La liberazione di Assange non è il lieto fine in cui molti speravano - Lucy
articolo

Carlo Blengino

La liberazione di Assange non è il lieto fine in cui molti speravano

05 Luglio 2024

La storia di Julian Assange, figura divisiva e controversa, rappresenta un’anomalia giuridica: privato della libertà per più di dieci anni, non ha mai subito un processo, né una vera condanna. Oggi che è libero, vale la pena interrogarsi sulla sua vicenda, che tocca temi molto delicati e di interesse collettivo.

La vicenda di Julian Assange racconta molte storie diverse. È, prima di tutto, una storia profondamente legata alla tecnologia, a internet, al web e alla promessa, realizzata o tradita – a voi il giudizio –, di una rivoluzione digitale che avrebbe abbattuto i regimi autoritari, reso trasparente il potere e, grazie alla libera circolazione delle informazioni, reso effettiva una nuova forma di democrazia.

È inevitabilmente una storia sul potere. Anzi è la storia del nucleo più interno del potere: quello dei segreti di Stato, degli arcana imperii ammantati dalla Ragion di Stato. Oggi la chiamano “sicurezza nazionale” e le sue vestali nei paesi democratici non sono più i mitici servizi segreti ma i Dipartimenti di Informazione, l’intelligence: piccole modifiche lessicali e poche modifiche sostanziali per descrivere un mondo che resta opaco – perché il potere sta nel nucleo più interno del segreto, come dice Gustavo Zagrebelsky.

C’è poi una storia di informazioni e di dati rubati, ed è una storia sulla libertà di espressione.  In un mondo “digitalizzato”, pervasivamente mediato da dispositivi e costantemente memorizzato in byte, chi ha accesso ai dati controlla la libertà di espressione e d’informazione, due facce della stessa medaglia. Tanto è semplice esprimersi sul web, tanto è difficile governare il flusso informativo e individuare l’area di tolleranza della libertà d’espressione. La storia di Assange è infine la storia terribile di un uomo privato della libertà per più di dieci anni, senza processo e senza condanna. Quest’ultima parte della storia è l’unica che può dirsi conclusa, con la liberazione dopo un accordo di colpevolezza siglato in una remota isola del Pacifico.

“Per come è stata pronunciata, la condanna vale davvero poco e non consente di trarre conclusioni e giudizi né di attribuire torti e ragioni. È un epilogo amaro che non attenuerà lo scempio dei diritti fondamentali di Assange e che lascia irrisolte molte questioni complesse”.

La condanna è arrivata alla fine, dopo l’espiazione della pena (singolare scansione processuale), con la confessione come condizione per la libertà, in relazione ad un unico capo di imputazione, quello relativo al cosiddetto Espionage Act, in relazione alle informazioni fornite dal 2009 al 2011 da Chelsea Manning, l’analista dell’intelligence autrice dei leaks, condannata a 35 anni di prigione, detenuta per anni ed infine graziata, sul finire del suo ultimo mandato, dal presidente Obama.  

Per come è stata pronunciata, la condanna vale davvero poco e non consente di trarre conclusioni e giudizi né di attribuire torti e ragioni. È un epilogo amaro che non attenuerà lo scempio dei diritti fondamentali di Assange, violati nel cuore dell’occidente democratico, e che purtroppo lascia incompiute tutte le altre storie ed irrisolte, se non addirittura compromesse, le complesse questioni ad esse sottese.

Ma, senza alimentare lo sterile dibattito tra chi vede in Assange un indomito paladino della libertà e della trasparenza e chi invece lo considera uno scellerato mitomane, addirittura una spia al soldo delle dittature, si possono avanzare alcune considerazioni sulla condanna e sulle sue conseguenze.

Wikileaks e la trasparenza asimmetrica
Nel 2006, Assange fonda Wikileaks con l’obiettivo di tutelare le fonti di informazione, i whistleblower, e di raccogliere e pubblicare materiali che portino alla luce comportamenti non etici di governi e aziende, se ritenuti veri, autorevoli e di pubblico interesse a giudizio insindacabile dei membri dell’organizzazione. La piattaforma garantisce l’anonimato agli informatori e lo fa molto bene. 

Assange è un hacker, e come tutti gli hacker conosce la tecnologia, la smonta, forza le black box e ne coglie vulnerabilità, difetti e potenzialità. Mette le sue capacità al servizio di quella che crede essere una battaglia fondamentale. Internet e le tecnologie digitali hanno generato una promessa di trasparenza che si è rivelata profondamente asimmetrica: se per noi cittadini comuni non c’è nessuna possibilità di tutelare davvero riservatezza e privacy, almeno ci sia un minimo di reciprocità col Potere, sembra dire Assange. Se la democrazia è il potere del popolo e non per il popolo, ben venga la tecnologia che abilita e protegge chi, violando leggi e doveri, ha la forza di reagire a crimini e ingiustizie. 

A certificare il positivo valore dei whistleblower in Europa una direttiva del 2019 (13 anni dopo Wikileaks) ha imposto a tutte le organizzazioni – imprese ed enti – presidi a tutela degli informatori ed ha previsto per quest’ultimi un seppur limitato perimetro di immunità. Ovviamente la direttiva non si applica alla “sicurezza nazionale”, ai documenti classificati e al settore della difesa (sic!). Il potere segreto rimane tale e la trasparenza rimane asimmetrica.

Vero è che nel 2006 Wikileaks.org era avanti a tutti: Assange ha creato una struttura tecnologica a tutela delle fonti che è poi diventata un modello per i grandi media e per lo stesso legislatore. Oggi però il sito Wikileaks.org appare “congelato”. L’ultima rivelazione sembra risalire al 2018 e negli ultimi anni è stato attivo unicamente per promuovere campagne a favore del suo fondatore.

“Nel 2006 Wikileaks.org era avanti a tutti: Assange ha creato una struttura tecnologica a tutela delle fonti che è poi diventata un modello per i grandi media e per lo stesso legislatore”.

La “confessione” di Assange, per come risulta dall’accordo di patteggiamento, temo ne decreterà il definitivo decesso e la sua lotta mi pare compromessa. La confessione e la condanna (concordata) di Assange per l’Espionage Act, per la stessa legge e  per lo stesso reato contestato all’informatrice Chelsea Manning, è mi pare il fatto più rilevante dell’intera vicenda. Provo a spiegare meglio perché.

Espionage Act e la libertà di espressione
Chi sottrae informazioni “classificate”, secretate per ragioni di sicurezza nazionale, commette sempre uno o più reati. Tali reati possono esser o meno sanzionati a seconda dei casi, del contesto e della gravità e rilevanza delle informazioni, ma per chi viola il “potere segreto” degli Stati il rischio di ritorsioni è fisiologico. Inoltre in questi casi sono scarse, se non nulle, le prospettive che la rivelazione di crimini e abusi del potere sia efficacemente perseguita dal sistema giudiziario e per di più, l’autorità a cui ci si dovrebbe rivolgere è spesso coinvolta o collusa nella violazione stessa. L’unica via rimane allora la divulgazione e la pubblicazione: rendere pubbliche le violazioni e le ingiustizie del potere segreto.

Questa strada però funziona solo se il sistema, lo Stato e la società in generale, è in grado di distinguere nettamente il ruolo e le responsabilità di chi pubblica l’informazione – il messaggero quindi, chiunque esso sia – dal ruolo e dalle responsabilità di chi l’informazione sottrae violando i segreti.

È a questo punto che entra in gioco il diritto alla libertà di espressione. Quando lo Stato stesso è parte in causa, si comprende appieno l’essenzialità di questo diritto, considerato da tutte le Corti “la pietra angolare della democrazia”, primo e più importante tratto distintivo di ogni nazione che vuole definirsi democratica. Quando è in gioco la reputazione, l’onorabilità e la natura dello Stato, dei governi e delle istituzioni, lì si misura la maggiore o minore robustezza del diritto alla libertà di espressione, d’informazione e ovviamente di stampa.

I padri costituenti negli Stati Uniti avevano ben chiara questa peculiarità, tant’è che nella Costituzione americana non c’è un equivalente del nostro art.21, che prevede il diritto dei cittadini a manifestare liberamente il proprio pensiero; è dato per scontato. È invece costituzionalizzato nel primo emendamento un divieto assoluto per il legislatore di promulgare leggi che possano limitare o anche solo interferire con la libertà di espressione e con la libertà di stampa. “Il Congresso non promulgherà leggi…. che limitino la libertà di parola, o della stampa”. Questa la formulazione della libertà di espressione nel primo emendamento della Costituzione Americana.

Lo Stato non può mai dire con una legge ciò che si può o non si può dire. Negli Stati Uniti la libertà di parola non è solo una libertà dei cittadini come in Europa, ma è una regola di amministrazione del potere, o meglio, di autogoverno del sistema stesso. Ed è evidente che, così formulato, il ruolo della libertà d’espressione e di stampa diventa particolarmente significativo proprio nel rivelare informazioni che il potere vuole tenere segrete. 

La barriera creata dal primo emendamento ha retto nei secoli, anche alla rivoluzione digitale e al web. Ha protetto per esempio le piattaforme e i social network da responsabilità per i contenuti veicolati, favorendone la diffusione. Qualsiasi tentativo da parte dello Stato di regolare la circolazione delle informazioni per combattere ad esempio disinformazione e fake-news (velleità legislativa oggi tipica negli Stati europei) rischierebbe in America di infrangersi contro il primo emendamento, come è accaduto ad esempio nel 1996 con il noto Communications Decency Act che tentava di regolare la pornografia on line.

La contestazione e la condanna di Assange per una legge come l’Espionage Act, rappresentano una significativa crepa in questa barriera. L’Espionage Act è una legge contro lo spionaggio promulgata nel 1917, subito dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, e da sempre si discute della sua compatibilità con il primo emendamento della Costituzione, in particolare là dove la legge prevede severe sanzioni per la divulgazione non autorizzata.

“Quando è in gioco la reputazione, l’onorabilità e la natura dello Stato, dei governi e delle istituzioni, lì si misura la maggiore o minore robustezza del diritto alla libertà di espressione, d’informazione e ovviamente di stampa”.

Il Dipartimento di Giustizia americano è sempre stato consapevole di questo e mai ha contestato l’Espionage Act a giornalisti ed editori: il rischio di una pronuncia di incostituzionalità della Corte Suprema sull’intera legge sono da sempre all’orizzonte. Dopo gli attentati del 2001, complice anche l’evoluzione tecnologica ed i diversi leaks subiti dalle agenzie dello Stato, la legge ha avuto una qualche reviviscenza ma è sempre stata applicata solo alle fonti, mai a chi pubblica e alla stampa. Nel caso di Wikileaks però l’idea di contestare l’Espionage Act ad Assange era da tempo nell’aria.

L’eccezione Assange
Né Bush né Obama avevano ceduto alle pressioni del Dipartimento di Giustizia e inizialmente anche Trump, con la prima contestazione formale di reato contro Assange, aveva evitato ogni riferimento all’Espionage Act. Inizialmente Assange era indagato solo per concorso materiale nell’attività di hacking di Manning, per diversi reati di accesso abusivo ai sistemi informatici, ma non per la pubblicazione dei documenti trafugati.

La contestazione di accesso abusivo era però fragile: troppo difficile provare che fosse stato proprio Assange a contribuire materialmente all’accesso alle informazioni riservate; informazioni che per altro Chelsea Manning era in buona parte autorizzata a consultare.

Così, nel maggio 2019, l’amministrazione Trump rompe gli indugi e consente la contestazione del reato di associazione a delinquere ai sensi dell’Espionage Act. La condotta– cioè l’associazione con Manning finalizzata all’illegittima diffusione e la diffusione stessa ad opera di Wikileaks – era, dal punto di vista probatorio, evidentemente ineccepibile: Wikileaks aveva oggettivamente divulgato le informazioni classificate. Il problema era di puro diritto costituzionale: l’applicabilità del primo emendamento ad un cittadino straniero che gestisce un mezzo di informazione e la legittimità stessa dell’Espionage Act così interpretato.


Lo scenario cambia improvvisamente. Il reato chiave diventa la pubblicazione stessa dei segreti e la condotta contestata è identica a quella quotidiana di tutti i giornalisti investigativi che lavorano sulla sicurezza nazionale: incoraggiare le fonti a fornire informazioni segrete di valore giornalistico, ottenere dati e documenti senza il permesso del governo, fornire loro canali di comunicazione sicuri e infine pubblicare e informare l’opinione pubblica. Per la prima volta una legge che limita pesantemente la libertà di parola e di stampa, promulgata durante una guerra oltre un secolo prima, viene contestata a un mezzo di informazione.

Una vittoria a tavolino
Sarebbe stato uno dei processi più affascinanti della storia americana: la messa alla prova di quel sistema di autogoverno della democrazia che la libertà di espressione come sancita nel primo emendamento della Costituzione aveva in animo di garantire. 

Ma il processo non si è mai svolto. Assange non ha mai accettato l’estradizione e si è rifiutato di affrontare pubblicamente, in un’aula di giustizia americana quella che oggettivamente appariva come una persecuzione. La sua comprensibile sfiducia nel sistema giudiziario statunitense, pagata duramente con la privazione della libertà, si è però trasformata in un significativo vantaggio per il Governo americano.

“Si è creato un precedente pesante, potenzialmente intimidatorio nei confronti di tutti, editori, testate e organizzazioni che il Governo dovesse, da oggi, ritenere troppo aggressive o pressanti nelle loro pretese di trasparenza”.

Con un accordo che, dopo anni di detenzione, non poteva non essere accettato da Assange, il Dipartimento di Giustizia e il Governo hanno infatti vinto a tavolino. Lo Stato ha ottenuto la confessione dell’imputato per il reato più rilevante, il reato di associazione finalizzata alla divulgazione di documenti classificati ai sensi dell’Espionage Act: un precedente pesante, potenzialmente intimidatorio nei confronti di tutti, editori, testate e organizzazioni che il Governo dovesse, da oggi, ritenere troppo aggressive o pressanti nelle loro pretese di trasparenza.

La sentenza di patteggiamento è inappellabile: l’imputato rinuncia a qualsiasi ricorso e il caso non potrà mai giungere alla Corte Suprema. È stata disinnescato il rischio di una evidente incostituzionalità. Nel caso la barriera e la sua resilienza non è stata neppure testata. 

La rinuncia all’azione penale per tutti gli altri capi di imputazione – per il concorso negli accessi abusivi e per le attività di hackeraggio – ha evitato un pubblico processo su accuse fragili ed evidentemente strumentali: per l’accusa e sempre meglio una buona archiviazione che una plateale assoluzione.

In ultimo, è finalmente termina la lunga detenzione di Assange, una situazione ormai divenuta imbarazzante ed  indifendibile per tutti, soprattutto per un Paese che vuole essere un faro della democrazia. È vero, la liberazione è un sollievo per tutti. Però non è il lieto fine in cui molti speravano.

Carlo Blengino

Carlo Blengino è avvocato penalista e si occupa principalmente di diritto delle nuove tecnologie, questioni di copyright e data protection. È fellow del NEXA Center for Internet &amp, Society del Politecnico di Torino.

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2024

art direction undesign

web design & development cosmo

sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga

lucy audio player

00:00

00:00