I soldi, per le donne, sono ancora una disgrazia - Lucy
articolo

Melissa Panarello

I soldi, per le donne, sono ancora una disgrazia

08 Marzo 2024

Il rapporto che le donne hanno con i soldi è ancora poco esplorato, per ragioni culturali, storiche e forse anche per pudore. Eppure c’è un dato che dovrebbe far riflettere: il 32% delle donne in Italia dipende economicamente da partner o familiari. Per essere indipendenti e libere dal ricatto del denaro, prima di possederne, bisogna parlarne.

L’appartamento dovevo comprarlo io, con soldi miei. 

Ben gli sta, pensai dopo che il portone in ferro lo aveva colpito alle spalle. L’agente immobiliare lanciò un lamento cupo, si toccò la scapola, poi si rivolse di nuovo a mio padre: “Sentiamoci se vuole rivedere l’appartamento”. Mio padre era di passaggio a Roma, perciò quel giorno mi aveva accompagnato a vedere una casa a San Lorenzo e per tutto il tempo l’agente si era rivolto a lui perché, immagino, non deve essere raro vedere un padre comprare casa a una figlia.

Oppure che una giovane ragazza debba investire l’eredità di qualche parente defunto. O, ancora, potevo non essere la figlia di quell’uomo di bell’aspetto, ma la sua giovane fidanzata, la sua amante, e lui stava comprando il rifugio per i nostri giochi clandestini. In ogni caso, era sicuro che i soldi fossero di un uomo.

E invece erano miei, perché avevo appena venduto il mio bell’appartamento – comprato a suo tempo con i miei denari – a cui avevo detto addio fra le lacrime, dedicandogli una brutta ma autentica poesia. 

I soldi, per le donne, sono ancora una disgrazia -

Quando ero bambina, i miei genitori ci facevano cambiare spesso casa. Ci spostavamo da un paese etneo all’altro con l’irrequietezza di chi non riesce a trovare pace in nessun luogo. Dopo un po’ succedeva sempre che si presentasse un problema: troppi fantasmi lì, troppo freddo là, troppo mutuo qui. E vagavamo, per paesini limitrofi: partendo dalle pendici dell’Etna siamo, infine, capitati sulle coste ciclopiche, a guardare un mare più selvaggio di noi. Per me la casa comprata con il mio denaro era il porto a cui approdavo dopo un’infanzia e un’adolescenza in tempesta: era il posto che avevo scelto. Ma l’avevo venduta, e stavo quindi di nuovo in alto mare.

Quello a cui mi aggrappavo, però, erano i soldi di quella vendita e con quelli avrei potuto comprare un nuovo molo, una nuova pace: ci sono ancora dentro, in un appartamento a San Lorenzo – non lo stesso che aveva provato a vendermi quell’agente immobiliare – con i soffitti che sembrano vele, un terrazzo a punta che pare la prua di una nave. Se mi chiudo dentro, il mondo non esiste più. E quindi nemmeno io. 

Dalla compravendita rimasero 14 euro e 30 centesimi perché il resto se ne andò in debiti da ripagare alle banche, allo Stato e altri animali. All’epoca fumavo, perciò festeggiai comprando due pacchetti di sigarette e una colazione molto sobria. 

Era il mio anno zero, di oltre un decennio fa. 

Per questa ragione avevo sentito così tanto fastidio durante quella visita con l’agente immobiliare: era come se io non fossi presente. Un fastidio che alla fine si era trasformato in rabbia perché lui non sapeva, e forse nemmeno mio padre si rendeva conto, di quello che per me significava essere ancora in cerca della pace, dopo aver pensato per anni di averne trovata una. Mi sentivo depredata. Del dolore per quello che avevo perso, e non solo in termini di denaro e proprietà. Soprattutto ero stata privata della possibilità di compiere una scelta. E cosa posso essere io, se non una persona che sceglie? Scegliere è più facile se hai i soldi: questo è lapalissiano. Se i soldi non li hai, o ne hai pochi o te li fai prestare, le possibilità di scelta si assottigliano, addirittura si azzerano. 

Il denaro è un ponte. Avere debiti è mantenere un legame costante con il passato. Dovere qualcosa a qualcuno significa non interrompere mai il legame e quello del denaro è il legame più crudele, perché ha a che fare, in modi più o meno evidenti, col ricatto. Dovere i soldi a qualcuno, significa che a un certo punto hai dovuto ammettere a te stessa di non avere i soldi per realizzare un desiderio o soddisfare un bisogno e hai dovuto dare a qualcun altro, spesso una persona cara come un parente o un’amica stretta, la responsabilità di farlo al posto tuo. Un prestito che, pure se fatto con amore e con tutte le buone intenzioni, non può non concepire una qualche forma di ritorno: fosse anche mostrargli come è venuto bene il bagno ristrutturato grazie a quei soldi. Una foto, un ringraziamento. Ma a volte si paga pegno con l’amore, e quella è vera disgrazia. I più autoritari ti fanno intendere, senza andarci per il sottile, che di quei soldi prestati devi rendergliene conto: come li hai spesi? Cosa ci hai fatto? Mettono bocca, talvolta: io ti ho prestato i soldi e tu ci hai dipinto una parete con quel brutto verde? Con i soldi degli altri puoi fare quello che desideri fare, ma non rimane un fatto privato, diventa di tutti, o almeno di tutti quelli che hanno contribuito. 

“E cosa posso essere io, se non una persona che sceglie? Scegliere è più facile se hai i soldi: questo è lapalissiano”.

E nei rapporti d’amore i soldi possono guastare tutto, ma solo se trovano un terreno fertile o, meglio, un terreno tossico su cui affondare le radici. Nelle storie nate già ammalate, i soldi rovinano le donne in ogni caso. Le rovinano se non li hanno e quindi devono dipendere da un uomo al punto da non poter scappare via; le rovinano poi se ne hanno abbastanza da dare la certezza che potrebbero farcela pure da sole e, invece, poi ti separi e resti col vuoto sotto perché hai voluto intraprendere la via dell’eleganza e gli hai dato pure i centrini di tua nonna; e le rovinano infine se ne hanno tantissimi, più del partner, perché come ti permetti

I soldi per le donne sono una disgrazia. Una maledizione che può condannare all’infelicità, all’insoddisfazione, che siano troppi o troppo pochi. Senza soldi non puoi andartene, non puoi dire addio per sempre a chi ti fa ogni giorno del male ma provvede al tuo nutrimento. Il tuo aguzzino, spesso, ti dà il cibo, e te lo dà perché deve mantenerti viva se vuole continuare a tenerti in ostaggio. Ma senza andare alle situazioni limite, quelle più malate, drammatiche e oscene, ci sono le relazioni consuete, quotidiane, quelle in cui se hai pochi soldi e vivi con un uomo che invece guadagna il giusto, oppure guadagna tanto, prima o poi ti farà pesare di vivere sulle sue spalle. Sarà accaduto anche a voi di sentirvi dire da un uomo: “Non sono il tuo bancomat”, oppure di ricevere consigli non richiesti su come spendi le tue risorse.

Un giorno un ex fidanzato mi prestò dei soldi perché potessi pagare degli accertamenti medici e quando più tardi tornai a casa, stanca perché avevo girato buona parte di Roma con i mezzi pubblici e andando a piedi nei lunghi tratti senza metro, mi rimproverò quella stanchezza: mi aveva prestato i soldi e io mi permettevo di essere stanca? 

In Italia solo il 58% delle donne ha un conto corrente personale, mentre il 68% si dichiara economicamente autonoma, il 32% dipende poi da partner o familiari. Questi non sono solo freddi dati, questi sono i numeri che ci raccontano la storia italiana dell’amore e delle sue storture. Perché sei fortunata se fai parte di quel 68% e 58%, ovvero lavori, fai soldi tuoi e li metti nel tuo conto. Quei soldi sono il tuo biglietto per la libertà, il viaggio da cui sempre potrai ripartire. Se i soldi non fanno la felicità, possono almeno dare la speranza di raggiungerla. E poco si sa, se non per vie del tutto informali ed empiriche, della sfrontatezza delle donne di pretendere il giusto, quello che gli spetta, di negoziare, contrattare.

Di certo sappiamo che le donne guadagnano meno degli uomini, e questo per molto tempo ci è sembrato giusto. Come ancora, appunto, ci sembra giusto che una donna metta i propri soldi nel conto corrente del marito, a volte cointestato, a volte no, come le signorine che un tempo lavoravano come commesse e segretarie e portavano i piccoli stipendi a mamma, perché una ragazza coi soldi chissà cosa può combinarci, fosse mai che le venisse in testa di diventare una viaggiatrice, una studiosa, una donna libera. 

I soldi non sono matematica, e nemmeno un fatto di addizioni e sottrazioni. Dentro i soldi ci siamo noi, quello che siamo stati e quello che siamo, e c’è amore. L’amore che diamo, l’amore che ci aspettiamo, quello che otteniamo. La generosità risiede nel cuore, e fuori dal cuore si trasforma in pecunia. Essere avari non significa necessariamente essere incapaci di amare, ma di certo ha molto a che vedere con l’incapacità di riconoscere i bisogni dell’altro. Per Elsa Morante la frase d’amore più bella era: “Hai mangiato?”, perché nel cibo risiede l’abbondanza del sentimento e del denaro. Senza una madre, un padre, una persona amata che si prende cura della tua fame e senza le risorse necessarie per ottenere quel cibo, che sia attraverso la fatica del lavoro e del corpo o attraverso i soldi – sempre ottenuti con la fatica del lavoro e del corpo –, non si dà l’amore.

Per lungo tempo il modo in cui le famiglie tradizionali sono state organizzate prevedeva ruoli molto netti: il padre usciva, andava al lavoro, guadagnava i soldi. Quel denaro andava perlopiù alla famiglia, messo nelle mani della moglie, e un po’ ne rimaneva per lui per soddisfare desideri personali – un buon sigaro, una brava prostituta, una gita con un amico, magari un libro.

La moglie amministrava dunque quel denaro destinandone una buona parte al cibo per tutti, un’altra al vestiario, poi alle spese generiche per la casa e, se era proprio brava, ne metteva un po’ da parte per il futuro dei figli o per la vecchiaia. Per sé, nulla. Il rapporto con i figli e le figlie dipendeva da quanto una madre cucinasse e provvedesse a sfamare la famiglia e quanto un padre lavorasse duramente.

I soldi, per le donne, sono ancora una disgrazia -

Con gli anni si è finalmente compreso che il nutrimento è qualcosa di più complesso, che riguarda non solo il modo in cui ci procuriamo e creiamo materia, ma la capacità di nutrire i bambini con sogni, magia, ascolto, comprensione, presenza, facendo così una fatica bestiale, perché il lavoro è doppio (non puoi smettere di cucinare né di lavorare). 

Quando ero bambina e mangiavo poco, mia madre era solita minacciarmi di pastina in bianco per tutta la vita. Da questo una brava madre si differenziava da una cattiva: quella brava si sarebbe spezzata la schiena pur di cucinare piatti gustosi e nutrienti, pure se questo avrebbe significato non avere nemmeno un momento per il gioco, per la lettura di un libro, per una passeggiata insieme; una cattiva madre stava così tanto tempo a cincischiare fra storielle e altre stupidaggini da avere giusto il tempo per un’insipida pasta in bianco. La pasta in bianco era la lettera scarlatta.

Per i padri la questione della propria paternità era più semplice e sbrigativa: mentre le madri dovevano amministrare denari, comprare e cucinare il cibo e rassettare il disordine dopo i pasti, per loro la faccenda finiva dopo che il loro dovere era compiuto. E quando il senso di colpa diventava molto grande, si regalava a tutti qualcosa: una collanina alla signora, un balocco ai bambini, uno scialle per nonna. C’erano, naturalmente, le eccezioni. C’era chi per istinto sentiva che l’amore andasse oltre il binomio soldi-cibo, ma immagino che nessuno possa negare la necessità di un terreno dove l’amore possa prosperare. Non è la quantità di denaro a fare la differenza, è chiaro, ma quanto al sicuro ciascuno riesce a sentirsi.

La sicurezza non è per tutti uguale, perché anche in questo caso un ruolo non indifferente lo ha il modo in cui siamo stati cresciuti: la storia economica e dunque sentimentale di una famiglia. Una persona che è nata in una famiglia dove il padre ha sperperato grossi patrimoni fra gioco d’azzardo e dolce vita, sentirà per sempre il peso della perdita e passerà l’esistenza a cercare di recuperare quel che per diritto di nascita avrebbe potuto avere e invece ha perso.

La fame porta ambizione, creatività, possibilità. La sazietà porta pigrizia, soddisfazione, lentezza. Sono tutti concetti, però, che abbiamo sempre pensato riferiti all’universo maschile, come se il danaro, ovvero la materia, fosse di loro esclusiva proprietà. Si è sempre temuto che le donne si sporcassero con la materia, che i soldi non potessero toccarle perché ne avrebbero insudiciato le vesti. 

“Quello a cui mi aggrappavo, però, erano i soldi di quella vendita e con quelli avrei potuto comprare un nuovo molo, una nuova pace”.

Ma le nostre gonne non sono affatto pulite, siamo sporche di sangue, di placenta, di orgasmi. Come gli uomini, le donne ballano sulla materia da milioni di anni, e la plasmano. Come per tutto quello che potrebbe donarci la libertà di essere e di splendere, fare i soldi ci è stato per molto tempo precluso.

Ci hanno insegnato a fare economia, è vero, a risparmiare. Una brava donna, a differenza di una cattiva donna, sa sempre risparmiare. Non ci hanno però detto della furia creativa che può scaturire da una femmina piena di soldi, quello che potrebbe farci, le vite che potrebbe portare in salvo, le responsabilità che saprebbe prendersi. Come il sesso, pure i soldi sono selvaggi. E come il sesso, pure i soldi creano vergogna. Perché, come con il sesso, pure con i soldi abbiamo la possibilità di essere folli, spudorate, libere. 

Non ci tocca dunque che prenderci tutto quello che è sempre stato nostro, derubate nel corpo, e nelle tasche. 

Melissa Panarello

Melissa Panarello è una scrittrice. Il suo ultimo libro è Storia dei miei soldi (Bompiani, 2024).

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