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Lorenzo Germano

Lo scrittore preferito del tuo scrittore preferito. Intervista a Matteo Galiazzo

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Giovane esordiente a fine anni Novanta con Einaudi ha presto smesso di pubblicare ma questo non gli ha impedito di diventare un autore di culto, anzi. I suoi libri, molto richiesti, sono oggi quasi introvabili sui siti specializzati e la sua scelta di ritirarsi dalla scena letteraria ci parla anche del lavoro culturale oggi.

Uno scrittore può andare in pensione? Il premio Nobel Jon Fosse da anni vive nella residenza reale di Grotten, a Oslo, per concessione del Governo norvegese. In Italia, grazie alla legge Bacchelli, diversi intellettuali godono di un sussidio statale dopo essersi distinti “per chiara fama”: da Anna Maria Ortese a Daniele Del Giudice fino ad arrivare ai più recenti Gavino Ledda e Aldo Nove, sono molti gli scrittori ad averne beneficiato. Ma per l’autore di cui vogliamo parlare, in realtà, il termine più corretto è “ritiro” o “abbandono”.

Matteo Galiazzo dopo esser stato uno degli autori più promettenti della narrativa italiana di fine anni ’90 — pure prolifico se si calcola che dal 1997 al 2002 pubblicò tre libri con Einaudi (Una particolare forma di anestesia chiamata morte, Cargo e Il mondo è posteggiato in discesa) — ha semplicemente deciso di fare altro.

Oggi i suoi volumi sono introvabili, girano su Vinted e su Ebay a prezzi improponibili, e sono divenuti oggetto di curiosità, se non di culto, da parte dei lettori. Anche perché le ultime pubblicazioni dello scrittore nato nel 1970 a Padova (ma vissuto poi sempre a Genova) sono state soltanto qualche raccolta di testi vecchi (l’ultima, Sinapsi, risale al 2012 ed è fuori catalogo) e la riedizione delle opere einaudiane pubblicata da Laurana, grazie all’amico Marco Drago che lo fece esordire sulle pagine della rivista «Maltese narrazioni».

Fulminante — come la sua carriera — è il racconto Cose che io non so, inserito da Daniele Brolli nella celebre antologia Gioventù cannibale, uscita nel 1996 per Einaudi. In questo testo Galiazzo unisce provocazione e raffinatezza letteraria: gli stupri e la violenza fisica si amalgamano a una riscrittura della Bibbia che pare attingere anche al Calvino delle Cosmicomiche. Un avvio accolto molto bene da lettori e critica, che permise all’autore allora ventiseienne di diventare un modello perfetto dell’estetica pulp di quegli anni. Anche i racconti di Una particolare forma di anestesia chiamata morte (1997) riecheggiano un mondo fatto di consumismo, droghe e amore ridotto a sesso estremo.

Con i romanzi Cargo (1999) e Il mondo è posteggiato in discesa (2002, poi ripubblicato nel 2014 da Laurana con il titolo Il rutto della pianta carnivora) si accentuano maggiormente aspetti originali di Galiazzo, come la predilezione per i temi scientifici, l’arte combinatoria, e il gioco metaletterario. Nel primo, piuttosto postmoderno, si intrecciano quattro storie con un curioso effetto di mise en abyme, e tra queste anche l’autoracconto dell’autore che sta scrivendo il libro. Il mondo è posteggiato in discesa è invece un testo spiccatamente umoristico in cui un disertore dalmata, scappato dal conflitto dei Balcani devastati dalle bombe, arriva a Genova dentro un container. È qui che incontra una specie aliena di vegetali evoluti che, scoperto l’uso che gli esseri umani fanno di verdure e ortaggi, cerca di salvare i propri simili.

Dopo qualche sporadica uscita, quasi mai con testi originali, Galiazzo si è dedicato a tempo pieno alla professione di programmatore informatico e non ha più voluto scrivere. Perciò abbiamo deciso di contattarlo per farci raccontare quella stagione, a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, e per capire cosa è successo nel frattempo. 

Perché ha deciso di abbandonare la scrittura?

Ho smesso quando ho cominciato a fare il programmatore, poco dopo il 2000. Non lo sapevo fare, quindi ho dovuto studiare informatica e dedicarci tutto il tempo che avevo, almeno per i primi mesi. Quando sono stato assunto, mi mancavano le basi per fare quel lavoro, però mi piaceva moltissimo e non volevo perderlo. Cominciando a lavorare è cambiato tutto: il tempo libero era molto meno e quel poco che avevo non volevo passarlo a scrivere, perché era stata una passione totalizzante, per la quale avevo sacrificato molte cose che invece mi sarebbe piaciuto fare. Inoltre, ero già stato pubblicato, quindi non avevo più la smania dell’incompreso, non sentivo più l’urgenza di dimostrare a tutti che sapevo scrivere: era già stato appurato. Così sono passato ad altro.

Nell’ultima pagina del romanzo Cargo, lei scrive: “Evidentemente il motivo per cui uno scrive è cercare di riempire dei vuoti […] In realtà è già tutto pieno. Solo che nessuno può leggere tutto quello che è stato scritto, per cui la sua mappa fa acqua, per cui continua a scrivere. Per lo più sempre le stesse cose”. Aveva paura di diventare ripetitivo?

Sì, c’è anche quello. Inizialmente non conosci tante cose, la gran parte della mia convinzione e della “sbruffonaggine” dei 20 anni derivava dal fatto che ho frequentato ragioneria, poi ho studiato economia e commercio, quindi nel mio percorso la letteratura è sempre stata abbastanza collaterale. Pensavo di essere bravo, ma solo perché sono sempre stato in un ambiente in cui bastava poco per esserlo, se avessi fatto il liceo classico ci sarebbe stata una concorrenza diversa, magari mi sarei ritirato prima. E poi se uno conoscesse già tutto quello che è stato scritto dalla scena letteraria contemporanea o da quella passata, scoprirebbe che le stesse cose che lui crede di pensare per primo, le hanno già pensate in milioni. Però tutto ciò può essere superato dal divertimento della scrittura. Queste sono state le fasi che ho attraversato.

Nel racconto Annunciazione, che apre la raccolta Una particolare forma di anestesia chiamata morte, il ragazzo protagonista inizia a pubblicare perché manda per sbaglio una lettera a un noto editore. Anche a lei è avvenuto così?

No, in realtà io ho cominciato a scrivere regolarmente racconti sul «Maltese» di Marco Drago. Uno dei posti dove si trovava la rivista era la biblioteca della scuola Holden di Torino. E lì bazzicava Barbara Frandino che ha preso un numero ed è nato tutto, perché in seguito suo marito Alessandro Baricco ne ha parlato con Dalia Oggero di Einaudi. E poi mi hanno chiesto dei racconti, gli sono piaciuti e sono stati pubblicati. Prima avevo avuto dei contatti con Transeuropa e con Massimo Canalini. Però non ha funzionato perché lui voleva un romanzo, non dei racconti. E quindi con Einaudi ci siamo trovati più in sintonia.

Che ricordo ha di quegli anni?

Un bellissimo ricordo. In Einaudi sono stato trattato molto bene, ero coccolato. Sarebbe stato bello scrivere per sempre, ma non era scontato che uno riuscisse a mantenersi, quindi ci voleva anche un po’ di coraggio per proseguire. C’erano delle cose che si potevano fare per continuare a vivere scrivendo, come trasferirsi a Milano, io non le ho fatte perché avevo paura. Fino a quel momento avevo solo studiato, quindi non volevo ritrovarmi dopo qualche anno a non riuscire più a mantenermi senza aver imparato un lavoro. L’altro timore era di dover sopravvivere facendo cose che non mi piacevano, tipo insegnare scrittura creativa.

L’insistenza su tematiche come sesso estremo, droghe o violenze efferate per i cannibali era una provocazione o un modo di vedere il mondo?

Credo che fosse nato dal fatto che nella narrativa contemporanea di quel periodo c’era tanto minimalismo, quindi racconti molto quotidiani in cui la realtà era poco romanzesca. E i lettori avevano voglia di tornare a leggere cose più straordinarie: un modo per farlo era descrivere la violenza in maniera iperrealista. Io l’ho fatto per un po’ perché mi sembrava che funzionasse, però una volta esaurite le combinazioni, non era una cosa che mi piacesse. All’epoca serviva anche per dare fastidio. Mi ricordo che, agli inizi della carriera, ho conosciuto Giulio Mozzi e lui consigliava di scrivere come se uno stesse dedicando una lettera d’amore alla persona che ama di più. In realtà, io avevo un approccio proprio totalmente diverso: cioè scrivevo come se mi stessi rivolgendo alla persona che odiavo di più. E per me funzionava.

Già in Cose che io non so si vedeva una deriva fantascientifica, anche di matrice calviniana, che poi ha approfondito nelle opere successive.

Ho scoperto Ti con zero, Le cosmicomiche, Kurt Vonnegut, Stefano Benni e tutta una serie di cose che ricordano quell’immaginazione un po’ da cartone animato, cioè non realistica e buffa. Letteratura che dialoga anche molto con la scienza. A economia e commercio si studiano tantissime materie diverse nei campi più disparati, quindi sei esposto a tantissime idee. Alcune mi colpivano e mi sembravano divertenti, altre paradossali.

Però riusciva a unire questa componente anche con l’attualità e la cronaca. Per esempio forme di vita aliena s’incrociano con l’eco della guerra in Jugoslavia nel Mondo è posteggiato in discesa. Come era possibile?

C’era anche uno stimolo da parte della fantascienza ‘scema’, per cui avevo proprio una passione. Mi piaceva esplorare le varie combinazioni possibili e scegliere quella che mi sembrava non ancora sfruttata. E la guerra della Jugoslavia nasce dal fatto che ci ero stato l’anno prima che scoppiasse il conflitto, avevo conosciuto dei ragazzi e poi mi sono spesso chiesto che fine avessero fatto. Purtroppo non ho più saputo niente di loro, però seguivo da lontano le notizie che arrivavano ed era un tema molto presente nei miei pensieri all’epoca.

Oggi legge ancora narrativa? C’è qualche autore contemporaneo che le piace?

Non riesco a leggere quanto vorrei, però continuo a farlo, soprattutto i classici. Quest’estate ho fatto uno di quei viaggi che organizza Paolo Nori, sono stato a San Pietroburgo ad agosto. E quindi per prepararmi ho letto molti russi e, di conseguenza, sto continuando a farlo. Comunque seguo anche i contemporanei italiani, alcuni perché li conosco personalmente: ad esempio Dario Voltolini o Giulio Mozzi. Ho apprezzato molto anche gli scritti di Vitaliano Trevisan. Insomma, su quelli che hanno cominciato più o meno nel mio stesso periodo cerco di tenermi aggiornato.

C’è qualche storia che in questi anni avrebbe voluto approfondire per scrivere un racconto o un romanzo?

Sì, ci sono delle cose che ogni tanto vorrei scrivere ma poi non ho mai tempo per concretizzarle. Qualche anno fa ho cominciato a seguire Antonio Pennacchi, che ha scritto un’epopea sui suoi antenati, e mi sembra che molti scrittori contemporanei abbiano cominciato a parlare della madre o dei genitori. E in effetti a me è venuto in mente che sarebbe stato molto bello scrivere la storia di mia nonna, ma non succederà. Perché uno dei miei più grandi rimpianti è non averle chiesto in tempo di raccontare tutta la sua vicenda. Lei è nata in Tunisia negli anni ’20, poi nel ’45 tutta la famiglia si è trasferita in Italia e si è sparpagliata. Io non riesco a immaginare due situazioni più diverse, perché a Tunisi c’erano i tram, l’elettricità, il teatro, le case avevano i bagni, mentre nella campagna padovana dove è arrivata mia nonna c’era una situazione preistorica con pavimenti di terra, in mezzo ai campi. Secondo me è stata una cosa traumatica perché loro pensavano di essere in Africa e di vedere in Italia la civiltà, invece lei si è ritrovata nella periferia più arretrata dell’epoca. Purtroppo non ho le vere testimonianze, qualcosa dovrei ricostruirlo con la fantasia.

Lorenzo Germano

Giornalista professionista, lavora nella redazione di «TuttoRally» e «RS» e collabora con «La Repubblica Torino». Si occupa principalmente di motori, libri, cultura.

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