Fare i conti col colonialismo (e con le sue immagini). Intervista a Maaza Mengiste - Lucy
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Eloisa Morra

Fare i conti col colonialismo (e con le sue immagini). Intervista a Maaza Mengiste

Maaza Mengiste è tra le scrittrici che più hanno approfondito il passato coloniale etiope. A rendere particolari i suoi romanzi è però l’angolatura che, a partire dalle foto d’archivio, riflette sul potere che attribuiamo alle immagini.

Ho intervistato Maaza Mengiste in occasione dell’ultima edizione di Festivaletteratura (Mantova). Il titolo dell’incontro era significativo: Il passato non è passato. A partire dal suo romanzo Il Re ombra (Einaudi, 2021, traduzione di Anna Nadotti) e dal romanzo di Saba Anglana, La signora meraviglia (Sellerio, 2024), abbiamo discusso in una sala gremita di memorie coloniali passate e presenti, di memoria e resistenza, di cittadinanza. All’ultima domanda — cosa possiamo imparare dal passato — Mengiste aveva risposto con un appassionato monologo (“Dobbiamo continuare a raccontarci, a scambiarci i nostri ricordi, su questo dobbiamo insistere oggi”), che si era concluso con applausi a scena aperta. 

Mengiste è nata a Addis Abeba nel 1971, ma si è trasferita negli Stati Uniti da bambina, per sfuggire alle ripercussioni del colpo di stato di Hailè Mariàm Menghistu sulla sua famiglia. Al momento vive a New York, dove insegna scrittura creativa e traduzione al Queens College. Nel 2020 il suo secondo romanzo, Il Re ombra, è stato candidato al Booker Prize, ricevendo numerosi altri riconoscimenti (tra cui il Premio Von Rezzori e il Premio The Bridge, che ne ha reso possibile la traduzione italiana) e altre traduzioni in tutto il mondo. In un raccolto plurale, Mengiste narra la resistenza etiope dal punto di vista delle donne. Al centro del racconto è infatti la figura di Hirut, che da ragazzina di umili origini oggetto della violenza maschile diviene uno dei membri più attivi e rispettati della resistenza etiope, ottenendo il riconoscimento retrospettivo di Hailé Selassié. Attorno a lei ruota una galassia di voci e personaggi che costituiscono un’architettura narrativa complessa e affascinante. 

Il racconto corale della resistenza si alterna all’avanzata coloniale fascista letta da un’angolatura particolare, quella del fotografo che accompagna una delle spedizioni, Ettore Navarra, che (per una serie di ragioni che non anticipiamo) è uno spettatore-attore.  Dall’essere  “un archivista di oscenità, un collezionista di terrore” passerà a obbedire agli ordini con sempre maggiori difficoltà. Il rapporto che intreccia storia, memoria e fotografia è al centro della nostra seconda conversazione, su Zoom.

Il tuo romanzo è ambientato nell’Etiopia tra il 1933 e il 1935, uno dei periodi più bui della storia coloniale italiana.  In Italia si fa ancora fatica a fare i conti col colonialismo, tanto nei programmi scolastici (anche se per fortuna, soprattutto negli ultimi anni, molto si sta muovendo) quanto nel discorso pubblico. Ma come viene raccontato, insegnato tutto questo in Etiopia?

Credo che la situazione stia gradualmente cambiando, almeno in Italia: ho fiducia nella nuova generazione. Il confronto con l’Italia, sia il primo alla fine dell’Ottocento che quello del 1935, ha contribuito a fare dell’Etiopia un luogo, un Paese a cui gli altri africani e gli altri afroamericani potevano guardare con orgoglio. Ha aiutato gli etiopi a trovare un modo per definirsi: il popolo che doveva essere conquistato e che invece non lo fu. Il popolo che era indipendente. Ha stabilito un modo di pensare al paese e al popolo, e io sono cresciuta con parte di quella retorica, di quella leggenda, di quei miti. Ma c’era qualcosa di quel mito che era stato dimenticato, la presenza delle donne nella resistenza.

Nella nostra precedente conversazione raccontavi che la presenza di tua nonna, i suoi ricordi hanno avuto un ruolo molto importante nello sviluppo del Re ombra. Quali altre letture e testimonianze hanno orientato la ricerca? 

Innanzitutto ho analizzato le testimonianze di ex soldati etiopi, uomini e donne, che facevano parte della resistenza. Si trattava di interviste fatte prima della loro morte, quindi qualche decennio fa. Ho parlato con i membri delle loro famiglie ma anche con le persone che mi capitava di incontrare, chiedendogli quali fossero i loro ricordi, le loro storie familiari. Ho visitato le regioni di cui parlo nel libro e anche lì ho a lungo parlato con la gente del posto. Così ho avuto a disposizione, in particolare in Etiopia, molti racconti orali, ma anche libri di storia più moderni, più contemporanei, scritti da storici etiopi. Per cercare di capire, credo, di avere un senso più ampio di quella guerra, ho letto molti storici italiani. Ho vissuto a Roma per quasi un anno, facendo ricerche, lavorando negli archivi fascisti, leggendo giornali e riviste dell’epoca, parlando con italiani che avevano ricordi di parenti che si trovavano in Etiopia. Quindi ho fatto anche molto di quel lavoro. Poi ho iniziato a guardare le fotografie e a cercare di combinare quello che avevo letto e sentito con quello che vedevo in quelle fotografie.

Le fotografie sono decisive nel romanzo, sia perché si apre e chiude con due ritratti molto suggestivi (che, mi raccontavi a Mantova, hai però trovato a stesura già avviata) sia dal punto di vista della struttura: ci sono intere sezioni del romanzo in cui la voce narrante pare descrivere una specifica testimonianza visiva. Qual è il tuo rapporto con la fotografia? Sono traduzioni di testimonianze visive reali o una rielaborazione narrativa di foto diverse, o immaginarie?

Per quanto riguarda le fotografie, la maggior parte di quelle che ho descritto esistono e le ho viste. Se non le ho nella mia collezione, le ho viste da qualche parte. Alcune, credo almeno una o due fotografie, le avevo viste molti, molti, molti anni fa in un libro di Silvana Palma, che si occupava di fotografia durante l’epoca coloniale. Ma la maggior parte di queste immagini le avevo nella mia collezione, o le avevo viste. Ed è interessante, perché non ho nemmeno scelto le immagini peggiori. Ho selezionato le fotografie con le quali potevo convivere, pensare e immaginare per poterle descrivere. C’erano altre fotografie che non erano troppo orribili.

Si, c’è un limite che non può essere superato. Come descriveresti il rapporto (in questo libro specifico, ma anche in quello precedente) tra il visivo e la memoria?

Sì, credo che, in termini di fotografie, le abbia trovate molto interessanti. Ho trovato le fotografie che i soldati facevano mentre erano in Etiopia, gli album che costruivano e organizzavano, davvero un’affascinante considerazione della connessione tra il visivo e la violenza, o il visivo e la memoria. Gli album che ho, come questi soldati li hanno conservati, e li hanno realizzati dopo il loro ritorno in Italia, mi sono sembrati un modo per organizzare la memoria, un modo per riorganizzare il loro senso di sé in Africa, in modo da potersi immaginare come qualcuno di diverso da quello che erano in realtà. Gli album tendevano a tralasciare la violenza. Tendevano a mostrare le amicizie, il cameratismo tra i soldati italiani. Mostravano i momenti di relax e lasciavano fuori tutto il resto. Trovo che questa connessione tra immagini e memoria sia molto interessante, perché si trattava di “ricordi selezionati”. Quegli album erano quasi come una passeggiata in un museo, con una serie di immagini disposte con grande cura. È quello che riuscivano a ricordare, quello che volevano portare a casa con loro. I ricordi che avevano dentro, credo, erano un’altra cosa.

Anni fa ho co-curato una mostra in cui erano esposti alcuni di quegli album: cercavano di raccontare l’oppressione coloniale come un’avventura alla Salgari, cancellando tutto il resto. Ma tutta la violenza messa al di fuori delle cornici degli album riemergeva nei ritratti delle donne africane: quella sezione mi è venuta in mente mentre leggevo una scena del romanzo, in cui il capitano Fucelli mostra al fotografo Navarra alcune di quelle cartoline. Fai spesso riferimento a questa specifica tradizione visiva, ma d’altra parte, attraverso il personaggio di Hirut, riesci a raccontare la storia dalla parte delle donne, creando una sorta di contrappunto. Cosa ha comportato questa scelta, sia a livello tematico che strutturale? 

Credo che sia una delle cose che ho dovuto capire per scrivere il suo personaggio, e scriverlo come un personaggio che viene fotografato nel modo in cui molti di questi fotografi italiani hanno fotografato le donne africane, le donne dell’Africa orientale. Ho dovuto capire che quell’immagine di donna in una fotografia di sfruttamento è spesso un camuffamento per altri tipi di violenze che avvengono nello stesso momento. La donna è un codice per la violenza militare che si sta verificando in quell’area. Per scrivere dell’umiliazione di Hirut, dovevo capire che c’è un potere militare che sostiene l’umiliazione sessuale di donne e ragazze. Non è affatto una cosa scollegata, ma piuttosto intrecciata. Per fare di lei un soldato, perché lei è un soldato, capisce che il suo corpo viene sfruttato come donna, ma anche come territorio da conquistare per i fascisti. Come segnale agli uomini etiopi di un altro modo in cui stanno prendendo ciò che non è loro.

In effetti, proprio ora mi viene in mente una scena molto forte in cui Hirut continua a ripetere la parola wujihra (fucile), un oggetto che nel romanzo ha un altissimo valore simbolico. In un certo senso, Hirut ha interiorizzato questa connessione tra il proprio corpo e la nozione di questo linguaggio militare. 

Sì, assolutamente. Gli album che ho e che ritraggono donne e ragazze in queste pose di sfruttamento, alcuni di questi album riportano i luoghi in cui sono state scattate le fotografie. Quando guardo il luogo, mi rendo conto che il soldato si trovava in un’area dove c’era uno dei luoghi di esecuzione, uno dei campi di concentramento. Il soldato non può fotografare la violenza vera e propria, la prigione, le esecuzioni, le uccisioni, ma può fotografare ripetutamente le donne di quel villaggio. Vedo la connessione tra la terra e il corpo, la donna e la prigione, il potere militare e lo sfruttamento sessuale. Ho un album che è molto particolare in questo senso: quasi ogni fotografia di una donna o di una ragazza ha una data, ma anche un luogo. Quando ho messo la data e il luogo su una mappa, ho capito che quei luoghi erano campi di concentramento. Ma non ci sono fotografie di prigioni o altro, ci sono solo donne. Allora ho capito che c’era qualcosa che andava indagato, che non era ancora stato raccontato. Il mio obiettivo era cercare di trasmettere questo legame attraverso il personaggio di Hirut.

Allo stesso tempo, Il re Ombra è un romanzo corale: ci sono molti altri personaggi, molti toni di voce. Come sei riuscita a armonizzare questi diversi livelli, diversi toni, il lirico e  l’epico?

In realtà credo che l’epica e la lirica siano molto legate tra loro. L’una mi è sembrata una parte dell’altra. Pensavo alla poesia epica dei greci, alle tragedie greche, ma anche alle opere liriche che vediamo in scena. Pensavo al libro come a una composizione musicale, ma anche come a un poema epico.  In parte fa anche riferimento al modo in cui i griot etiopi, i trovatori etiopi, hanno lavorato. La poesia che è collegata alla musica, che è collegata a un fatto storico della zona, della regione, del villaggio, delle persone che fanno parte di questa comunità in cui vivono i griot. Stavo pensando proprio a questo. L’epicità, il modo in cui la gente di un villaggio può diventare mito attraverso le canzoni che questi griot, gli Asmari, cantano. In questo modo, si crea una memoria collettiva. Questi strati sono così strettamente collegati tra loro che mi è sembrato che fossero un tutt’uno.

“Il racconto corale della resistenza si alterna all’avanzata coloniale fascista letta da un’angolatura particolare, quella del fotografo che accompagna una delle spedizioni, Ettore Navarra, che (per una serie di ragioni che non anticipiamo) è uno spettatore-attore”.

Forse è anche questa modalità, all’incrocio tra l’opera e i racconti dei cantastorie, a rendere il libro estremamente vivo e apprezzato da lettori anche molto diversi tra loro. A proposito, i tuoi romanzi sono stati tradotti in molte lingue. Come sono stati accolti? C’è stato un episodio, sia in termini di traduzione che di ricezione, che ti ha colpita in modo particolare?

Sì, Il Re ombra è stato tradotto in diverse lingue. Ho lavorato a stretto contatto con la mia traduttrice italiana in Einaudi, Anna Nadotti. Anche il mio primo libro sta per essere ripubblicato da Einaudi con la traduzione di Anna, in primavera. Abbiamo parlato più volte di  come tradurlo in un italiano che si adatti al mio inglese, che si adatti alla cultura, ed è stato per me un immenso piacere e un onore lavorare con Anna. Voglio dire, è fantastica.

Si, magnifica traduttrice.

Ma credo che anche le altre traduzioni che ho avuto siano state davvero illuminanti, è sempre affascinante vedere il modo in cui il libro si muove attraverso le diverse lingue. Le conversazioni col mio traduttore giapponese, che lavora con parole molto specifiche, sono state di tipo diverso da quelle col mio traduttore tedesco. Ma ho avuto un’esperienza piuttosto interessante con i traduttori tedeschi, perché alcuni dei miei personaggi italiani chiamavano gli etiopi con un termine dispregiativo. È un termine che veniva usato durante l’epoca fascista, è “indigeno”. Così uno dei due traduttori ha detto: “C’è un termine nazista che potremmo usare per esprimere la gravità di questo termine”. E l’altro traduttore invece ha risposto: “Non userò quel termine in questo libro”. E così hanno iniziato una lunga discussione. Io non ne sapevo nulla; credo che alla fine abbiano deciso di inserirlo, ma è stata una scelta controversa. E quindi il modo in cui il libro viaggia attraverso le culture e le lingue, ma anche attraverso le diverse guerre, è affascinante per me. Quindi sto ancora imparando molto su questi aspetti mentre il libro continua a essere tradotto.

Un’altra nozione che sottotraccia riemerge nel libro è quella di identità. I personaggi principali — penso a Hirut ma anche a Aster —  si evolvono di continuo, mettendo in discussione le aspettative sociali e la loro stessa origine. In questo momento, negli Stati Uniti ma anche in Italia, c’è un tornare costante sulla nozione di identità, ma in chiave diversa. Mi viene in mente una dichiarazione molto dibattuta che Zadie Smith fece anni fa, che si concludeva così: “The strange thing to me is the assumption [of white people] that their identity is the right to freedom”(La cosa strana per me è l’assunto[da parte delle persone bianche] che la loro identità sia il diritto alla libertà).

E un passo assai citato del suo On Beauty: “Stop worrying about your identity and concern yourself with the people you care about, ideas that matter to you, beliefs you can stand by, tickets you can run on. Intelligent humans make those choices with their brain and hearts and they make them alone. […] But that’s the deal: you have to live; you can’t live by slogans, dead ideas, clichés, or national flags. Finding an identity is easy. It’s the easy way out”(Smetti di preoccuparti della tua identità e concentrati sulle persone a cui tieni, sulle idee che per te contano, sulle convinzioni che puoi sostenere, sui programmi su cui puoi correre. Gli esseri umani intelligenti fanno queste scelte con il cervello e il cuore, e le fanno da soli. […] Ma questo è il punto: devi vivere; non puoi vivere di slogan, di idee morte, di cliché o di bandiere nazionali. Trovare un’identità è facile. È la via di fuga più semplice).

Pensi che continuare a riflettere sull’identità possa far avanzare il dibattito o che possa avere ricadute negative? 

Beh, credo di avere due idee al riguardo. Penso che quando parliamo di identità, parte di ciò che intendiamo è la razza. E penso che quando parliamo di razza, non abbiamo mai affrontato il tema della bianchezza come razza. Sembra che i bianchi non abbiano una razza. E tutti gli altri sono razzializzati. A me interessa di più che i bianchi spieghino la loro bianchezza. E come ci si sente a muoversi nel mondo. Io so come mi sento, ma non so, voglio sapere come si sentono loro. Ed è anche, credo, interessante specialmente per me, essendo stata in Italia e parlando con amici italiani, pensare a come l’identità italiana sia stata formata e forzata.

Certamente, c’è una specie di elefante nella stanza. Anche per questo rivendicare l’identità come una sorta di entità immutabile può essere negativo — Basti pensare ai toni del dibattito politico italiano, al riemergere di termini sepolti da decenni e volti, di fatto, a legittimare un’“italianità” di matrice fascista.

Sì, e anche per questo penso che da parte mia non so più come rispondere alle domande. Mi sembra che stiamo vivendo in un’epoca in cui si parla tanto di identità e questo non è necessariamente d’aiuto. Ci stiamo muovendo verso un maggiore autoritarismo, una maggiore restrizione dei diritti e, credo, maggiori divisioni. E in questo momento non so proprio cosa dire al riguardo: questo è ciò di cui abbiamo parlato io e i miei amici.

Fare i conti col colonialismo (e con le sue immagini). Intervista a Maaza Mengiste -

Sì, tanto più si inizia a viaggiare molto quanto più ci si rende conto di quanto questa nozione, se intesa in senso immutabile, non sia poi così utile. Ti muovi tra più lingue e culture, ma sei di madrelingua inglese, che è notoriamente molto flessibile. Come ti sei orientata nella stesura riguardo all’inserimento di termini provenienti da altre lingue?

Sì, ho frequentato le scuole britanniche in Kenya e poi sono arrivata negli Stati Uniti. L’inglese è sempre stata anche la mia lingua, non ho avuto alcuna difficoltà a rivendicarlo e mi sento molto, molto a mio agio… O forse no, in realtà, non so, non è sempre così. In realtà, sai, con alcune parole che non sono facilmente traducibili dall’amarico all’inglese — nomi di oggetti, ad esempio — è stato molto più facile mantenerli così come sono. Per quanto riguarda i personaggi italiani nel romanzo, non so quando risultasse più naturale per loro dire qualcosa in italiano, ma per la maggior parte del tempo non volevo imporre alcun tipo di esotismo nella storia. Non avevo bisogno di farla sembrare “più africana” mettendo più parole in amarico o di farla sembrare più esotica usando più termini italiani. Voglio dire, se mi sembrava naturale, allora l’ho fatto, ma non volevo forzare la mano. Perché scrivo in inglese, ma sono in grado di intrecciare diverse lingue e volevo che il libro lo riflettesse, ma  in modo naturale.

Last but not least, a cosa stai lavorando al momento?

Mengiste: Oh, sto lentamente passando a qualcos’altro, sì (sorride) ma non posso ancora parlarne.

Eloisa Morra

Eloisa Morra è professoressa di Letteratura Italiana contemporanea all’Università di Toronto. Il suo ultimo lavoro si intitola: Poetiche della visibilità. Percorsi fra testo e immagine nella letteratura italiana del Novecento (Carocci, 2023).

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