Lana Del Rey sale sul palco per proteggersi dal mondo - Lucy
articolo

Irene Graziosi

Lana Del Rey sale sul palco per proteggersi dal mondo

05 Giugno 2024

A rendere speciali i concerti di Lana Del Rey non sono solo le scenografie scintillanti, le coreografie studiate e l’imponenza dello show, ma la tenerezza dolorosa, goffa e sublime di un’artista che ha conquistato un pubblico vasto con la sua personalità.

Dagli altoparlanti una voce maschile avverte Melissa che sua madre la aspetta al bar alla destra del palco, mentre Giuditta dovrebbe recarsi al bar di sinistra, dove la attende suo padre. Al concerto di Lana Del Rey, organizzato in occasione degli I-Days, le persone non potrebbero essere più diverse le une dalle altre. Bambine accompagnate dai genitori, ragazze giovanissime venute da chissà dove che reggono cartelli con scritto “Hot girls skip school to go to Lana del Rey concerts”, una donna trans bellissima, altissima e discinta che si fa fotografare da un amico e che spiega che in America è normale farsi tutte queste foto, solo in Italia ci sembra una roba da provinciali.

Poi qualche uomo eterosessuale di mezza età che si aggira furtivo tra il pubblico, gruppetti di ragazzi che fanno casino. Appena fuori dalla calca, alcuni venditori ambulanti dall’aria patibolare tendono sopra le loro teste delle sciarpe di “Lana Del Rio”. Le volete? Quasi sold out. 

Un paradosso: il pop differenzia di più di altri generi musicali. A un concerto degli Slowdive so più o meno che tipo di umani incontrerò, come saranno vestiti, quale sarà il genere prevalente. All’ippodromo La Maura non capisco più niente. Le migliaia di persone presenti nel pit e pressate sugli spalti hanno in comune, all’apparenza, solo una cosa: tutte amano Lana Del Rey. 

Del Rey si materializza in cima alle scale di una scenografia che richiama quella di Sogno di una notte di mezza estate: una sorta di tempio in rovina, al chiaro di luna, i cui fasti sono stati divorati da rampicanti. Indossa un abito corto luccicante, un’acconciatura alta che evoca una torta nuziale ed è circondata da ballerine che scintillano come lei. Accanto a me una mia omonima croata, Irena, – che mi ha rimorchiata amichevolmente facendosi applicare due brillantini agli angoli degli occhi e che ha vinto alla lotteria il braccialetto per il pit – la guarda con occhi sgranati: I’m so excited. 

Siamo tutti very excited, soprattutto io, che non ho mai visto Lana dal vivo, se non forse a qualche Primavera Sound di tanti anni fa, ma i festival mastodontici, con la scelta smisurata che offrono, hanno la peculiarità di uniformare i ricordi fino a diluirne la potenza.

I dischi di Lana li ho consumati tutti, e l’ultimo Did you know that there’s a tunnel under Ocean Boulevard, mi è piaciuto al pari di Norman Fucking Rockwell!. È difficile orientarsi nella produzione di Lana del Rey, perché oltre a essere estremamente prolifica, il suo immaginario può restare sulla superficie delle cose fino a farne una sofisticata quinta teatrale, una statale americana che si srotola nel deserto, lungo un passato indefinito popolato da uomini inguainati nel denim, cadillac cabriolet, motociclisti dalla pelle color cuoio.

“Del Rey si materializza in cima alle scale di una scenografia che richiama quella di ‘Sogno di una notte di mezza estate’: una sorta di tempio in rovina, al chiaro di luna, i cui fasti sono stati divorati da rampicanti”.

In questi casi Lana è un’attrice bravissima, un’artista pop talentuosa, eppure è più difficile, almeno per me, scorgere ciò che di più profondo anima questi suoi lavori. Forse perché è lei stessa ad aver raccontato il periodo della sua vita che ha coinciso con i suoi primi dischi, come di una fase di stasi nel suo sviluppo personale e artistico. Si trovava in una situazione violenta, oltre che ossessiva, da cui non riusciva a evadere. L’ossessione non è mai profonda, sebbene la domanda che pone sia sincera, ed è Del Rey stessa ad aver confessato il suo sollievo per esserne finalmente uscita, sia intimamente che artisticamente. 

Nel corso della sua carriera, Lana Del Rey è stata criticata, anche violentemente: perché non promuoveva un ideale di donna empowered,  per il suo immaginario ultrawhite – che secondo qualcuno si scontra poi con il colore della pelle dei suoi collaboratori più stretti e le influenze black, soprattutto nel suo ultimo disco –, per aver scherzato con un giornalista dicendo di volersi ammazzare, dichiarazione che diede il titolo a un pezzo molto discusso (Lana del Rey ora registra le rare interviste che concede in caso qualcuno provasse a manipolare di nuovo le sue parole), criticata per il suo aspetto fisico. Per alcuni, è difficile intravedere un’autenticità oltre gli strati di fondotinta, i capelli cotonati, le unghie rosa cipria, le ciglia innaturalmente lunghe, i lineamenti ritoccati in un modo che la fanno vagamente assomigliare a un extraterrestre. 

In effetti, anche durante il concerto, il viso di Lana del Rey è l’elemento più magnetico dell’intero show. Quando i mega schermi ne mostrano in primo piano il volto tondo e fulgente come una moneta, gli occhi vicini tra loro, la punta del naso che si arriccia sopra il labbro superiore più turgido di quello inferiore, Del Rey rivela un’aria dolcemente tonta e svanita, da bambina negletta che, nel tentativo di avvicinarsi a una madre distante, le ruba gli abiti, sperimentando un modello di femminilità ipertrofica alla quale non è pronta.

E poi, improvvisamente, le camere le inquadrano il profilo perfetto, il mento arrotondato come una mela, le labbra che sbocciano in un sorriso che si schiude come una peonia, i boccoli che scendono fino alla schiena, e finalmente perdono la loro rigidità da debuttante e acquistano un’aria scarmigliata e malinconica. Si ha l’impressione che Lana, un’artista timida, solitaria – lei stessa racconta di quando Kanye West la invitò a suonare per sua moglie Kim e le sue sorelle e Lana andò, fece qualche brano, e poi “I stayed forty minutes and I left” – non sia attrezzata per il pubblico, per la fama, per gli sconosciuti, e l’unico modo che ha per difendersi sia indossare la sua armatura di boccoli, rossetto e ciglia.

Ai concerti delle pop star si va con l’aspettativa di assistere a un grande show, di vedere una talentuosa performer, ed è toccante quando ci si ritrova invece di fronte a una verità semplice e profonda, che non si aveva previsto: dietro il trucco, le ballerine, l’industry, i milioni di dollari, le foto dei paparazzi che le immortalano più grasse e più magre, i gossip, e i video patinati e molto estetici a bordo piscina c’è una pulsione artistica che è intima, senza pelle e luminosa, ed è da lì che origina tutta l’enorme e complessa macchina che circonda queste artiste e che è talmente pesante che a volte rischia di schiacciarne il cuore. 

E con Lana del Rey questa pulsione si intravede da tutto ciò che tradisce la sua maschera: l’esitazione che precede ogni suo movimento, l’attenzione con cui accavalla le gambe, la goffaggine con cui muove le mani, ma soprattutto quando posa lo sguardo da un punto a un altro è come se trascorresse un istante prima che la coscienza lo raggiunga, ed è in quell’istante che il suo spirito non è difeso, che i suoi  occhi rivelano una vulnerabilità talmente primordiale e seducente e libera da dover essere protetta a tutti i costi. Una persona cara che l’ha ascoltata al Primavera Sound mi ha riferito che un suo amico, osservando Del Rey, ha detto: sembra che sia in pericolo. 

È su questi attimi che si regge il suo concerto, e su un clima di indolenza sensuale e negligente: le ballerine di Lana del Rey si muovono languide sul palco, nessuna di loro dà l’idea di affaticarsi troppo, sembra quasi che siano lì per caso, a esprimere una femminilità irresistibile nella sua pigrizia sorniona e nichilista, e al tempo stesso romantica.

A un certo punto una drappello di giovani maschi si è buttato scompostamente nella folla, e io e chi mi stava intorno ci siamo subito guardate terrorizzate all’idea che il loro arrivo potesse minare l’esperienza di connessione che stavamo costruendo con Del Rey. E invece, dopo poco, i maschi si sono spenti e ammutoliti, ipnotizzati da un esercito di donne che non faceva nulla per eccitarli, e proprio per questo era ancora più attraente. 

“Ai concerti delle pop star si va con l’aspettativa di assistere a un grande show, di vedere una talentuosa performer, ed è toccante quando ci si ritrova invece di fronte a una verità semplice e profonda, che non si aveva previsto”.

Mi chiedo anche se non sia proprio a causa di questa sua volontà di difendersi che Lana non suoni il suo ultimo disco per intero, e che non l’abbia mai fatto neanche con i precedenti. Le sue setlist sono popolate dalle sue hit, un paio di brani – i più ascoltati – dell’ultimo lavoro. Ed è strano ascoltare tutte queste canzoni così pop quando Ocean Boulevard contiene interrogativi enormi sulla morte, Dio, e Lana stessa, come quando in Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing canta:

I know they think that it took thousands of people / To put me together again like an experiment / Some big man behind the scenes / Sewing Frankenstein black dreams into my songs / But they’re wrong / God, if you’re near me, send me three white butterflies /Or an owl to know know you’re listening, sitting while I’m drinking

E poi: 

I’m folk, I’m jazz, I’m blue, I’m green / Regrettably, also a white woman / But I have good intentions even if I’m one of the last ones / If you don’t believe me, my poetry, or my melodies / Feel it in your bones

Forse è una richiesta di essere vista, amata, riconosciuta, troppo disperata per essere espressa davanti a un pubblico così vasto? Altri pezzi, invece, dolci e malinconici e solo all’apparenza altrettanto intimi, si adattano di più. Infatti l’ologramma di Lana argenteo e luccicante gira su se stesso come il carillon dimenticato di un’epoca lontana mentre lei canta: 

Don’t ask if I’m happy, you know that I’m not / But, at best, I can say I’m not sad / ‘Cause hope is a dangerous thing for a woman like me to have / Hope is a dangerous thing for a woman like me to have

Quando il concerto è finito la folla si incammina sguazzando nella fanghiglia dell’Ippodromo e io mi chiedo ancora una volta cosa mi accomuni alla marea di persone che avevo accanto. Credo che nessuno di noi desideri l’immaginario più superficiale di Del Rey, quello composto da fughe romantiche con uomini foderati di jeans che non sanno amare.

Dubito che sia la trama delle storie che Lana del Rey ha cantato al pubblico negli anni a risuonare con le fantasie più intime dei suoi fan. Quello con cui però tutti risuoniamo è il desiderio che ha Lana di essere amata, e che ci fa sperimentare, anche solo per la durata di un pezzo, come ci si sente a essere qualcun altro pur essendo così diversi da lei.

Se non è arte questa, non so cos’altro possa esserlo. 

Irene Graziosi

Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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