Goliarda Sapienza ci insegna ancora a non confondere la sofferenza con l'amore - Lucy
articolo

Antonella Lattanzi

Goliarda Sapienza ci insegna ancora a non confondere la sofferenza con l’amore

14 Giugno 2024

Cento anni fa nasceva Goliarda Sapienza, scrittrice meravigliosa, ignorata in vita e riscoperta solo dopo la morte. Il suo romanzo più famoso, "L'arte della gioia", è un invito a conquistarsi la libertà e il piacere – e a difenderli strenuamente.

C’è una cucina barese, le mattonelle blu come il mare, che ho sempre amato – il mare, è scontato, ma anche le mattonelle, pure se sono le stesse da quando sono nata, e col tempo, a una a una, si sono sbrecciate o spezzate e a volte saltano via. C’è una cucina barese in un quartiere di periferia, la cucina si affaccia su un balcone, dal balcone si vedono delle case popolari. Quando c’è bel tempo, oltre i palazzi, c’è una strisciolina di mare. Infima, ma tanto basta per rassicurarsi, per sapere che c’è. Sotto il balcone, giù, c’è un cortile ma non ci interessa, scostiamo la tenda bianca del balcone, torniamo dentro, nella cucina dalle mattonelle blu e i muri bianchi dove non si vede un elettrodomestico neanche a pagarlo – tranne i piani di cottura, il forno e la lavatrice – e dove noi figlie fantasticheremo per sempre di lavastoviglie, friggitrici ad aria, asciugatrici, Bimby per cucinare tutto, che non arriveranno mai. Spinto verso il balcone perché quando si mangia arrivi più luce, c’è un tavolo per quattro, tondo, color legno scuro.

Mio padre, in piedi davanti al lavandino, sta aprendo i frutti di mare perché sa che mi piacciono, io, su quel tavolo, sto leggendo L’arte della gioia di Goliarda Sapienza. Mi ha sedotto dal titolo. Mi ha detto dalla prime pagine che la gioia non è una cosa facile. La gioia, mi ha detto, è un’arte che sa nascondersi molto bene, sotterrarsi, va scovata con tutti i mezzi possibili, coltivata, difesa anche con crudeltà: non va mai data per scontata. La gioia, mi ha detto, non è un diritto né un sentimento né qualcosa che accade. È un fatto che, se lo vuoi, devi farlo tu, un fatto tangibile a metà tra la costruzione metodica e cocciuta di qualcosa di solido ma cangiante, e l’arte, tramandata nei secoli o imparata in fretta per necessità, di saperlo costruire questo fatto tangibile, di sapere come manutenerlo; di essere pronti a tutto, ma a tutto veramente, pur di custodirlo.

Qua, a casa mia, nell’arte della gioia siamo negati.

Dolore, umiliazione, paura sono sentimenti buoni. Ti sacrifichi e sei felice. Sei triste e sei felice. Lo so da che sono nata. Poi sul tavolo, nel libro, leggo: “Allora il dolore, l’umiliazione, la paura non erano, come dicevano, una fonte di purificazione e beatitudine. Erano ladri viscidi che di notte, approfittando del sonno, scivolavano al capezzale per rubarti la gioia di essere viva”. Leggo di Modesta, nata per essere povera, triste, e forse anche morta, che ha buttato il senso di colpa in un pozzo senza fondo e si batte con tutte le forze, si ingegna con tutta l’intelligenza che ha, per essere felice. Non sempre ci riesce. Ma neppure quelli che pensano che il sacrificio sia il senso della vita riescono a sacrificarsi sempre. La vita è così.

“Mi ha detto dalla prime pagine che la gioia non è una cosa facile. La gioia, mi ha detto, è un’arte che sa nascondersi molto bene, sotterrarsi, va scovata con tutti i mezzi possibili, coltivata, difesa anche con crudeltà”.

In questo centenario dalla nascita, di Goliarda Sapienza, nata a Catania e morta a Gaeta nel 1996, all’improvviso, ultima di dieci figli, donna irriverente che non ha mai visto il suo capolavoro pubblicato – come l’amato Beppe Fenoglio, il cui Una questione privata uscì due mesi dopo la morte – vorrei parlare come di un’amica, perché lo è; ma per me anche un mistero, e pure un’epifania. Goliarda veniva da una famiglia libera e molto politicizzata, è sempre stata una donna ribelle, che non le mandava a dire, molto felice e molto triste, fino alla depressione, ha amato per quasi vent’anni il regista Citto Maselli per il quale è stata attrice, sceneggiatrice, assistente alla regia e molto altro. È Citto che l’ha convinta a scrivere, a partire da una sua poesia sulla morte della madre. Le ha detto lascia tutto e scrivi. E lei ha scritto. Autobiografie, poesie, teatro, racconti, taccuini, epistolari. E il romanzo. L’arte della gioia. Di cui sappiamo dall’uomo che poi Goliarda ha sposato, Angelo Pellegrino, che è stato terminato nel 1976, rifiutato dagli editori per vent’anni (come, tra i tanti, Moby Dick di Melville, La campana di vetro di Sylvia Plath, Sotto il vulcano di Lowry), e conservato in una cassapanca sperando in una pubblicazione; fino a quando Goliarda è morta. 

Due anni dopo, la prima stampa, a spese di Pellegrino, nel 2003 una seconda, quindi il trionfo in Francia. Ecco per quali vie questo romanzo che è un po’ l’enciclopedia di un mondo – quello dell’intero secolo del Novecento – come Moby Dick lo è per il proprio, questo romanzo che contiene un atto di ribellione in ogni parola e a cui non importa nulla della buona creanza, del benpensare, questo romanzo che è una sinfonia ma pure un libro dissonante e che sfida la prima e la terza persona scambiandole di posto come se l’autrice non se ne accorgesse, come se buttasse l’io e il lei sulla pagina senza dargli alcun peso, ecco come questo romanzo sensualissimo è riuscito ad arrivare oggi da noi.

Da me, anzi. Sul tavolo rotondo, color legno scuro, della cucina blu in cui sono nata. È il 15 agosto e io leggo; mio padre poco distante apre le cozze. Le pagine volano. Sono tornata a Bari per l’estate. A Roma, dove vivo da poco, non è rimasto nessuno che conosco. Io non ho nemmeno una vera casa ad aspettarmi, ma il letto di un’amica. Non mi manca Roma, ma questa casa mi mangia. Ladri viscidi, anche di giorno, approfittano di me, mi rubano la gioia di essere viva.

Ho sempre pensato che fosse la mia missione. La missione di tutti, in questa famiglia. Forse la missione dell’essere umano. Soffrire, per amore di coloro che ami. Soffrire per dimostrare l’amore. Soffrire non per dimostrare agli altri che li ami, o almeno non solo; soffrire per dimostrare a te stesso quanto è grande il tuo amore per quelli che ami. 

E invece arrivi tu, Modesta, e d’improvviso mi viene molto caldo.

Modesta mi compare “a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso”, trascina un pezzo di legno immenso. Arriva a casa e sua madre “con gli occhi dilatati dal silenzio cuce in un cantone”. Io la conosco questa madre, questa dilatazione perpetua. E poi arriva ancora, Modesta, da me, col suo calore che la infuoca mentre si tocca e il suo “godimento” è “più grande che a mangiare il pane fresco”. Il suo corpo di donna non ha paura di raccontarsi. La sua scrittrice, Goliarda Sapienza, non ha paura di scriverla.

Modesta arriva e irrompe in un mondo letterario che non è preparato al fatto che le donne si masturbino, che possano desiderare altre donne, che possano desiderare gli uomini e le donne. Che non piangano quando le sorelle e le madri muoiono. Che, per essere felici, uccidano. Il mondo letterario, ho detto.

Perché poi, cos’è cambiato? Modesta arriva ed è intelligente, bella, e povera, e poi non è più povera, perché è intelligente, sì, certo, ma di più perché vuole essere gioiosa. Aspetta un figlio ed è piena e euforica, ma mentre quel figlio nasce mi sembra di leggere Anna Karenina, il passo in cui un figlio appena nato, urlante, sembra a suo padre nient’altro che un estraneo. Un nemico. Qualcuno venuto da chissà dove per chissà quale motivo. Modesta è in travaglio e il corpo suo e di suo figlio lottano uno contro l’altro, un “masso che batteva per uscire dalla prigione e vivere a costo di lacerare, distruggere il suo corpo”. Quel figlio “deciso a vivere a costo di uccidere”. E io da qualche parte sepolta di me lo sapevo che nascere era così, eppure non lo sapevo per niente.

“Modesta arriva e irrompe in un mondo letterario che non è preparato al fatto che le donne si masturbino, che possano desiderare altre donne, che possano desiderare gli uomini e le donne”.

Ho caldo, molto caldo, in questa cucina d’agosto mentre mia madre piange per amore della sua famiglia, mentre mio padre soffre per amore di sua moglie, mentre io mi preparo a soffrire, come ho sempre fatto, per amore dei miei genitori. So che devo soffrire per gli uomini e le donne che ho amato e che amerò. Perché l’amore questo fa. È giusto che porti dolore. Se no non è amore.

Ma poi, mentre nel romanzo passano gli anni, la casa pullula di ragazzi – figli di Modesta e figli adottati da lei – e sullo sfondo il Duce finisce un suo orrorifico discorso di vittoria, Joyce, amata e amante della nostra protagonista ormai da molto tempo, Joyce che Modesta vorrebbe amare liberamente, senza paura di quello che dirà la gente perché due donne si amano, e che soprattutto Modesta vorrebbe libera dal proprio senso di colpa, all’improvviso, col suo amore fatto di pianti, di vergogna, di sofferenza, la delude.

“Vieni su con me, Modesta”, la prega. 

“No!”, dice Modesta, “Comincio a capirti. Tu mi vuoi su con te per piangere, per rifiutare la gioia di quei ragazzi. Tu aspiri a una cella vera, ma io ho fame!” (mia madre non mangia, chi soffre non mangia, a mangiare si ingrassa, mangiare è un piacere come fare l’amore, come fare sesso, non se ne può abusare: la mia testa comincia a espandersi e contrarsi, come un alieno). “E dal silenzio che s’è fatto”, continua Modesta, “è chiaro che Bambolina con voce squillante ha ordinato: ‘E ora tutti a cena!’ La vedo! […] A me è indifferente quello splendore”, lo splendore della tavola apparecchiata, le lampade ad acetilene, il cristallo dei bicchieri, “ma non la gioia di luci rubate al buio, all’oscurantismo di questi nostri anni. E poi ho fame!” (fame vuol dire il sesso e il cibo, vuol dire mangiare, vuol dire rinascere, vuol dire non morire, vuol dire coltivare la spietata arte della gioia). 

Io ho caldissimo, sono affannata, e sudata, e di scatto chiudo il libro e mi alzo in piedi: io ho fame. Qui ci sono troppe persone che mi vogliono con sé per piangere e che io ho voluto con me per piangere, credendo fosse quello l’amore.

– Papà, torno a Roma, – gli dico. Faccio un respiro. – Lavoro.

E non lo guardo nemmeno, mio padre, ho così tanta fame, – Così, di colpo? – mi dice mio padre, ma io non rispondo. In meno di un paio d’ore, tra lo stupore e il dolore dei miei, sono sul treno. Ma l’arte della gioia è splendida, luminosa, e violenta.

*

Sono passati quindici anni. Ho appena riletto L’arte della gioia, la pagina finale ancora svolazza (“mi trovo a pensare bizzarramente che la morte forse non sarà che un orgasmo pieno come questo”). La cucina è ancora blu, si vede ancora una striscia piccolissima di mare. Lo so. La rivedo quasi ogni giorno nella mente. A Bari non torno quasi mai. Ma quella riga mobile di acqua salata, in lontananza, dietro le case, è sempre con me. Come potrebbe essere altrimenti. E anche le mattonelle, e il balcone.

Non sono cambiata. Spesso, lascio che l’amore mi faccia soffrire perché così mi hanno insegnato, e non riesco a strapparmi di dosso le dita secche come ramoscelli di quei fantasmi che mi arpionano e mi ripetono da quarantaquattro anni che è giusto così.

Ma poi, sempre, arriva una voce – tu mi vuoi su con te per piangere, ma io ho fame! –, mi invasa il cervello e il corpo e io, che non avrei mai saputo cos’è davvero quell’arte senza Goliarda Sapienza, senza quel libro che mi ha illuminato, senza quella frase che è la mia epifania, do fuoco al dolore. Scandisco la parola – se le pronunci, esistono – e vado a prenderla, dovunque sia: la gioia.

Antonella Lattanzi

Antonella Lattanzi è scrittrice e sceneggiatrice. Il suo ultimo libro è Cose che non si raccontano (Einaudi, 2023).

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