Una nuova edizione de "I viaggi di Gulliver" ci ricorda perché Swift è tra i più grandi scrittori di sempre – non solo per l’infanzia.
“Una ciurma di filibustieri viene spinta chissà dove da una burrasca, a un certo punto un mozzo dall’albero maestro avvista la terra, così sbarcano per rubare e saccheggiare; incontrano un popolo inoffensivo, vengono accolti con gentilezza, danno al paese un nuovo nome, ne prendono formalmente possesso in nome del loro re, piantano una tavola di legno marcia o una pietra come monumento, uccidono due o tre decine di nativi, ne portano via a forza una coppia come esemplari, tornano in patria e ottengono il perdono. E in tal modo ha inizio un nuovo dominio acquisito per diritto divino. Alla prima occasione vengono inviate delle navi, i nativi vengono deportati o sterminati, i loro principi torturati per scoprire dove nascondono l’oro, si dà piena licenza a sevizie e avidità, la terra s’impregna del sangue dei suoi abitanti. E l’esecrabile torma di macellai impiegata in una missione tanto pia, costituisce una colonia moderna che ha il compito di convertire e civilizzare un popolo idolatra e barbaro”.
Per dodici generazioni il romanzo da cui è tratto questo brano è stato trattato, diffuso e riassunto come un libro per bambini. Ma per avere una denuncia altrettanto dura del colonialismo europeo si sarebbe dovuto aspettare ancora mezzo secolo e passa, quando Denis Diderot scrisse quel suo Supplemento al viaggio del signor di Bougainvile (1772, ma pubblicato solo nel 1796) in cui un vecchio tahitiano si rivolge all’esploratore europeo Bougainville: “E tu, capo dei briganti che ti ubbidiscono, allontana subito il tuo vascello dalla nostra riva… Se un tahitiano sbarcasse un giorno sulle vostre coste e incidesse su una delle vostre pietre o sulla corteccia di uno dei vostri alberi: Questo paese appartiene agli abitanti di Tahiti, cosa ne penseresti? … Colui che vuoi conquistare come una bestia, il tahitiano è tuo fratello. Siete entrambi figli della natura; che diritto hai su di lui che lui non abbia su di te? Tu sei venuto; ti abbiamo forse aggredito? Abbiamo forse saccheggiato la tua nave? Ti abbiamo forse catturato ed esposto alle frecce dei nostri nemici?”
Simili nei contenuti, questi due brani sono agli antipodi nel tono e nello stile. Se il primo è sarcasmo allo stato puro (la missione pia della torma di macellai), nel secondo prevale l’indignazione. Quello che li unisce è che ambedue guardano i colonialisti europei con l’occhio dei “colonizzati”. Sono due espressioni di uno dei rari tentativi letterari di mettersi totalmente al posto dell’Altro-da-Sé (come, in misura minore, per restare nello stesso secolo, ne Le lettere persiane di Montesquieu). Solo che I viaggi di Gulliver (1726) questo sguardo lo gettano non solo sul colonialismo ma sull’umanità tutta, sull’intera (in)civiltà umana. È uno sguardo spietato, di una ferocia inaudita (dovremo capire di che natura è questa ferocia). Eppure è un romanzo che sembra segnato oggi e per sempre dal marchio della puerilità, ridotto a fiabesco infantilismo.
Sembra quasi che i reggitori del “canone” lo abbiano esiliato, escluso dalla lista del sacrosanto DEWM (Dead European White Men), e confinato nel limbo dei favolisti (Esopo, Fedro, La Fontaine, i fratelli Grimm, Andersen) per non doverci fare i conti, per evitare che la sua prospettiva dissacrante contagiasse le future generazioni. Tutt’al più è stato elogiato come precursore della fantascienza. Così sono pochissime, fuori dal mondo anglofono, le persone colte che l’hanno letto da adulte, e a nessuno di loro viene in mente di accostarlo agli altri capolavori dell’umanità, nessuno paragona Swift a Dostoevskij o a Shakespeare. Eppure Gulliver appartiene alla famiglia di Don Chisciotte e di Gregor Samsa (il protagonista de La metamorfosi, che nella più recente traduzione di Daria Biagi diventa La trasformazione) e Swift a buon diritto si situa tra Miguel de Cervantes e Franz Kafka. Ma la nuova edizione in cofanetto dei Viaggi, pubblicata da Einaudi nella nuova traduzione di Anna Nadotti e illustrata da Lorenzo Mattotti, ci permette di rimediare a questa interpretazione parziale, per la quale si è speso in passato, tra gli altri, Giorgio Manganelli.
A Brobdingnag, paese dei giganti alti 15 metri, guardando il minuscolo Gulliver, il re osservò “che l’umana grandezza doveva essere ben spregevole cosa, se insetti minuscoli come me potevano scimmiottarla”, per ribadire, dopo avere ascoltato la sua descrizione della società europea che: “da quanto ho capito dal tuo stesso resoconto, non posso fare a meno di concludere che la maggioranza dei tuoi cittadini siano la più perniciosa razza di odiosi parassiti che la natura abbia mai consentito di strisciare sulla Terra”. Colmo dello scorno, trattato come bambolino a cui viene costruita appunto una casa di bambole, a Gulliver capita di diventare il sex toy della “più avvenente tra le damigelle, una scherzosa e simpatica ragazza sui sedici anni” che se lo piazza “a cavalcioni su uno dei capezzoli, gingillandosi in vario modo, e spero che il lettore vorrà scusarmi se non indugio in particolari”.
Al contrario, quando si trova in un’isola i cui abitanti sono loro a diventare esserini di quindici centimetri, ecco i titoli del potentissimo, minuscolo imperatore di Lilliput: “delizia e terrore dell’universo, i cui domini si estendono per cinquemila blustrug (circa 12 miglia di circonferenza) fino agli estremi confini del globo; sovrano di tutti i sovrani, più alto dei figli degli uomini; che con i piedi calpesta il centro, e con la testa raggiunge il Sole; che con un cenno fa tremare le ginocchia ai principi della Terra; amabile come la primavera, magnanimo come l’estate, prospero come l’autunno, duro come l’inverno”.
Quando a Lilliput scoppia una sanguinosa guerra civile tra chi le uova vuole romperle dalla punta più piccola e chi dalla più grande, “si calcola che undicimila persone abbiano preferito morire piuttosto che sottomettersi e rompere le uova dalla punta più stretta. Su tale controversia si sono pubblicati centinaia di grossi volumi, ma i libri dei largopuntisti sono proibiti da molto tempo e i membri del loro partito sono esclusi da ogni incarico pubblico” anche se “un precetto fondamentale del grande profeta Lustrog nel capitolo LIV del Blundecral (ndA: che è il loro Corano) recita ‘Tutti i veri credenti romperanno le loro uova dalla punta opportuna’”. E poiché l’isola di fronte, Blefuscu, appoggiava gli eretici largopuntisti, sembrava che l’imperatore di Lilliput “non pensasse ad altro che a ridurre l’impero di Blefuscu a provincia e governarla tramite un viceré, annientare gli esuli largopuntisti, e obbligare quel popolo a rompere le uova dalla punta più stretta, con ciò divenendo l’unico sovrano dell’universo.”
Vediamo qui emergere le due caratteristiche dominanti nella narrazione dei Viaggi. La prima è la sfrenata fantasia delle trovate. Non solo nelle guerre di religione a causa della rottura delle uova, ma nell’inventiva che zampilla da tutta l’opera: a chi poteva venire in mente una civilissima società di cavalli (gli houyhnhnm) che fanno trainare i propri carri da umani abbrutiti e domati chiamati yahoo? E che dibattono se castrare questi yahoonon li renda più docili? Oppure, chi immaginerebbe uno scienziato, come quello incontrato nella visita all’Accademia di Laputa, che “da otto anni si dedicava a un progetto di estrazione di raggi solari dai cetrioli”? La comicità non sta solo nell’incongruenza tra il raggio luminoso e l’ortaggio, sta nel fatto che “lo scienziato lamentava le sue modeste risorse e mi pregò di dargli qualcosa come incentivo alla sua ingegnosità, tanto più che quell’anno i cetrioli erano piuttosto cari”.
La comicità più dirompente sta nel tono compunto, saggiamente dubbioso, con cui Swift spara le enormità più incredibili: non a caso è l’autore della Modesta proposta, parodia a tutt’oggi insuperata dell’inappuntabile logica degli economisti che, per assicurare la prosperità della nazione, ci suggerisce di vendere, cucinare e mangiare i bambini sotto l’anno di età. Questo tono contegnoso, tagliente come una lama affilata, è ottimamente reso e valorizzato dalla traduzione di Anna Nadotti.
Ecco perché, dopo aver raccontato di un’isola i cui abitanti sono alti quindici centimetri, di un’altra in cui sono alti quindici metri, e un luogo su cui veleggia un’isola sospesa, e infine un paese in cui la specie dominante sono saggi equini, Gulliver proclama: “in gioventù lessi con enorme piacere molti libri di viaggi; ma poiché da allora son stato in gran parte del mondo, posso smentire di persona parecchi racconti fiabeschi, per i quali provo un profondo disgusto…(perciò) mi sono imposto la ferrea regola di attenermi sempre e strettamente alla verità…” (il Settecento vide una fioritura dei libri di viaggio, basti pensare all’enorme successo dei molti volumi delle Lettere edificanti e curiose scritte dai gesuiti e pubblicate in innumerevoli edizioni: per noi, purtroppo, è ormai perduto per sempre quest’aspetto della parodia di Swift).
“La comicità più dirompente sta nel tono compunto, saggiamente dubbioso, con cui Swift spara le enormità più incredibili: non a caso è l’autore della Modesta proposta, parodia a tutt’oggi insuperata dell’inappuntabile logica degli economisti che, per assicurare la prosperità della nazione, ci suggerisce di vendere, cucinare e mangiare i bambini sotto l’anno di età”.
Perché proprio qui sta la forza di Swift, nel pronunciare serissimo affermazioni che apparirebbero assurde in un altro contesto e che qui risultano non solo ragionevoli ma persino dovute. Come quando, lasciata la terra degli houyhnhnm e tornato in Inghilterra tra gli yahoo, Gulliver confessa che “durante il primo anno, non sopportavo la presenza di mia moglie e dei miei figli: il loro odore mi ripugnava, e men che meno sopportavo di mangiare nella stessa stanza”. “E quando ragionai sul fatto che copulando con una yahoo ne avevo generati altri fui preso da vergogna”. Dopo gli anni passati tra i nobili cavalli, Gulliver, che aveva assimilato un briciolo della loro saggezza, cercò di comunicarla ai marinai che lo avevano salvato, ma loro “non capivano cosa intendessi con yahoo e houyhnhnm, inoltre li faceva ridere il mio strano modo di parlare, che somigliava al nitrito di un cavallo”.
Ecco, Swift è uno scrittore capace di vedersi mentre nitrisce. Il suo è quindi uno sguardo impietoso, rivolto su di sé. Altri grandi scrittori sono stati feroci; Swift è l’unico che guardi con tanta spietatezza i nostri gesti quotidiani, i nostri gusti. Ecco come descrive l’amore degli yahoo per una sostanza che, come il vino, induce “talora ad abbracciarsi, talora ad aggredirsi. Strepitano e ghignano, farneticano, barcollano e si rotolano, e infine crollano addormentati nel sudiciume”. È lo stesso sguardo alieno, distante – il contrario esatto dell’antropocentrismo – per cui il saggio houyhnhnmm, dopo aver ascoltato attentamente quel che Gulliver gli aveva raccontato di sé e del suo paese, gli disse che “ci vedeva come una specie di animali cui era toccato in sorte, non si sa per quale accidente, un granello di ragione di cui non facevamo uso se non per accrescere le nostre naturali depravazioni e per acquistarne di nuove che la natura non ci aveva assegnato. Ci eravamo spogliati delle poche qualità ricevute in dote, eravamo riusciti a moltiplicare i nostri bisogni primari, e ora passavamo la vita nel vano sforzo di soddisfarli”.
Forse questo sguardo dal di fuori, quest’osservare l’essere umano con occhi alieni costituisce l’anello che più lo congiunge alla fantascienza e più prefigura la nostra modernità. Quando visita un paese in cui ogni tanto nascono immortali, gli viene spiegato che a durare in eterno non è la giovinezza, bensì l’estrema vecchiezza e decrepitudine di costoro, quasi a presagire che il nostro avere allungato la speranza di vita ha in realtà anche protratto la durata della nostra morte. Gli scienziati di Laputa creano un telaio che, intessendo a caso tutte le parole della propria lingua, fa sì che “anche la persona più ignorante, con modica spesa e un modesto sforzo fisico, avrebbe potuto scrivere libri di filosofia, poesia, politica, diritto, matematica e teologia, senza alcun bisogno di originalità o studio”. Come non pensare a ChatGpt e all’intelligenza artificiale.
E cosa dire delle ansie da catastrofismo che scandiscono la cosmologia popolare del nostro tempo e che già preoccupavano gli astronomi laputiani? “Sono permanentemente inquieti, non si godono un attimo di pace mentale; i loro affanni nascono da problemi che di rado affliggono il resto dei mortali, ovvero i molteplici mutamenti che essi temono nei corpi celesti: Per esempio che la Terra, a causa del perenne avvicinarsi del Sole, venga col tempo assorbita e ingoiata; che la superficie del Sole s’incrosti a poco a poco dei suoi stessi effluvi e non illumini più il mondo; che la Terra sia sfuggita per un pelo alla coda dell’ultima cometa, che l’avrebbe senz’altro incenerita e che la prossima, prevista dai loro calcoli fra trentun anni, e che probabilmente ci distruggerà”.
Questa modernità, direi attualità, contrasta con la struttura lessicale del libro, che non solo è l’antitesi esatta del wokismo, ma usa termini che, per quanto non sconvenienti e ammissibili, sono ormai esclusi dalla produzione letteraria: “in quel paese non c’erano motteggiatori, censori, malelingue, borsaioli, grassatori, scassinatori, legulei, mezzani, buffoni, biscazzieri, politici, begli spiriti malinconici, fanfaroni, polemisti, ladri, stupratori, assassini, vanagloriosi… non c’erano prigioni, mannaie, patiboli, poli per la fustigazione o gogne; non bottegai o artigiani truffaldini… non bellimbusti, attaccabrighe o ubriaconi, peripatetiche e sifilitici… non mascalzoni sollevati dalla polvere per via dei loro vizi, né nobili caduti nella polvere a causa della loro virtù; non c’erano lord, né imbroglioni, giudici o maestri di ballo”.
Chi può negare che nella nostra società esistono legulei, mezzani, imbroglioni, giudici, polemisti, politici, biscazzieri, censori, malelingue…? Ma non troverete mai un articolo di giornale o un brano di romanzo o saggio che li descriva in questi termini. Noi siamo vittime di una continua, sfrenata eufemizzazione del reale (non vecchi, ma diversamente giovani), eufemizzazione che è uno dei più potenti strumenti del potere (la grande potenza militare non “occupa”, ma “difende”; i suoi non sono “sudditi”, ma “alleati”, il governo “attua la volontà popolare”). Persino oggi che i governi ci stanno trascinando sul baratro della guerra, nessuno scrittore osa descrivere i militari con le parole che riservava loro Swift: “il mestiere di soldato è considerato nobilissimo, giacché un soldato è uno yahoo reclutato per uccidere a sangue freddo il maggior numero possibile di suoi simili, che non l’hanno mai offeso”.
Swift è l’opposto dell’eufemizzazione. Lo si vede da come anticipa la nostra società di sorveglianza: “un professore consigliava ai grandi statisti d’indagare su come si nutrivano le persone sospette, gli orari dei loro pasti, su quale fianco dormissero, con quale mano tergessero il posteriore; raccomandava di osservarne attentamente le feci, e in base al colore, l’odore, il sapore, la consistenza l’asprezza o facilità di digestione, farsi un’opinione dei loro pensieri e i loro progetti perché gli uomini non sono mai tanto seri, pensierosi e concentrati come quando stanno seduti sulla comoda, cosa che aveva spesso sperimentato di persona. Se infatti in tale congiuntura si metteva a rimuginare, in via del tutto ipotetica, sul miglior modo per assassinare il re, i suoi escrementi assumevano una sfumatura verdognola, mentre erano del tutto diversi se pensava semplicemente a scatenare una rivolta o incendiare la capitale”. Metodo che entrerà in vigore quando a breve sarà commercializzato lo smart-cesso.