La trasformazione di Modi da politico a divinità - Lucy
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Matteo Miavaldi

La trasformazione di Modi da politico a divinità

03 Giugno 2024

Varanasi è la roccaforte del presidente indiano Modi: da lì è partito il culto che negli anni è riuscito a costruire attorno alla sua figura. Un diario dalle elezioni del Paese più popoloso al mondo, dove il consenso si è fatto devozione.

Il Pappu Tea Stall, cioè il banchetto del tè del signor Pappu, mi era stato descritto da persone che frequentano Varanasi come un’osteria veneta con il chai al posto delle ombre, il chaiwala più politico in assoluto di Varanasi, “pieno di professori, giornalisti, chiacchieroni, scansfatiche, ingobbiti e pensionati”.

Quando ci sono entrato per la prima volta qualche giorno fa, le mie aspettative non sono state disattese. Il Pappu Tea Stall è un buco con affaccio sulla strada del mercato di Assi, quartiere storico adiacente al fiume sacro Gange. L’insegna non c’è ma lo conoscono tutti in città, e dentro, seduti attorno a due tavoli di legno, ci sono una decina di uomini hindu che borbottano di politica e si prendono bonariamente in giro.

C’è il vecchio giornalista locale che dà del chutiya (scemo, tonto, in hindi) al professore di filosofia in pensione e un altro tizio, a fianco al professore, che gli fa “hai sentito che ti ha dato del chutiya? Non hai sentito? Se non gli rispondi allora sei davvero un chutiya!”. E giù a ridere.

Dopo due giri di té entra un altro cliente storico, si chiama Shekhar ed è un piccolo proprietario di terreni agricoli fuori città. È appena arrivato in città e ha in mano un cartoccio di giornale. Lo appoggia sul tavolo e lo apre: è pieno di polpettine di patate. 

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Tutti si attivano: uno mette in fila i piattini di carta, l’altro dosa le salsine, un altro distribuisce le porzioni. C’è solo un cliente che se ne sta immobile, in piedi in fondo alla stanza, vicino al ventilatore: è un cartonato a grandezza naturale del primo ministro indiano Narendra Modi.

La sagoma di Modi veglia sulla clientela assieme a varie foto appese intorno all’altarino per le puja, le preghiere hindu. Sono foto che lo ritraggono a bere del chai proprio qui, durante la campagna elettorale del 2022 per le amministrative dello stato dell’Uttar Pradesh, dove si trova Varanasi. Al Pappu Tea Stall sono tutti ferventi sostenitori dell’uomo che da dieci anni governa il Paese più popoloso del mondo e che in questi giorni corre per il terzo mandato consecutivo. E se qualcuno tra i presenti non lo sostiene, sicuramente ha imparato a non dirlo ad alta voce.

Il banchetto del té di Pappu, in questo senso, è una sorta di Varanasi in miniatura. Perché il consenso di cui Modi gode in città è strabordante. Anzi, è strabordato. Non si limita più alla sfera politica: ha esondato nell’ambito della devozione religiosa. 

La mitologia dice che Varanasi fu fondata dal dio Shiva in persona e per secoli gli induisti sono venuti qui da vivi in pellegrinaggio e da moribondi per cercare di chiudere, una volta per tutte, il loro ciclo delle reincarnazioni. Morire a Varanasi e disperdere le ceneri nel Gange garantisce la moksha, la liberazione ultima necessaria per ascendere al Nirvana e lasciare tutti gli altri qui a soffrire nel samsara, nel mondo materiale. 

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E che il samsara, come dicono molti hindu, sia fondamentalmente sofferenza, diventa un concetto chiarissimo quando si cammina per Varanasi a fine maggio con la massima a 47 gradi e la minima a 33. L’altra cosa chiara è proprio che la città, che lo scorso primo giugno ha votato nell’ultima tornata delle elezioni nazionali, è una delle roccaforti del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito nazionalista hindu guidato da Narendra Modi.

Qui Modi è ovunque: in formato gigante appeso dai balconi, sugli adesivi appiccicati sui muri e sulle porte dei vicoli della città vecchia – adesivi che dicono “har dil mein Modi”, cioè “Modi è nel cuore di ognuno di noi”, e “meri parivar, Modi ka parivar”, “la mia famiglia è la famiglia di Modi” –  sui cartelloni pubblicitari e sulle ruote di scorta dei riksha a motore, sulle bandiere del BJP che sventolano ancora tra le strade del centro da quando Modi in persona, qualche settimana fa, è venuto qui a prendersi il suo bagno di folla in un “roadshow” oceanico.

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Nel 2014 e nel 2019 Narendra Modi si è candidato al parlamento federale da qui, dal seggio di Varanasi, e ha sbaragliato ogni avversario. Nel 2014 ha vinto col 56,4% e più di 581 mila preferenze. Nel 2019 col 63,6% e poco meno di 675 mila voti. Quest’anno, ancora in lizza per il seggio di Varanasi, la domanda non è se Modi vincerà di nuovo, ma solo con quanto scarto lo farà, se meglio o peggio di cinque anni fa.

Perché la gente di Varanasi non solo lo vota, lo adora. Parlando al mercato, nei negozi o ai banchetti del té, il responso è quasi unanime: voterò Modi perché è forte, perché con lui il Paese è più forte e perché è un santo instancabile che ha votato la sua vita alla causa dell’India e degli hindu, due soggetti che da dieci anni per tante persone sono perfettamente sovrapponibili.

L’India multiculturale, multiconfessionale e secolare che era stata costruita nel 1947 dopo l’indipendenza dalla corona britannica sta svanendo. Al suo posto, sta emergendo la “New India” di Narendra Modi: un Paese da 1,4 miliardi di persone sempre più socialmente, politicamente e culturalmente a trazione hindu, dove il governo centrale e i governi locali guidati dal BJP agiscono nell’interesse esclusivo di una maggioranza religiosa induista che rappresenta l’80% dell’intera popolazione indiana e tollerano sempre meno la presenza e la parità di diritti delle minoranze. 

A partire da quella musulmana (14% della popolazione indiana, 210 milioni di persone), che negli ultimi dieci anni ha vissuto una persecuzione costante e asfissiante soprattutto qui nello stato dell’Uttar Pradesh. 

Dal 2017 il governo locale è affidato in quota BJP a Yogi Adityanath, monaco ultrainduista già fondatore di un gruppo paramilitare di devoti hindu noto per pestaggi, umiliazioni, pogrom e omicidi che prendono di mira la minoranza musulmana.

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Da primo ministro dell’Uttar Pradesh, Adityanath ha garantito impunità totale alle “sue” milizie e ha promosso iniziative che hanno colpito duramente la comunità musulmana: ha chiuso gran parte dei macelli, gestiti soprattutto dai musulmani, per “difendere Gau Mata”, la “Madre Vacca” sacra per l’induismo; ha istituito squadre di polizia ad hoc chiamate “anti-Romeo squad” per impedire rapporti sentimentali pubblici tra ragazzi musulmani e ragazze hindu, secondo Yogi parte di una “Love Jihad” che vorrebbe circuire e convertire le donne hindu per superare demograficamente la maggioranza hindu; ha ordinato la distruzione delle case e dei negozi di musulmani identificati nelle manifestazioni anti-governative, opera che gli è valsa il soprannome di “Bulldozzer Baba”. 

Per esaurire il capitolo relativo a Yogi Adityanath servirebbe un articolo a parte; per ora limitiamoci a questa presentazione un po’ sbrigativa, che restituisce però il contesto statale in cui Varanasi è emersa come città prototipo del nazionalismo hindu al potere. È un fenomeno inquietante che si fatica a osservare in modo limpido nelle grandi metropoli indiane, nascosto dietro all’entusiasmo della crescita economica che sfiora il 7% del PIL e dei molti miglioramenti infrastrutturali che Modi ha incoraggiato con efficacia negli ultimi anni.

Qui a Varanasi invece l’intento e la materialità del modismo si manifestano senza nessuna ambiguità e vengono mostrati con orgoglio come modello di cosa sarà l’India di domani. Il piano di Modi per Varanasi inizia nel 2014: Modi sceglie la città come suo seggio d’elezione e viene nominato primo ministro per la prima volta. Poi, durante una visita ufficiale in Giappone, Modi e l’allora premier giapponese Shinzo Abe firmano un accordo di partnership e gemellaggio tra le città di Varanasi e Kyoto che, lato indiano, avrebbe dovuto trasformare la città in un “piccolo” gioiello di modernità e tradizione da un milione e mezzo di abitanti.

Per dar vita a una nuova “Smart Varanasi”, Modi promette di valorizzare le sue centinaia di templi “proprio come a Kyoto”, e di risistemare e ripulire il labirinto di vicoli che si snodano per tutta la città vecchia. Di costruire nuove strade, nuove superstrade, treni ad alta velocità per i pellegrini e, soprattutto, di ripulire e rigenerare sia i “ghat” – i gradoni che dalla città vecchia scendono al fiume – sia lo stesso Gange. O meglio, la Ganga: in hindi il fiume sacro non solo si declina al femminile, ma è proprio una dea, dettaglio che ha caricato di un certo simbolismo mistico la volontà di prendersi cura della salute della divinità. Modi, in qualità di primo ministro, non stava presentando un progetto politico per Varanasi, ma un maestoso atto devozionale.

“Il consenso per Modi, più che una manifestazione di fiducia politica, per le strade di Varanasi è una professione di fede. Un’ambiguità che il presidente, soprattutto in questa campagna elettorale, sta cavalcando come mai prima d’ora”.

Passano cinque anni, è il 2019, Modi si ricandida a Varanasi, vince ancora e annuncia un altro progetto infrastrutturale da 40 milioni di dollari: il Kashi Vishwanath Corridor. L’intenzione era quella di decongestionare l’afflusso di pellegrini verso il tempio più importante di Varanasi – il Kashi Vishwanath Temple, dedicato a una manifestazione (avatara) di Shiva – aprendo un varco nella città vecchia per liberare il passaggio dal tempio al fiume Gange.

Oggi, a dieci anni dall’inizio della “cura Kyoto”, Varanasi è cambiata molto ma non in senso “smart”. Le strade nuove ci sono, i treni anche, la massa di pellegrini è aumentata a dismisura, come sono aumentati esponenzialmente i battelli e le barche che ogni giorno fanno la spola tra le due estremità nord e sud dei ghat sul fiume.

Ma i vicoli continuano a brulicare di umanità, sporcizia e rivoli di liquami a cielo aperto, vacche sacre abbandonate a se stesse, topi e cani randagi. I ghat sono illuminati a giorno con dei neon da stadio e a macchia di leopardo sono sventrati da cantieri popolati da lavoratori giornalieri che in ciabatte scavano, rompono, trasportano e saldano tra il viavai di turisti, pellegrini e curiosi. La pulizia della Ganga, a oggi, rimane solo uno slogan elettorale.

L’unica opera ultimata a tempo di record e inaugurata da Modi nel 2021 è il Corridor del tempio di Vishwanath, un ecomostro di cemento che non riprende nessuna delle forme architettoniche della vecchia Kashi, l’altro nome sacro di Varanasi. È un incrocio tra un terminal aeroportuale e un piano intermedio di un centro commerciale, con le scale mobili, il mantra di Shiva sparato in loop dagli altoparlanti, la “food court”, gli schermi al led e il prezziario per i riti devozionali appeso a fianco alla biglietteria, appena prima dei controlli al metal detector.

Per realizzarlo, l’amministrazione di Varanasi ha raso al suolo 46 mila metri quadri di città vecchia tra il tempio e le rive del Gange. Ha distrutto più di trecento edifici storici e quasi 1500 persone tra negozianti e residenti – famiglie che da generazioni vivevano in simbiosi con il fiume e le attività devozionali del tempio – sono state compensate e “ricollocate” in un quartiere a decine di chilometri dal centro, dietro alla stazione.

Parlare liberamente del Corridor, a Varanasi, non è semplice. Da un lato, c’è chi dice che il Corridor è diventata un’attrazione a sé, conosciuta in tutta l’India, che contribuisce ad attirare altri turisti e pellegrini. E più turisti e pellegrini significano più soldi che girano, più guesthouse, più caffè, più ristoranti, più negozi, più guide, più crociere sul Gange, tutto a beneficio dell’indotto religioso che a Varanasi dà da mangiare a decine di migliaia di persone.

Certo, c’è anche chi vede l’avanzata di una mercificazione della spiritualità che sta distruggendo la Varanasi di chi a Varanasi ci vive tutto l’anno e, soprattutto, chi inizia a malsopportare l’imposizione onnipresente del brand “Modi” sulla città e, allargando il campo semantico, sull’induismo in toto. Ma le critiche, esattamente come nel negozietto del té di Pappu, se si fanno, si devono fare sottovoce, in contesti di fiducia massima e lontano da orecchie indiscrete.

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Mi è successo con il gestore di una guesthouse, che per un’ora abbondante mi ha detto peste e corna di Modi e del BJP e alla fine ha concluso che “tanti” alla fine Modi lo votano lo stesso “per poter dormire sonni tranquilli”. Lo voterà anche lui?

La penetrazione del BJP negli ingranaggi burocratici e amministrativi della città e dello stato dell’Uttar Pradesh – governato dal BJP – è totale. “Anche se uno è contro il BJP, lo si vota lo stesso, ci si fa vedere agli eventi pubblici del partito, perché se il partito sa che tu sei uno dei loro e tu hai un’attività, allora è più facile ottenere i permessi, evitare i controlli del fisco, rinnovare le licenze…”.

Sono discorsi che si fanno solo dietro raccomandazione, in un circolo simil carbonaro che comprende attivisti, intellettuali, qualche santone, qualche giornalista, qualche accademico e chi sa di poter parlare liberamente di fronte a uno straniero. E questo, in gran parte dell’India del nord, è un segmento di popolazione estremamente minoritario, che ragiona su termini come progresso, democrazia e libertà d’espressione che per la base elettorale del nazionalismo hindu non significano nulla.

Il consenso per Modi, più che una manifestazione di fiducia politica, per le strade di Varanasi è una professione di fede. Un’ambiguità che il presidente, soprattutto in questa campagna elettorale, sta cavalcando come mai prima d’ora. Insistendo sulla minaccia della comunità islamica che, in combutta con le opposizioni, vorrebbe togliere tutto alla maggioranza hindu: le ricchezze materiali, l’onore, le tradizioni e l’orgoglio identitario.

Nelle ultime settimane nei comizi di Modi sono spuntate parole d’odio contro i musulmani che solitamente venivano lasciate in bocca a esponenti politici decisamente meno in vista: seconde e terze linee del partito, carne da cannone elettorale che assolve al compito di galvanizzare l’ala dell’estremismo hindu, mantenendo contemporaneamente immacolata l’aura di “statista saggio e amorevole” che Modi ha cercato di costruirsi.

Quest’anno, invece, Modi in pubblico ha detto che se vinceranno le opposizioni requisiranno i beni di tutti gli hindu e li ridistribuiranno tra “gli infiltrati” e “quelli che fanno tanti figli”, per Modi due sinonimi di musulmani; che la formazione della nazionale di cricket, se vinceranno le opposizioni, verrà stilata favorendo i giocatori musulmani; che le opposizioni strapperanno alle mogli hindu i loro “mangalsutra” – i gioielli che vengono regalati alla sposa il giorno del matrimonio – e li daranno alle famiglie musulmane.

Sono sparate elettorali che non hanno la minima aderenza con la realtà, e che in fondo – con esempi e obiettivi diversi – si possono sentire dai palchi dei comizi elettorali di molte democrazie più o meno avanzate, compresa la nostra.

Nel caso di Modi e della democrazia indiana di oggi, però, occorre aggiungere un’altra chiave interpretativa che appartiene alla sfera religiosa e che lo stesso Modi ha manifestato chiaramente in un’altra dichiarazione arrivata poco dopo questa infilata anti-musulmana.

Siamo a Varanasi, siamo nel pieno della campagna elettorale, e Modi si fa intervistare in riva al Gange da una giornalista del canale all news in hindi «News 18». E a un certo punto ragiona: “Quando mia madre era viva, credevo di essere nato biologicamente. Dopo la sua morte, riflettendo su tutte le mie esperienze, sono convinto che sia stato Dio a mandarmi qui. Questa energia non può arrivare da un corpo biologico, ma mi è stata data direttamente da Dio. Dio mi ha dato gli strumenti e la forza; mi ha anche dato la nobiltà d’animo. Mi dà ispirazione e una volontà inflessibile. Io da solo non sono niente, sono uno strumento creato da Dio per portare a compimento alcune cose…qualsiasi cosa faccia, sento che è Dio che agisce attraverso me”.

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In tutta la storia dell’India indipendente nessun esponente politico aveva mai avocato a sé così platealmente una discendenza divina. Perché anche nella tradizione del nazionalismo hindu da cui proviene e in cui si è formato Modi, la sfera devozionale-religiosa e quella politica sono sempre rimaste separate: la politica difendeva i valori tradizionali di un certo induismo, ma era una cosa diversa dall’induismo e dal divino.

Oggi, invece, Modi quel confine lo ha superato, parlando un linguaggio che gran parte dell’elettorato hindu recepisce e comprende senza nessuna perplessità semantica. Modi non parla più da politico, non è più un politico, ma un essere divino dotato di poteri soprannaturali mandato sulla Terra per compiere la volontà di Ishwar (l’essenza divina, il Supremo) e del Parmatma (il sé supremo, il creatore di tutto), i due sinonimi di “Dio” che Modi ha utilizzato in quell’intervista.

Nella Bhagavad Gita, la parte del poema epico Mahabharata considerata da molti induisti il testo più sacro e prescrittivo dell’induismo (sanatana dharma), Krishna spiega che il divino si manifesta nella sua forma terrena (avatara) quando la legge cosmica che regola il creato e la società (il dharma) è in declino, quando l’ordine morale è sotto attacco ed è necessario ristabilire l’equilibrio dove sta avanzando il caos.

Questo è il terreno su cui si muove il primo ministro indiano. E queste sono le motivazioni che ha dato al suo elettorato per presentarsi alle urne a Varanasi, la città di Shiva. Dove il consenso e la devozione, ormai, sono una cosa sola.

Matteo Miavaldi

Matteo Miavaldi scrive di India e Asia meridionale per varie testate, ha collaborato come podcast producer con Chora Media ed è stato coautore del podcast Altri Orienti. Dal 2010 collabora con il collettivo di giornalisti e sinologi China Files, occupandosi di Asia Meridionale. Il suo ultimo libro è I due marò, tutto quello che non vi anno detto (Edizioni Alegre, 2013).

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