Licia Pinelli non si è mai arresa - Lucy sulla cultura
articolo

Lavinia Nocelli

Licia Pinelli non si è mai arresa

12 Giugno 2025

Dopo la morte del marito Pino, nel 1969, ha affrontato lo Stato, i sospetti e la solitudine. E ha trovato nella sua città d’origine, Senigallia, il luogo da cui continuare a chiedere giustizia.

“Succede una cosa così, enorme, che coinvolge una persona che hai conosciuto bene, che viene accusata di avere responsabilità in una strage e di essersi suicidata, e loro ci sono”, racconta Claudia Pinelli, figlia di Giuseppe “Pino” Pinelli e Licia Rognini, mentre un pigro sole si fa spazio nel pallore milanese. Con “loro” Claudia si riferisce ai parenti marchigiani di sua madre. “Non era scontato”, perché quando suo padre muore nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, precipitando dalla finestra della questura di Milano, c’è chi crederà alle versioni ufficiali e alle menzogne raccontate inizialmente dalla stampa. 

“Senigallia è stato un luogo rifugio”, continua Claudia. Lì Licia Rognini Pinelli poteva essere se stessa, senza maschere e ruoli. “Qui non era solo la vedova di”, e i suoi familiari senigalliesi non hanno mai avuto dubbi sulla posizione da prendere. La casa di Anna, la cugina di Licia, affaccia sul Misa, il fiume che divide Senigallia in due metà. Ai muri si alternano dipinti e fotografie d’epoca in bianco e nero, alcune un po’ sbiadite. Anna ne prende una che raffigura tre ragazze intente a chiacchierare sulla Terrazza centrale del Duomo di Milano. “‘Venitemi a trovare ma portate da mangiare’, ci diceva, e noi salivamo a Milano con la macchina”. Era Pino quello che cucinava in casa. “Quando veniva qui voleva rilassarsi, non voleva parlare molto di quelle cose. Lei non diceva, e noi non chiedevamo”, specifica Anna, “ma è stata sempre grintosa, questo scrivilo. Una donna seria, come si vede nelle foto”. Nei giorni a cavallo della strage di piazza Fontana e la morte di Pinelli l’aria era irrespirabile: Licia si sentiva soffocare, stretta tra un’iniziativa e un’altra e marcata dai troppi ricordi, con l’ambiente politico locale che a ogni anniversario si riempiva di voci, parole, sconosciuti. Allora partiva da Milano, in un viaggio lungo e segnato da un groviglio di sentimenti: le campagne marchigiane si aprivano nella loro sinuosità, con le case basse e colorate vicino alla costa e l’Adriatico piatto e sabbioso a difendere l’orizzonte. Licia cercava un posto dove poter sparire e allontanarsi dalle pressioni, spiega Claudia, che la mettesse al sicuro da sguardi invadenti. E Senigallia era il luogo ideale: c’era il rumore del mare, lo sguardo schivo del paese e la riservatezza ruvida dei marchigiani. Non si poteva andare via definitivamente da Milano, prosegue Claudia, “perché sarebbe stato un dargliela vinta”, ma serviva un luogo più protetto per lei e Silvia, ancora bambine, almeno d’estate. Licia allora aveva comprato una casa da ristrutturare, che portava ancora i segni del terremoto che nel 1930 aveva scosso la città, ma in una buona posizione: vicino alla ferrovia che costeggiava la spiaggia chiara e arenosa e ne attutiva il suono. L’ostilità del vicinato era tangibile, l’atteggiamento maldisposto si ripercuoteva nei piccoli gesti della vita quotidiana, nei dispetti dettati dalla diffidenza e dalle voci diffuse su Pinelli. E all’inizio non fu semplice. “Scendeva con un suo carico non indifferente di preoccupazione e tensione”, precisa Claudia, “ma non ha mai modificato il suo comportamento, sereno e dignitoso, cercando di preservare la sua vita privata”, perché la battaglia che Licia ha portato avanti non era per se stessa o solo per il marito assassinato, ma per tutti. “Non è scontato resistere come ha fatto lei, malgrado le delusioni e le porte in faccia. Scontrarsi contro i muri di gomma innalzati dalle istituzioni, lottare per anni per avere risposte”, affrontare un potere che è creduto e che si avvale dell’informazione per consolidare la propria versione. “Le cose non sono andate così”, contestava Licia, “non come ve le hanno raccontate”, ed è andata avanti con la sua lotta.

Irma Diambra e Giovanni Rognini, genitori di Licia, lasciarono Senigallia per Milano alla fine degli anni Venti, quando arrivò la chiamata dalla Pirelli. Licia aveva 18 mesi. Senigallia era un luogo di migrazione, il lavoro scarseggiava. “Mio nonno non aveva preso la tessera del fascio, e pur essendo falegname nessuno gli dava più lavoro”, spiega Claudia. Da lì il trasferimento, e nelle Marche si tornava solo durante le ferie. A Licia il mare non piaceva, ma Senigallia era un luogo a cui era profondamente legata, e così anche Pino. “Mamma mia, quant’era svelta quando camminava. Io non ci stavo dietro!”, ridacchia Anna, sistemandosi un ciuffo grigio dietro l’orecchio. Si andava anche in spiaggia, si faceva il bagno, qualche volta al cinema. L’emozione offusca la memoria di Anna mentre parla dell’affetto che la lega a Licia: nei ricordi si intrecciano le date, qualche nome, i dettagli dei palazzi popolari di viale Monza si mescolano con quelli della ristrutturazione della casa vicino la ferrovia. Durante gli anni ‘70 l’eco delle manifestazioni di Milano arrivò a bussare alle porte dei vicini, riverberando. “Francisco Ferrer era là/caduto in un tetro fossato/e gli uccisori incoscienti/sfilavano avanti il cadavere insaguinato di colui/che voleva redimere anch’essi infelici/”. Sono i versi scritti da Giovanni Pascoli e dedicati alla memoria del pedagogista anarchico Francisco Ferrer, condannato a morte dal regime monarchico spagnolo, che gli anarchici senigalliesi vollero riprendere e incidere in una lapide commemorativa posta nel 1959 a ridosso del Foro Annonario, luogo simbolico e baricentrico della città.

Nonostante la repressione fascista avesse colpito duramente il movimento, negli anni a cavallo tra il ’50 e ’60 le Marche continuarono a essere un terreno fertile per l’anarchismo italiano, eredità di una lunga tradizione libertaria risalente al XIX secolo. Una presenza che a Senigallia era già forte e tangibile agli inizi del ‘900, come testimonia la “Settimana Rossa”, la più grande insurrezione popolare prebellica che nel 1914 da Ancona si propagò in tutte le Marche e nelle vicine Toscana ed Emilia Romagna. Quando Licia nasce nel 1928, a soli quattordici anni dall’evento, il clima politico instaurato da Mussolini era dilagante: il fascismo sottoponeva a una dura e costante repressione ogni oppositore politico, e socialisti, comunisti e anarchici furono colpiti sistematicamente da violenze squadriste, carcere, confino e uccisioni. Coloro che rifiutavano la tessera del fascio venivano estromessi dalla vita civile. Un destino che toccò anche Giovanni, il padre di Licia, anarchico che in passato aveva partecipato alla Settimana Rossa, costretto a trasferirsi a Milano in cerca di lavoro. Per questo, a Senigallia il gruppo degli anarchici non credette alle versioni inizialmente diffuse. “Pino sembrava ancora più grande di quello che era: si presenta in questa sede che era aperta tutti i giorni, nel pomeriggio, ed era vicino Porta Fano. C’era un anziano in pensione a gestirla, un piccolo bar e i ragazzi della zona che venivano”, racconta Enrico Moroni, dell’Unione Sindacale Italiana. Erano entrambi giovani: lui figlio di un anarchico, e Pino ferroviere e anarchico milanese. “Lui aveva questa capacità di tessere i rapporti un po’ con tutti. Era impegnato nella Crocenera anarchica”, la struttura di sostegno dei militanti in carcere, “manteneva la corrispondenza, mandava i libri. Scriveva lettere ai suoi compagni, ingiustamente incarcerati, in cui esprimeva le sue posizioni pacifiste”. Poi arriva il dicembre del 1969. “Quando ho appreso dai telegiornali la notizia di quanto accaduto a Pino mi trovavo a Senigallia, dove ero ritornato per sfuggire alle retate in corso dopo la strage in piazza Fontana della quale si incolpavano gli anarchici. Né io, né mio padre abbiamo dato credito alla versione della Questura e siamo immediatamente partiti per essere presenti ai funerali. Mio padre era tra i pochi compagni anziani arrivati da fuori Milano”. Enrico ricorda la folla, lo sgomento, le bandiere sventolare e la polizia dovunque. “Era anarchico, era stato partigiano ed era innocente”. Bisognava unirsi e chiedere giustizia allo Stato.

Il libro La strage di Stato, di Eduardo Di Giovanni, Marco Ligini ed Edgardo Pellegrini, esce a sette mesi dall’attentato di Piazza Fontana, e raccoglie informazioni e testimonianze per ricostruire le responsabilità dei fascisti e degli organi istituzionali nell’azione compiuta il 12 dicembre 1969. Dedicato alla memoria di Pinelli, la controinchiesta è frutto del lavoro di giornalisti, avvocati e giovani militanti della sinistra extraparlamentare (e non), che nella loro diversità si uniscono nel progetto. Cercare di cambiare una falsa narrazione per reagire a una violenza imposta, e correggere l’atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica che era convinta di quello che era stato detto. Che dietro la strage di Piazza Fontana ci fosse la mano degli anarchici, e quindi di Pinelli e degli altri compagni inizialmente sospettati, interrogati e incarcerati ingiustamente. “Momenti che sono durati anni”, chiarisce Claudia, che Licia affrontò a testa alta, senza cercare la validazione degli altri e “con una dignità incredibile”, mentre la sua vita veniva scandagliata. Rifiutando l’idea di diventare un personaggio pubblico, un simbolo nazionale. Diceva Licia: “Uno Stato che non vuole riconoscere la verità è uno Stato che non esiste. Io non mi sento sconfitta perché non ho avuto giustizia nelle aule di tribunale. Giustizia è che tutti sappiano la verità”. All’età di 96 anni, lo scorso 11 novembre, se n’è andata. “Ha vissuto tanto e intensamente”, ricorda Claudia. E a Senigallia la cittadinanza si è mossa per renderle omaggio. Fabrizio Marcantoni, titolare della libreria Ubik, ha lanciato una raccolta firme da consegnare al sindaco per fissare un ricordo perenne di Licia nella sua città natale. L’idea è nata dopo un convegno tenutosi in sua memoria a pochi giorni dalla sua scomparsa nella Biblioteca comunale cittadina, a cui ha preso parte Silvia Pinelli, una delle figlie. “L’iniziativa vuole dare un segno. Al di là del fatto pubblico, la dignità di Licia non tiene conto degli schieramenti politici”, spiega Fabrizio. Fuori dalla libreria c’è un espositore per manifesti che illustra la mozione e invita a partecipare. Fabrizio prende un plico di fogli e legge i nomi: c’è chi arriva da Venezia, chi da Milano, Trieste, poi naturalmente Senigallia, i paesini limitrofi, ancora Milano, Treviso, Reggio Emilia, dall’estero. “Era conosciuta qui, veniva spesso d’estate: aveva gli amici, i vicini, la mia generazione sa chi è”, eppure hanno firmato molti giovani. “È sorprendente, perché dopo sessant’anni ti accorgi che la memoria è ancora viva”, continua Fabrizio. “È stata una donna straordinaria”, e l’eco della sua storia continua a esserlo. Al Liceo Enrico Medi di Senigallia, durante la programmazione dell’attività di educazione civica durante il consiglio di classe d’ottobre, è stato presentato un progetto sul Bene Comune per riflettere sull’importanza di intitolare spazi pubblici alle figure femminili che hanno segnato la storia, la scienza, l’arte e la cultura della città. “Ho proposto ai ragazzi di fare una mappatura della città, di dividersi in zone e fare dei sopralluoghi”, spiega Paola Via, docente di lettere del liceo. “Abbiamo ragionato sul fatto che Licia appartiene a una storia locale che si può agganciare alla grande storia. Ciò ha permesso ai ragazzi di conoscere più a fondo gli anni di piombo, il silenzio delle stragi, le sentenze che ancora rimangono vaghe. Come si attiva una collettività”, spiega Paola, perché nonostante la verità giudiziaria non sia ancora emersa, “c’è una comunità che ha lavorato in questa direzione”. Il senso di giustizia di Licia ha investito generazioni e lasciato un segno, perché difendere e proteggere la memoria di Pino ha significato, in una prospettiva più ampia, sostenere e far rispettare i diritti di tutti. Ha continuato a viaggiare, lavorare, cantare, scrivere, fare yoga, interrogare lo Stato, chiedendo verità e giustizia. Rifiutando il ruolo che le volevano imporre, e tenendo il privato stretto a sé. “Io sono così, sarete voi a cambiare”, ha detto, e così è stato fino alla fine.

Lavinia Nocelli

Lavinia Nocelli è una giornalista freelance e fotografa che si occupa di migrazione, diritti e salute mentale. I suoi lavori sono stati pubblicati da testate italiane e internazionali tra cui «BBC», «The Independent», «The New Arab», «L’Espresso», «Irpi», «Avvenire», «Il Manifesto», «La Stampa», «RSI», tra gli altri.

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