Il diritto all’affettività (e al sesso) è ancora negato a chi sta in carcere - Lucy
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Luigi Mastrodonato

Il diritto all’affettività (e al sesso) è ancora negato a chi sta in carcere

In Italia, alle persone recluse è negato il diritto a una sana vita affettiva e sessuale. Le conseguenze sono serie.

Nel 2020 un detenuto in 41 bis, la forma di detenzione cui sono destinati gli autori di reati in materie come la criminalità organizzata e il terrorismo, ha chiesto alla direzione del carcere di poter ricevere alcune riviste pornografiche. Questo tipo di materiale non faceva parte del sopravvitto, cioè di quei conforti che i detenuti possono acquistare con le proprie finanze, e la persona reclusa ne ha fatto richiesta per poter esercitare il proprio diritto alla sessualità, in forma di autoerotismo. La direzione del carcere ha respinto la domanda del detenuto per questioni di ordine e sicurezza pubblica, posizione confermata dal magistrato di sorveglianza.

Il detenuto ha deciso di opporsi a questa decisione e ha fatto ricorso al tribunale di sorveglianza, che gli ha dato ragione. Nel provvedimento, il tribunale ha sottolineato che la fornitura di riviste pornografiche non implica problemi di sicurezza, che anche le persone recluse sono titolari del diritto alla sessualità e ha disposto che il detenuto potesse sottoscrivere un abbonamento a una rivista a sua scelta. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), l’organo facente parte del ministero della Giustizia e responsabile degli aspetti organizzativi dell’esecuzione penale, non ha però accettato questa pronuncia e ha fatto ricorso. Nel novembre 2021 la Cassazione ha dato ragione al Dap, adducendo tra le motivazioni che “anche a volerlo considerare un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata, l’autoerotismo non è impedito dallo stato detentivo. La fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile” e che all’interno delle riviste pornografiche potrebbero trovarsi “messaggi che aggirano il regime detentivo speciale del 41 bis”, che vieta ogni forma di comunicazione tra mondo esterno e interno.

Questa storia, nella sua semplicità, racconta alla perfezione il grande problema del diritto all’affettività e alla sessualità nelle carcere italiane. Mentre in numerosi paesi esteri le persone recluse possono beneficiare di ambienti ad hoc dove incontrarsi con i propri e le proprie partner senza che vi sia alcuna sorveglianza interna, in Italia anche l’autoerotismo per il tramite di una rivista pornografica è considerato una concessione non conforme al senso della pena. Per quanto da ormai lungo tempo si sia superata la concezione punitiva della condanna in direzione di un fine rieducativo che passa dal divieto di trattamenti inumani e degradanti, sotto molti aspetti la carcerazione resta una forma imposta di dannazione per la mente e per il corpo. Questo vale anche e soprattutto per il diritto all’affettività e alla sessualità, nonostante una pronuncia della Corte costituzionale di gennaio 2024 abbia aperto la strada ad alcune, isolate iniziative positive. La strada da percorrere è ancora lunga e la negazione di questi diritti, che è poi negazione del diritto alla salute, è ancora la prassi nelle carceri italiane.

La negazione della sessualità

Nel 1980 negli spazi all’aperto delle carceri canadesi hanno cominciato a comparire una serie di roulotte, bungalow e altre piccole strutture mobili. Quell’anno è infatti entrata in vigore una legge che ha permesso alle persone recluse di trascorrere fino a 72 ore con i propri familiari all’interno di quelle unità, solitamente composte da una piccola camera da letto, una cucina e una zona soggiorno. Spazi simili, sottolineano le autorità canadesi, aiutano i detenuti a mantenere e rafforzare i legami familiari e comunitari, migliorano la loro vita quotidiana, che è solitamente all’insegna dell’apatia, consentono di preservare le capacità genitoriali e in definitiva permettono un esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità. Le Private family visits (PFVs) sono tuttora in vigore e in questi anni è successo anche che donne recluse, o mogli e partner di uomini reclusi, restassero incinte per i rapporti sessuali avuti durante le 72 ore di incontri privati senza sorveglianza.

Quello del Canada non è un esempio isolato e sono decine i paesi nel mondo che si sono attrezzati per garantire ai detenuti il diritto all’affettività e alla sessualità. Questo succede anche in Europa. In Francia non esiste una legge specifica, ma alcune carceri si sono organizzate in modo autonomo installando unità esterne predisposte per i colloqui privati. In Romania e in Norvegia questidi ambienti esistono da parecchio tempo, così come in Svizzera, dove si è arrivati a mettere a disposizione chalet in pietra in mezzo al verde per rendere le poche ore di permesso il più confortevoli possibile, seguendo quella che apparentemente è una strada ovvia per cui a detenuti più sereni e rispettati nei loro diritti e nelle loro libertà corrisponde una minore conflittualità penitenziaria. In generale, sono 31 su 47 gli stati del Consiglio d’Europa che garantiscono alle persone recluse colloqui intimi e senza sorveglianza. Tra questi però non c’è l’Italia.

“Nel 2020 un detenuto in 41 bis, la forma di detenzione cui sono destinati gli autori di reati in materie come la criminalità organizzata e il terrorismo, ha chiesto alla direzione del carcere di poter ricevere alcune riviste pornografiche”.

La legge italiana di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 stabilisce all’articolo 18 che “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone”. Non viene fatta menzione di alcuna altra forma di incontro e questo si è tradotto in una negazione del diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti che va avanti da decenni. Tutto quello di cui si dispone ancora oggi sono dieci minuti di telefonata settimanale e qualche ora di colloquio in presenza mensile, che avviene con sorveglianza a vista e in sale sovraffollate. Nel 1999 una nuova proposta di regolamento penitenziario prevedeva nuove forme di colloquio in ambienti separati, ma non se ne fece nulla a causa dell’intervento del Consiglio di Stato. Nel 2012 la Corte costituzionale ha definito legittima la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui impone il controllo visivo dei colloqui. Poi sono arrivate altre proposte di legge sul tema dell’affettività e della sessualità in carcere, mai andate a buon fine.

Un bisogno fisiologico

“La cosa che manca di più in carcere è l’amore e non si capisce perché il carcere ha così paura dell’amore, che invece può fare solo bene”, spiega Carmelo Musumeci, che in carcere ci ha passato 25 lunghi anni. “In carcere non si ha altra scelta che usare i ricordi che però con il passare degli anni si affievoliscono. È un sistema assurdo, in altri paesi non accade questo, la pena viene scontata ma si può continuare ad amare e a essere amati. Perché il detenuto non dovrebbe poter continuare la sua vita sessuale? Questo non può far parte della pena, sono atti e bisogni naturali e fisiologici”.

Nel 1975, lo stesso anno dell’entrata in vigore in Italia dell’ultima legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, il filosofo francese Michel Foucault nel saggio Sorvegliare e punire scriveva che “la pena ha difficoltà a dissociarsi da un supplemento di dolore fisico” e che “nei meccanismi moderni della giustizia penale permane un fondo suppliziante”. Questo nel tempo ha sempre più perso le sembianze delle torture e delle violenze esplicite – quantomeno nell’immagine che il carcere vuole dare di sé visto che oggi di indagini, processi e condanne per tortura ne abbiamo a decine, a riprova che la violenza nella sua forma più classica è ancora presente. E il carcere ha assunto nuove forme di supplizio sottili e leggere, invisibili all’occhio dell’osservatore esterno, ma ugualmente dolorose per chi è costretto a viverle sulla propria pelle. L’imposizione coatta dell’anaffettività e dell’astinenza sessuale, gli ostacoli persino all’autoerotismo, rientrano in questo campo. 

“La privazione dell’affettività e della sessualità in carcere è una punizione invisibile ma potentissima. In pochi si rendono conto di cosa significhi vivere a lungo senza il contatto umano, senza il calore di un abbraccio o di uno sguardo”, racconta Lunina Casarotti, ex detenuta e attivista dell’associazione Yairaiha Onlus. “Il desiderio viene soffocato, lo reprimi, lo metti da parte ma in realtà lui resta lì. Alla fine diventa frustrazione, nervosismo e dolore fisico e psicologico”. Di fronte a questa situazione, alcune persone recluse imparano a reprimere le proprie emozioni e con il tempo iniziano a non sentire più nulla. Altre sviluppano forme di masturbazione ossessiva e compulsiva. Altre ancora instaurano legami con altre persone detenute che vanno al di là dell’amicizia, legami affettivi e sessuali non sempre consapevoli, frutto di processi di spersonalizzazione e di adattamento della sessualità al contesto coercitivo, quello che la letteratura chiama “omosessualità coatta o temporanea”. Altre persone ancora soffocano i propri istinti nei rapporti non consensuali. Nelle prigioni italiane si verificano circa tremila stupri all’anno, un numero che verrebbe probabilmente abbattuto nel momento in cui venisse garantito il diritto alla sessualità dei detenuti.

Piccole, isolate iniziative

Nel gennaio 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede per la persona detenuta colloqui privati con il proprio partner. Dodici anni dopo, i giudici hanno così ribaltato la sentenza del 2012, dove comunque era già stato anticipato che l’astinenza sessuale imposta in carcere si scontrasse con i princìpî costituzionali e costituisse un trattamento contrario al senso di umanità. La sentenza dello scorso anno della Consulta, che non riguarda comunque regimi carcerari come il 41 bis, ha riconosciuto che per 50 anni lo Stato italiano ha inflitto alle persone recluse nelle sue prigioni una pena supplementare contraria ai dettami costituzionali, che non ha niente a che fare con i principi di rieducazione e reinserimento sociale e che rappresenta al meglio quel fondo supplizievole descritto da Foucault. La pronuncia non ha cambiato lo stato delle cose, nel senso che non ha annullato la legge, ma è stato il monito più forte possibile a cambiare il quadro legislativo, dopo che già da decenni arrivavano sollecitazioni simili a livello internazionale.

È passato più di un anno dalla pronuncia della Corte costituzionale e al momento le speranze per il cambiamento sono state tradite. Dal governo non è arrivato nulla se non ostruzionismo e questo non stupisce se si pensa che Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, ha più volte preso posizione contro la realizzazione di spazi extra-detentivi appositi per i colloqui privati. Nelle settimane successive alla pronuncia della Consulta era stata creata una commissione incaricata di studiare gli spazi negli istituti, così da valutare tempi e modalità di creazione di ambienti separati per l’incontro tra le persone detenute e i loro familiari. Un lavoro di cui non si è più avuta notizia, nonostante le sollecitazioni parlamentari al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Nel febbraio 2024 il carcere Due Palazzi di Padova aveva annunciato una prima sperimentazione italiana per permettere incontri privati tra detenuti e partner. La gran parte dei media e della politica aveva parlato di “stanze dell’amore”, un nome sfortunato ma perfettamente in linea con quel processo verbale di infantilizzazione e ridicolizzazione che riguarda tutto ciò che attiene al carcere. In realtà dovevano essere dei container installati nel cortile del carcere, dove le persone detenute potessero passare del tempo in santa pace con i propri familiari – genitori, partner, figli – esercitando il loro diritto all’affettività e alla sessualità. Poi il governo ha bloccato tutto, stabilendo che iniziative di quel tipo non spettano ai singoli istituti penitenziari, ma al Dap, quello stesso Dap su cui ha la delega Delmastro.

Oggi quello che rimane della battaglia per l’affettività e la sessualità in carcere è la potenza della pronuncia del 2024 dei giudici costituzionali, che non potrà essere ignorata per sempre. E piccole brecce che arrivano dal coraggio di alcuni isolati magistrati di sorveglianza, che cercano di scardinare il muro eretto dalla politica. Nelle scorse settimane due detenuti del carcere di Terni e di Parma hanno ottenuto il permesso di avere incontri intimi con le proprie partner, dopo che i loro istituti glielo avevano negato. In entrambe le richieste si è fatto espressamente riferimento alla volontà di avere un rapporto sessuale e in uno si specificava il desiderio di genitorialità. Attraverso i loro legali hanno presentato un reclamo e infine i magistrati di sorveglianza competenti hanno dato ordine ai due istituti di attrezzarsi entro due mesi per soddisfare la richiesta dei due detenuti. È la prima applicazione concreta della sentenza della Consulta, una doppia decisione storica su cui riporre nuove speranze perché le cose cambino veramente e il diritto all’affettività e alla sessualità sia garantito non solo a due persone detenute ma alle sessantamila e più che popolano le carceri italiane. Perché questo avvenga serve però prima di tutto una legge nazionale.

Luigi Mastrodonato

Luigi Mastrodonato è un giornalista freelance. Collabora con testate come Internazionale, Domani, LifeGate e si occupa di temi sociali e marginalità, con un focus particolare su carceri e abusi di potere. È autore e voce del podcast “TREDICI”, uscito nel 2023 per «Il Post».

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