Alaa Faraj viene accusato e condannato ingiustamente di traffico di esseri umani dopo la "strage di Ferragosto", in cui 49 migranti muoiono nella stiva del barcone dove lui si era imbarcato con alcuni amici per raggiungere l'Italia e diventare calciatore. Divenuto capro espiatorio della vicenda, oggi è ancora in carcere. Ha imparato l'italiano, studia e, qualche volta, gioca ancora a calcio. Il suo libro racconta la sua incredibile e triste storia.
Leggere e far leggere Perché ero ragazzo (Sellerio) di Alaa Faraj, un ex calciatore libico arrestato al suo arrivo in Italia nel 2015 e condannato ingiustamente a 30 anni di carcere, è l’unica cosa che possiamo fare per ribellarci contro questa terribile ingiustizia. Che non riguarda soltanto questo ex ragazzo che oggi ha compiuto trent’anni, ma circa tremila persone che in Italia negli ultimi dieci anni sono state arrestate con l’accusa di essere “scafisti”.
Alaa – occhi neri e profondi, volto scavato, zigomi altissimi, sguardo severo ma dolce – assomiglia in modo impressionante alle foto che ho visto di mio padre da giovane. Sottolineo questa somiglianza improbabile, dopo aver visto la puntata della trasmissione Il fattore umano (Raiplay) dove Faraj racconta la sua storia con grande fermezza e commozione. Il tono pacato mi ha fatto pensare a un ragazzo d’altri tempi, dalla grande forza interiore, un ragazzo saldo, e soprattutto capace di perdonare chi lo ha accusato di qualcosa che non ha nemmeno mai pensato di fare. C’è un’assoluta corrispondenza con la voce narrante del libro, che è una voce pura, gentile, orgogliosa, matura, mai rabbiosa.
Alaa è nato nel 1995 a Bengasi, in Libia, madre insegnante e padre ingegnere. Nel 2015, con la Libia devastata dalla guerra civile, decide di fare una follia: partire insieme ai suoi due migliori amici, anche loro calciatori professionisti, per continuare a studiare e fare il calciatore in Europa. “Tra me e il mio sogno c’è solo il mare, veramente una cosa strana”, scrive. “Quel misterioso posto grande, in certi aspetti anche oscuro e fa paura, ma diventa l’unico amico di cui ti puoi fidare”.
Il 15 agosto di quell’anno, nel corso della traversata del Mediterraneo a bordo del barcone su cui viaggiava, muoiono quarantanove persone. Erano i passeggeri nella stiva, quelli che avevano pagato meno. Erano paria: muoiono asfissiati. Alaa nemmeno lo sa che ci sono persone rinchiuse sotto di lui, del resto ha passato l’intera traversata a vomitare, devastato dal mal di mare. Lui e i suoi amici al contrario avevano pagato tutto, anzi avevano chiesto addirittura un prestito (“Io che ho fatto prestare i soldi per pagare il trafficante e sono in carcere perché dicono che sono il trafficante”). La tragedia di questi uomini e donne morti per asfissia, ammassati nella stiva come bestie, è stata raccontata con delicatezza estrema da Gianfranco Rosi con il documentario Fuocoammare (Orso d’oro a Berlino nel 2016). Dalla stampa venne ribattezzata, con pessimo gusto, come la “strage di Ferragosto”. Sopravvissuti e giunti in Italia, Faraj e i suoi compagni si ritrovano capri espiatori della vicenda, accusati di traffico di esseri umani. Un’accusa falsa e frettolosa: c’era bisogno di trovare un colpevole.
Il processo di Alaa e compagni è stato uno dei casi più controversi della giustizia italiana. Le testimonianze dei sopravvissuti sono raccolte subito dopo il dramma, in condizioni di shock, e la difesa ha denunciato errori di traduzione e riconoscimenti imprecisi. Nonostante questo, la condanna è stata confermata in tutti i gradi di giudizio e la Corte d’Appello di Messina, pochi mesi fa, ha deciso di non riaprire il processo nemmeno a fronte di nuovi testimoni, pur definendo gli imputati “l’ultima ruota di un mostruoso ingranaggio del traffico di vite umane”, riconoscendo che fossero “moralmente non imputabili” e suggerendo di chiedere la grazia al Presidente della Repubblica. Faraj, che ha sempre sostenuto la propria innocenza, afferma di essere stato soltanto un passeggero, un ragazzo in cerca di salvezza e non uno scafista. Gli scafisti sappiamo benissimo dove sono, a volte anche su un volo di stato dall’Italia alla Libia.
Nel carcere, dove ha imparato l’italiano e iniziato a scrivere, Faraj ha ricostruito la sua vicenda su fogli di carta scritti in stampatello e spediti, lettera dopo lettera, ad Alessandra Sciurba, docente di filosofia del diritto, che lui ha conosciuto durante un laboratorio in carcere. La storia è diventata il libro che abbiamo tra le mani. In copertina un quadro con delle scarpette da calcio appese al chiodo. Le pagine del racconto sono intervallate dai messaggi di Alaa alla stessa Sciurba: sono parole accorate, riconoscenti, tenerissime. Nel gap anche temporale tra le due narrazioni – quella in presa diretta della sua storia migratoria e di detenzione e quella epistolare contemporanea alla stesura del libro, tra il tempo della storia e tempo del racconto – si annida l’amarezza di una vicenda senza lieto fine.
C’è un passaggio in cui Alaa, che da qualche anno è detenuto nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, racconta di una partita di calcio tra detenuti e studenti, con una vittoria netta dei primi. “Per me una forte emozione, come fosse tornare con il tempo di 5 anni fa. Questo è quello che mi ha spinto a prendere quella barca, a correre quel rischio. Questo è il mio sogno andato in frantume. Ma ora c’è la partita, un nuovo obiettivo, un nuovo traguardo, una sfida da vincere. E così è. Abbiamo vinto noi, per la prima volta [… ] detenuti battono studenti di fuori, modestamente grazie a noi, io e Abied. Infatti, dopo la partita i ragazzi ci avvicinano. C’è una grande curiosità, ci fanno delle domande, e la prima è: «Siete calciatori?»”.
La partita di calcio, che per noi è niente altro che una partita, per Alaa diventa di capitale importanza: è il momento in cui ritrova la sua identità perduta. E ritrova in un certo senso la speranza. Perché Alaa sa che prima o poi tornerà su un campo da calcio: “Per la giustizia italiana sono un trafficante, uno stragista”, ha detto Alaa alla presentazione del suo libro a Palermo per la quale ha avuto il suo primo permesso di uscita in 10 anni. “Ma essere con voi stasera ha cancellato anche questo. Non attaccherò mai l’istituzione e la giustizia italiana. C’è chi lo farà per me dimostrando la mia innocenza in un’aula di tribunale. Non cercherò compromessi né scorciatoie. Una parte dell’Italia mi ha condannato, ma sarò sempre grato a quell’altra parte dell’Italia che mi ha salvato, agli uomini e alle donne della guardia costiera. Dieci anni fa sono partito dalla Libia per fare il calciatore e studiare ingegneria: il primo sogno non posso realizzarlo ma i campi di calcio mi vedranno ancora, come allenatore”.
Perché ero ragazzo è scritto in un italiano inizialmente stentato (benché potentissimo) che diventa via via più ricco lessicalmente e meno paratattico. Un italiano che Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale, in un articolo su «Repubblica» ha definito sorgivo, perché imparato soprattutto a orecchio, e poi migliorato sui banchi di scuola. E la scuola, la sete di conoscenza, è l’altra parte importante di questa storia.
Alaa è figlio di una insegnante, cita spesso le sue prof, sia quelle del passato (“Mi è venuto in mente un consiglio di una mia insegnante alla scuola media che non posso dimenticare mai. Lei diceva quando siete arrabbiati delusi tristi e sentiti l’ingiustizia addosso ma anche quando siete felice, scrivete sempre”) sia quelle incontrate in carcere. La scrittura è dolorosa terapia, l’apprendimento è sempre trasformativo: “Quando imparo, la mia rabbia si scioglie”.
Oggi Alaa si è iscritto alla facoltà di Scienze politiche a Palermo.
In una delle lettere di Alaa a Alessandra Sciurba, scrive: “Tu mi vuoi bene perché sono Alaa, non perché sono un ragazzo partito con la barca per seguire un sogno andato male. Vero?” o ancora: “Sai, quando capita una ingiustizia a qualcuno, possibilmente quello diventa il suo argomento principale. Io non voglio. Non mi piace neanche raccontarla la mia storia, perché odio il senso di pietà e cerco di fare conoscere solo Alaa come sono, imparando, integrando, guadagnando conoscenza e cultura che sono la vera ricchezza”.
In questa domanda c’è una richiesta disperata. Alaa vuole essere visto come un essere umano, non come un caso giudiziario. Ma per lui il processo non finisce con la condanna: continua dentro di lui, nel tempo sospeso della detenzione, nella fatica di mantenere la propria identità, nella necessità di scrivere per non essere ridotto a numero. Scrivere diventa la sua forma di resistenza, la risposta più umana a una giustizia che non ascolta. E scrivere diventa la sua autodifesa più profonda: il tentativo di restituire senso a una vicenda che il linguaggio giudiziario ha svuotato.
La sua ostinazione nella scrittura mi ha fatto pensare a Behrouz Boochani, il giornalista curdo-iraniano che è stato detenuto per anni nel centro di detenzione di Manus Island, in Papua Nuova Guinea, dove ha scritto il suo libro Nessun amico se non le montagne, scritto interamente tramite messaggi di testo inviati dal telefono. Ho incontrato Boochani lo scorso settembre a Roma dove è arrivato dalla Nuova Zelanda per presentare il suo secondo libro, una raccolta di scritti Libertà, solo libertà (Add Editore, 2025).
Come Alaa, Boochani racconta la disumanizzazione di chi viene rinchiuso non per ciò che ha fatto, ma per ciò che è: un migrante, un richiedente asilo, un corpo indesiderato. Entrambi scrivono da una condizione di isolamento, ma la loro scrittura non è solo testimonianza collettiva: è un atto politico, un modo di opporsi al silenzio imposto. Entrambi spendono tantissime parole per i loro compagni di prigionia, per raccontare anche le storie altrui.
In questi giorni ho riletto qualche brano de Il processo e mi sono accorta che anche Josef K. aveva trent’anni. K. denunciava un potere che riduce l’essere umano a caso amministrativo, è stato il primo libro che ho letto dove la legge non corrisponde alla giustizia. Ma se nel capolavoro incompiuto di Kafka la voce di K. si spegne nella vergogna, Alaa Faraj scrive per restare vivo, per restituire un volto e una storia a chi è stato ridotto a numero.
Perché ero ragazzo è molto più di un’autobiografia: è una riflessione sul destino dei migranti, sull’assenza di vie legali di fuga, e su una giustizia che confonde le vittime con i carnefici. La storia di Alaa è la storia di un ragazzo che assomiglia a vostro padre o a vostro figlio, un ragazzo che non ha perso la speranza di tornare, un giorno, su un campo da calcio.