio? Del resto, Martino Bux e Francesco Veleno sono divorati dal desiderio, mentre Marco Petrovici pensa: “il desiderio è diventato tenerezza, vorrei solo dei baci, vorrei essere abbracciato, vorrei un po’ di calore per me.”
Marco è ossessionato da questa ricerca della verità. Il suo desiderio è diretto lì. Anche lui è uno spatriato come Francesco Veleno, ma in pace, perché la sua esperienza fa sì che possa vivere serenamente la sua bisessualità. Ha amato uomini e donne, in casa c’è stato l’inferno, sono volati i piatti, poi ha avuto due grandi storie d’amore e quelle due persone sono rimaste nella sua vita. E quello è un desiderio, nel senso di sogno: avere delle persone che sono state così importanti per te con le quali, anche dopo la fine dell’amore, continua una relazione forte, una complicità.
Altro tema centrale è quello del corpo. A un certo punto scrivi: “la libertà e la scoperta del proprio corpo e di quello degli altri devono essere dominate nelle donne, nei bambini e negli adolescenti, perché minacciose per l’autorità.” È un riferimento a Wilhelm Reich, medico psichiatra che ha messo in correlazione il fascismo con la repressione sessuale. Mi parli di quest’aspetto?
Un vecchio adagio dice che il corpo è lo specchio dell’anima. Noi lo diamo per scontato, ma è vero che molti cambiamenti interiori si manifestano come prima cosa sul corpo: quando ci emozioniamo e diventiamo rossi, per esempio. Sembra scontato, ma non lo è.
Marco intraprende la sua ricerca perché all’inizio del libro comincia a soffrire di attacchi di panico. Quello è l’innesco: una reazione chimica. La stessa che poco dopo, quando la cuginetta legge una poesia di Ungaretti, gli farà venire l’orticaria. È il segnale di qualcosa. E Marco chiederà allora al suo psicoterapeuta, Lipari, se deve assumere antistaminici per leggere Ungaretti. Poi alla fine del libro si scoprirà quale nervo ha toccato quella poesia.
E il corpo non è solo un modo per indagare il proprio disagio, ma anche uno strumento per conoscere il mondo. Per questo fa paura al potere.
Prima mi parlavi dell’importanza dei nomi, che in questo romanzo sembrano legati al destino, o alle “sincronie”, come le chiamava Jung. Marco Petrovici si sente segnato fin dal nome che porta: “la guerra e le migrazioni, i grandi eventi che sconvolgono le vite di tutti, ferite che si tramandano di generazione in generazione come i nomi che vengono dati ai figli.” Che importanza hanno i nomi?
Poco fa dicevo che il nome è quella cosa scelta da altri che ti porti dietro per sempre. Le riflessioni nascono da qui. Gli altri che scelgono il nome sono spesso le persone che ti crescono, ma non è sempre vero: è il caso della capostipite dei Petrovici, Addolorata, il cui nome viene scelto da un funzionario perché lei è una trovatella.
Sono convinto che il nome assuma le frustrazioni, le aspirazioni, le ambizioni, le speranze di chi l’ha scelto per te, oppure della persona a cui il nome apparteneva, nonostante quella persona non esista più. Pensa a chi porta il nome di familiari morti. Queste persone crescono col fantasma della persona di cui portano il nome.
Si racconta che uno dei traumi di Van Gogh sia proprio entrare al cimitero e scoprire una tomba col suo nome e cognome: era quella del fratello, morto l’anno prima che lui nascesse. Lui scopre di aver rilevato il nome vacante del fratello morto e, secondo alcuni, questo avrà addirittura un ruolo nell’esordio della schizofrenia.
Parliamo di guardare le vite degli altri, un aspetto che mi sembra abbia un ruolo nella tua scrittura. A un certo punto scrivi: “Non trovo casuale che tutte le volte che noi Petrovici siamo stati felici eravamo seduti davanti a una finestra.” A me è venuto in mente un tuo post su Instagram in cui dici: “Guardare le feste da lontano, spiare la gioia, immaginare il desiderio degli altri, chi ama la letteratura ama anche il buio dietro le apparenze luminose”.
Nelle prime righe cito Osip Mandel’štam che, in una lettera a Nadja, sua moglie, le dice che uno scrittore come prima cosa deve avere una finestra, poi tutto il resto. Anche io credo che senza una finestra, uno scrittore vada poco lontano.
Gli animali e l’ambiente risuonano nei personaggi di Malbianco. C’è un bosco che è a pieno titolo un protagonista di questa storia, c’è una compassione profonda del protagonista nei confronti degli asini. Mi viene in mente quell’immagine bellissima: “C’è una differenza tra un uomo che muore e un albero che muore. Gli uomini cadono a terra, mentre alcuni alberi, pur senza radici e con i rami di carbone, restano ammutoliti, inerti”. È la Puglia che ti fa quest’effetto?
Sicuramente nei romanzi di ambientazione metropolitana, come Candore o Vita precaria e amore eterno, la città e la mondanità si prendono buona parte dello spazio. In Puglia è diverso. Io sono cresciuto davanti a un bosco. Per entrarci bastava scavalcare dei muretti a secco, dei muretti molto bassi. E lì vivevano un sacco di asini selvatici. E nonostante mi dicessero di stare attento agli asini, perché quelli possono ucciderti con un calcio, l’asino era l’unico animale di cui non avevo paura. Temevo i cani, temevo i lupi, temevo anche, non so, che ci fossero dei tassi feroci… Ma gli asini no.
Poi, studiando, mi sono molto legato a questa figura, che nel mio paese, Martina Franca, è proprio un mito. C’è un libro di Giuseppe Tamburrino, quasi introvabile, che è proprio sull’asino di Martina Franca e sull’asino di Pantelleria.
L’asino di Martina Franca è un asino da soma che è stato usato persino nelle campagne coloniali africane. C’è poi una distinzione tra mulo, asino e bardotto che racconto nel libro, ma che non sto qui a spiegare. Pare comunque che l’asino di Martina Franca sia il protagonista del racconto di Vasilij Grossman, La strada, che racconta di questo mulo, mulo Giù, che segue l’esercito italiano e finisce per perdersi nel deserto.
È un animale che mi affascina, il primo animale che ci ha permesso di muoverci, di trasportare cose. Non è un caso forse che l’unico animale che nella Bibbia parla sia un asino. Nella cultura ebraica l’asino è simbolo di sapienza. Noi ce ne serviamo, li insultiamo, invece l’asino è una figura simbolica formidabile.
C’è un asino anche in copertina. Ci sono un uomo e un asino che si allontanano da un albero che proietta un’ombra che assomiglia a delle radici in questo paesaggio completamente imbiancato dalla neve. Questo è uno di quei casi in cui la copertina è uguale al libro.
A un certo punto uno dei tuoi personaggi dice che Taranto è “la città dei due mari e di Raffaele Carrieri”, un autore che ami e che citi spesso. Carrieri ha lasciato Taranto giovanissimo per vivere di lavori occasionali nei Balcani, poi viene ferito a Fiume, si imbarca su navi mercantili, vive a Parigi e descrive la vita degli artisti squattrinati nelle bellissime pagine di Fame a Montparnasse. Quanto c’è di quel vagabondare nei tuoi personaggi?
Essendo io un uomo pavido, mi ispiro a personaggi che pavidi non sono stati e che anzi si sono buttati nella mischia. Non condivido tutto di Carrieri, ovviamente. Il passaggio a Fiume per esempio non mi rende entusiasta. Eppure capisco quel che c’era dietro, questa voglia di accumulare esperienze.
“Mi piace molto la parola constatare, che è un motto della psicologia transgenerazionale. Constatare libera, perché ti indica dove c’è un conflitto che non è stato superato e come lo si può superare, come si può procedere”.
Di Carrieri mi ha sempre affascinato la biografia. Poi ho scoperto che, a detta del suo più importante critico, Giuliano Gramigna, c’è tanto di romanzesco in quello che Carrieri racconta. Carrieri in una poesia sostiene di essere stato marinaio, re in Egitto per un giorno… Insomma, dice di essere stato un po’ di tutto. Ma forse era solo il frutto di una fervida fantasia, quindi questi racconti vanno presi per quello che sono: versi di un poeta sublime, molto più vicini all’invenzione che alla realtà. È vero invece che è stato amico di Picasso e che quell’esperienza a Parigi gli ha permesso di diventare famoso come critico d’arte, più che come poeta. Secondo me immeritatamente perché è un poeta straordinario.
Torniamo agli inizi. Arrivi a Roma nel 2003, se non sbaglio, e inizi a lavorare per «Nuovi Argomenti», all’epoca diretta da Enzo Siciliano. In passato, hai parlato di quell’esperienza come degli anni più felici della tua vita. C’è qualche ricordo in particolare che ti va di condividere?
Io sono imbiancato, sono un po’ obsoleto, diciamo. Sono cresciuto in un mondo editoriale in cui l’esperienza delle riviste stava finendo, almeno così come la conoscevamo. Era una fase di passaggio. Quello però lo ricordo come un momento di grande entusiasmo. Io poi venivo dalla provincia, per me «Nuovi Argomenti» era un mito e sognavo di lavorarci un giorno perché era la rivista in cui scrivevano i miei scrittori di riferimento. Così vado da Enzo Siciliano e gli dico questo, che il mio sogno era lavorare lì. Allora diventai segretario di redazione e facevo un po’ di tutto, dalla correzione di bozze all’impaginazione. Quello che pochi dicono è che era praticamente un’attività di beneficenza, nel senso che per mantenermi la sera dovevo lavorare in un locale a San Lorenzo.
Ricordo molti dei miei compagni di strada: c’era Nicola Lagioia ad esempio, che contemporaneamente lavorava per «Lo Straniero» e Minimum Fax; Alessandro Leogrande, che non c’è più, che era segretario di redazione della rivista di Goffredo Fofi. Alessandro è stato un punto di riferimento per tutti. Poi devo molto anche ad Antonio Franchini, che all’epoca lavorava in Mondadori e che ha intuito che la rivista (stampata da Mondadori, appunto) era una fucina, uno spazio in cui scoprire nuove voci, testare scrittori delle nuove generazioni. In quegli anni hanno esordito: Alessandro Piperno, Paolo Giordano, Roberto Saviano, Chiara Valerio. Alcuni dei loro primi pezzi apparvero su «Nuovi Argomenti». E parteciparono con altri giovani ventenni e trentenni di allora a quell’avventura editoriale.
Insomma, «Nuovi Argomenti» e «Lo Straniero» furono un punto di riferimento per quella generazione di scrittori, quella che oggi ha quasi cinquant’anni. Sembrava quasi di vivere tra due mondi: uno che senti che sta finendo e un altro che non sai cos’è. Questo ci rendeva in qualche modo testimoni di quel mondo che stava scomparendo; quello dei dibattiti, delle riviste cartacee dove i tempi erano molto più lunghi e spesso quando usciva una risposta a un tema caldo del momento con un questionario, la pubblicazione avveniva anche a un anno di distanza. Siamo nati analogici e moriremo digitali, forse.
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