Le mie presentazioni - Episodio II - Lucy sulla cultura
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Rosa Matteucci

Le mie presentazioni – Episodio II

Scioperi ferroviari, immondi fetori, villane provocatrici, martelli pneumatici e polli stopposi piantati nell’esofago: il secondo capitolo delle tragicomiche presentazioni letterarie di Rosa Matteucci.

Per il ciclo demenzial-turistico delle mie avventure letterarie, eccoci alla seconda attesissima puntata delle mie disgraziate presentazioni. La meta dove fui invitata  a presentare l’opera Cartagloria – in genere quando il richiedente ti sommerge di mail e chiamate moleste è quasi certo che la faccenda ben presto andrà, come suol dirsi, in vacca e in questo caso la regola fu rispettata se non superata – trovasi sul liminare del perfido catino padano che vede stagnare i calori più mefitici e imperare le zanzare plus.

Opime lande di piantagioni di pannocchie, coltivate non certo a uso alimentare quanto industrial-energetico, da cui si leva un soffocante calore vegetale da giungla nera come quella che era il nascondiglio di Tremal Naik. Organizzato il viaggio in treno, eccoti che giusto nella data fissata per la mia epifania i ferrovieri decidono di scioperare, pertanto non ho mezzi a disposizione per raggiungere il simposio. Di norma il buon padre di famiglia avrebbe bonariamente proposto di farmi trasportare da un vettore a pagamento, macchina con autista, eventualità già occorsa in passato, ma tale ipotesi non fu ventilata nemmeno per sbaglio, né io chiesi, non volevo infierire, pertanto mi risolsi a cercare da me un passaggio con Blablacar, stante l’ottimo servizio sulla tratta Genova-Milano (per inciso, si noti che avendo pagato il biglietto ferroviario l’ospite non avrebbe rimborsato la blablacar).

Trovai il passaggio non particolarmente comodo, dal casello di Genova est afferente al superbo cimitero monumentale di Staglieno, fino al forum di Assago. Prenotai con entusiasmo. Alla mia modesta richiesta – rivolta al tizio che mi telefonava di continuo e che era il responsabile organizzatore della scellerata  impresa –  di recuperarmi egli stesso con la sua vettura ad Assago Forum, il malnato con una serie di melliflui raggiri mi convinse a raggiungere con la metro (la stazione della metropolitana, che sorge a circa 500 metri dal parcheggio ove fui scaricata con il mio valigino) la fermata di Porta Genova. Giunta a Milano bisognosa di un ristoro, soprattutto per espletare un bisogno fisiologico, alla mia richiesta di andare al bar il tizio si mostrava seccato per l’ulteriore perdita di tempo. Fui costretta a bere un caffè che proprio non mi andava solo per giustificare l’uso del gabinetto. Compii il viaggio da Porta Genova al paese del soldatino con il bavero color zafferano e una marsina color ciclamino che allegramente marciava verso la sua innamorata, imbottigliata in un traffico poderoso per oltre due ore. In auto, oltre all’organizzatore, sedeva la di lui fidanzata che era stata la causa prima della mia andata in metropolitana a Porta Genova – ella vive a Desio e così si faceva un po’ di strada per uno disse il fidanzato – e per grazia di Dio anche una giornalista di «Repubblica», che fu il mio angelo custode.

Giunsi al luogo dell’incontro con lo sparuto pubblico, fra cui spiccava una villana capisciona e provocatrice, con imperdonabile ritardo, si consideri che per prendere la Blablacar al cimitero ero uscita di casa alle 13,30 e mi ero trascinata in autobus, gremito di studenti, in un parcheggio dove attesi quaranta minuti la macchina che giunse a comodo suo. Fatto il mio ingresso in sala, in prima fila una ragazzetta con occhialoni di bachelite con sguardo grifagno e incattivito, sputata a uno di quei freaks ritratti nelle foto della compianta Diane Arbus, alla sua destra la sciura provocatrice cotonata e imbrilloccata – era comunque bigiotteria –, che a un certo punto ha bofonchiato una qualche offesa mascherata da domanda, in terza fila una zelante cattolica romana antipatica e venuta lì con l’idea di seminar zizzania.

Alle 19.30 il consesso si sciolse e con la giornalista fummo costrette a visitare certi uffici della provincia, ornati di quadri di celebrità locali, si soffocava dal caldo. Fuori, sulla pianura ottusa da una cappa bianchiccia di umidità, forse generata dalle piantagioni di pannocchie a perdita d’occhio, stagnava un fetore immondo: le opime lande erano state concimate giusto quel pomeriggio. Fui accompagnata a prendere possesso della stanza d’albergo. Trovasi l’ostello di fronte alla stazione ferroviaria. Niuna presenza umana, si accedeva con un codice. In una hall stile anni Settanta, divano crepato di similpelle marron cacca di lattante, colonnine tortili ornate di sculture amatoriali ovvero di sgargianti penne di pavone, recuperai la chiave da un totem di plastica a imitazione di un cactus.

La stanza: frigorifero Zoppas che produceva il rombo degli eserciti dell’Armageddon, armadio marron con anta periclitante, sulla porta lato interno lamina di metallo che ribadiva in tre idiomi il divieto di cucinare e accendere fuochi in camera. Mi sono chiesta chi mai alloggiava in quell’ostello e si vocava al culto del fuoco, che genere di viaggiatori frequentavano quel luogo? Erano forse sacerdoti del culto di Agni? Non sono stata capace di trovare una risposta. In bagno invece dei consueti set di saponi c’era una confezione famiglia usata per metà di detergente liquido per le mani alla passiflora. A memoria della tristezza dell’alloggio mi feci scattare una foto dalla giornalista angelo custode, scatto che, stante la mia eclatante mestizia, potrebbe intitolarsi “Stato d’animo della Matteucci nella città di K”.

“Giunsi al luogo dell’incontro con lo sparuto pubblico, fra cui spiccava una villana capisciona e provocatrice, con imperdonabile ritardo, si consideri che per prendere la Blablacar al cimitero ero uscita di casa alle 13,30 e mi ero trascinata in autobus, gremito di studenti, in un parcheggio dove attesi quaranta minuti la macchina che giunse a comodo suo”.

Lo scoramento per la modestia della stanza sarebbe comunque stato dissipato dalla tradizionale cena che viene offerta alla scrittrice in trasferta, ove di norma per fare bella figura la si deporta nel ristorante più elegante della città. Non vado certo a fare le presentazioni per mangiare, ma quel giorno ero stanca, avevo viaggiato male,  ero digiuna dal mattino e desideravo un ristoro. La cena prevista per la scrittrice: bar di tamarri con musica techno al centro del paese. Menù: patatine fritte e bevande alcoliche e non. Sono astemia, bevo soltanto acqua, sono intollerante al lattosio e non mangio le patatine industriali dal 1973. Alla mia richiesta su cosa offriva la casa  di caldo per cena, scoprii che la barista versione dark-techno-punk di provincia mi avrebbe potuto servire un bel toast industriale di pasta di formaggio senza blasone e lacerti di spalla cotta. 

Fedele al mio stile di romantica donna inglese ormai risentita chiesi un the caldo, che la barista dark-techno-punk mi servì con sguardi di eloquente commiserazione. L’organizzatore invece beveva lo spritz e ciancicava le patatine. A quel punto mi sono veramente innervosita e ho chiesto spiegazioni all’organizzatore sul trattamento lumpen-proletario che mi era  stato riservato ma Il figuro faceva spallucce, anzi mi rispondeva per le rime; alla mia richiesta di darmi il cellulare dell’assessore alla cultura per protestare, egli si risolse a combinare una cena rimediaticcia presso una locale pizzeria consorziata con il barettaccio. 

Essendo offeso non partecipò, pertanto ci avviammo mestamente io e la giornalista presso la pizzeria, non mangio mai la pizza di sera, dove in mezzo a un gran casino, tavolate di addio al nubilato et similari, optai per una Caesar Salad che mi fu servita dopo 45 minuti. Le slerfe di pollo delle dimensioni di una lippa erano occultate sotto foglie di insalata in busta del supermercato, frammiste a fiammiferi di carota rinsecchiti. Il dressing non c’era. Vuoi per il nervoso vuoi per le dimensioni incongrue del pollo, mi sono mezza soffocata. La lippa di pollo mi si era incastrata  con tenacia nell’esofago. Fui circondata da tutti i camerieri nonché dal pizzettaro titolare, ero lì lì per crepare. Infatti mi sono fatta rubizza come una beona.

Più tardi nelle tenebre, ormai salva ma con un tremendo mal di stomaco e gola, una volta raggiunto l’albergo scopro che per quella notte sono in programma lavori straordinari di manutenzione sulla linea ferroviaria, due operai ci davano dentro con il martello pneumatico. Dopo circa mezz’ora di fracasso mi risolsi a chiedere un cambio di  stanza. Un signore incredibilmente gentile mi consegnò la seconda chiave. Ho riparato in un angusto camerino con finestra stile feritoia e letto a una piazza e un quarto, senza comodino, con un minaccioso schermo tv infisso alla parete, ove almeno non si sentivano i fragorosi lavori in corso. Aleggiava un sentore antico di muffa che rimandava alla nostalgia per il salotto di Nonna Speranza. Verso le cinque, sul far del giorno, decisi di riguadagnare la stanza primigenia, quella ove era vietato accendere fuochi e quindi compiere sacrifici umani. Sorpresa! A quell’ora un solerte addetto municipale ramazzava le foglie sul piazzale della stazione con rombante aspiratore. Mi ritemprai con una rapida colazione a base di caramelle di erba cantoria già ciucciate e reincartate a futura memoria.

L’avventurosa nottata sarebbe stata cancellata dall’imminente visita alla collezione anatomica di Paolo  Gorini, illustre mazziniano, che bramavo di vedere dal remoto 1983 quando esaltata dalle letture di Lombroso avevo scoperto che esisteva un lascito presso il Paolo Pini di Lodi dell’illustre professore, noto con il nome di Pietrificatore, gran maestro dell’imbalsamazione, sia di corpi intieri che di parti dei medesimi, come mani e teste.

Il metodo di imbalsamazione detta pietrificazione usato dal Gorini non fu mai decifrato. Negli anni Ottanta i reperti non erano visibili perché dimenticati in uno scantinato, da cui sono stati riesumati pochi anni fa per allestire due deliziose sale. Avevo accettato di fare la presentazione soprattutto per poter vedere finalmente i preparati, il malnato che mi aveva invitato, quello della cena al bar tamarro, aveva affermato, mentendo, che mi avrebbe fatto aprire il museo ad hoc, cosa che mi aveva lusingato. Una volta lì ho scoperto che soltanto il sabato mattina il museo è aperto al pubblico, mentre gli altri giorni solo su prenotazione. Sono andata di sabato mattina, ovviamente con uno stato d’animo non dissimile da quello dei corpi apparecchiati dal pietrificatore. Se volete dare un senso a questa mia avventura, leggete con profitto le graziose spigolature sulla vita del Gorini nelle Note Azzurre di Carlo Dossi.

Il primo episodio de Le mie presentazioni si legge qui.

Rosa Matteucci

Rosa Matteucci è scrittrice. Il suo ultimo libro è Cartagloria (Adelphi, 2025).

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