Laura Pezzino
Il saggista e filosofo esordisce al cinema mettendo in scena, tramite uno dei capolavori più perturbanti della letteratura inglese, la propria storia e quella di un'intera comunità.
Chi ha paura di Virginia Woolf? Sono ancora in tanti, tantissimi.
E non è un caso che Orlando. My Political Biography, il primo film documentario di Paul B. Preciado, scrittore di culto, filosofo, uomo trans e riferimento per gli studi di genere e le politiche del corpo, sia proprio un omaggio, sotto forma di lettera d’amore, a Orlando. Una biografia, il folle romanzo tuttora pilastro della cultura queer dove Woolf, nel 1928, raccontava con una pulizia e una visionarietà che ancora oggi strabiliano, di un personaggio che durante la propria vita cambia sesso e da maschio diventa femmina. Per Preciado, infatti, Woolf è uno dei primi autori non binari della letteratura occidentale.
Prodotto da Arte Tv France, selezionato dalla Berlinale nel 2023 e vincitore di un Teddy Award (“non mi aspettavo tutti questi riconoscimenti. Quando mi hanno chiamato da Berlino pensavo che avessero sbagliato”, mi dice al telefono), Orlando. My Political Biography fonde, con successo, le parole di Woolf con i racconti in prima persona di un gruppo di “Orlando”, persone trans e non binarie di varie generazioni selezionate dallo stesso Preciado in un casting partecipatissimo. A ciascuno di loro viene fatta indossare una gorgiera, il colletto distintivo degli aristocratici nel 16° secolo, che nel film si trasforma in un oggetto a metà tra un’armatura e un superpotere. Tra di loro ci sono adolescenti e bambini che compaiono per la prima volta di fronte a una camera da presa, ma anche “celebrità” come Jenny Bel’Air, icona trans delle notti parigine degli anni Ottanta e, sul finale, quasi un regalo per chi la venera come autrice e personaggio pubblico, vediamo un cameo della regista e scrittrice Virginie Despentes, a lungo fidanzata con Preciado.
Girato in tre anni, Orlando. My Political Biography è un film non convenzionale (la scena madre è ambientata in una sala operatoria, ma non è quello che immaginate), commovente e bellissimo. Una delle cose più sorprendenti è che i vari Orlando, ben prima di approdare a un cambio di genere, devono attraversare altre tre metamorfosi: la prima è la poesia, definita “la possibilità di cambiare nome alle cose”, poi vengono l’amore e la creolizzazione, ossia ibridazione tra culture differenti, e soltanto a questo punto i protagonisti sono pronti a cambiare sesso.
Alla sua prima esperienza da regista, Preciado dice di ispirarsi a Godard e Pasolini, ed è proprio grazie alla verginità del suo sguardo, comune a questi altri due visionari, che l’intellettuale riesce a introdurre tutta una serie di invenzioni e sperimentazioni. Lo stesso modo che ha di usare la macchina da presa è non gerarchico, un richiamo allo stream of consciousness woolfiano, ma più banalmente alla vita stessa, che se crea gerarchie è per confonderle il minuto successivo.
Paul B. Preciado, la cui voce narrante accompagna lo spettatore nel corso del film, è nato nel nord della Spagna nel 1970 e vive a Parigi. Tra i suoi libri usciti in Italia, tutti tradotti dall’editore Fandango, ci sono Manifesto controsessuale, Sono un mostro che vi parla e Dysphoria Mundi.
Intervistarlo è stato un privilegio, un incontro che ha acceso innumerevoli lampadine laddove c’era ancora parecchio buio.
L: Come nasce il film?
P: Ero venuto a sapere che Arte stava pensando di fare un film basato sulla mia vita, ma per me sarebbe stato impossibile. Innanzi tutto, non voglio che nessun altro racconti la mia storia, che non è una storia “epica”, qualcuno a cui è stato assegnato il genere femminile alla nascita e poi, guarda, ora è un uomo. Inoltre, non volevo nemmeno che la mia vita venisse raccontata in un modo tradizionale. Così, la buttai lì: se volevano realizzare una mia biografia, allora avrebbe dovuto essere un adattamento dell’Orlando di Virginia Woolf. Quando mi risposero: “È un’idea meravigliosa, perché non la fai?”, tornai a casa e mi dissi: “E ora come faccio?”. Perché mi sembrava che Orlando fosse il libro più difficile da adattare nella storia dell’umanità, così pieno di avventure e potenzialmente costosissimo. Poi ho avuto un’intuizione; ovvero che fondamentalmente, di Orlando, oltre a me, oggi ce ne sono moltissimi altri. Ho iniziato a cercarli. Quando ai casting si sono presentate oltre cento persone, ho avuto la certezza che avrei potuto fare quel film. Avevo una storia da raccontare, e questa storia è in parte la storia che Virginia Woolf ha raccontato nel libro, ma è anche qualcos’altro che lei non avrebbe mai potuto immaginare.
Che cos’è una “biografia politica”?
Una “biografia” è qualcosa che avrà sempre la tendenza a narrare una vita in maniera convenzionale: sei nato in un posto, hai una certa nazionalità, sei uomo o donna, che lavoro fai, ti sposi o no. Nessuno di questi elementi, però, è un fattore singolo, indipendente dal resto: al contrario, ciascuno sarà determinato dalle condizioni politiche in cui il soggetto si trova a vivere, condizioni che potenzialmente possono rendere possibile o impossibile la sua vita. Queste circostanze riguardano soprattutto quei gruppi di persone che, storicamente, non sono stati, o non sono tuttora, politicamente riconosciuti. Pensiamo alla condizione delle donne, che a lungo non sono state considerate soggetti politici e che tuttora faticano a esserlo. O delle minoranze sessuali, delle persone trans e non binarie, dei migranti, delle persone della diaspora e di quelle appartenenti a minoranze etniche. Per tutti questi motivi era importante che la mia fosse una biografia politica.
La necessità di essere riconosciuti come soggetti politici è qualcosa che riguarda tutti quanti, però.
Esatto, ed è quello che in molti non riescono a capire. La dimensione politica delle nostre biografie cambia costantemente. Ciò significa che, per esempio, pensi di avere il pieno riconoscimento politico, ma poi un giorno ti ammali e questo cambia, non ce l’hai più. Oppure vieni licenziato, o sei costretto a emigrare, o cambia il governo – come è successo in Italia – e improvvisamente perdi ciò che davi per scontato. Come vede, la biografia non è stabile e l’identità non è solida come immaginiamo: sono sempre minacciate da condizioni politiche che cambiano di continuo. Per questo il mio non è un film “per” le persone trans. Attraverso Orlando, questo straordinario dispositivo poetico e letterario creato da Virginia Woolf, volevo sostanzialmente mostrare un gruppo di persone le cui condizioni sono in mutamento.
“Non voglio che nessun altro racconti la mia storia, che non è una storia ‘epica’, qualcuno a cui è stato assegnato il genere femminile alla nascita e poi, guarda, ora è un uomo”.
Come è stato lavorare con i diversi Orlando?
La parte più emozionante è stata vedere come piano piano, grazie all’atto stesso di girare il film, alcuni di loro siano diventati soggetti politici. Rubén, per esempio, che quando abbiamo iniziato le riprese era un adolescente di 13 anni, con molti problemi a casa ed escluso dalla scuola perché vittima di bullismo: nel tempo l’ho visto lavorare sul testo di Woolf e iniziare a parlare, ha iniziato a dire la sua, in quanto nuovo Orlando di oggi.
Nessuno di loro appare come una vittima del sistema.
No, assolutamente, non volevo che gli spettatori pensassero: Povere persone trans. Poveri questi che hanno la disforia di genere. Esistono già molti film di questo tipo, e non fanno che danneggiarci, perché contribuiscono alla cancellazione della nostra libertà e della nostra capacità di vivere nella maniera che riteniamo più giusta. Al contrario, volevo mostrare un gruppo di persone diverse, provenienti da generazioni diverse e con modi completamente diversi di essere Orlando. Ci sono alcune persone non binarie, altre che prendono ormoni, altre ancora che cambiano il proprio nome. Volevo far sì che gli spettatori capissero quanti modi molto complessi ed eterogenei ci sono di essere trans oggi, e che in fondo chi è trans non è poi così diverso da chiunque altro.
“Il mondo sta diventando orlandesco”, dice nel film. Ne è proprio convinto? Perché a me sembra che, almeno qui in Italia, siamo molto lontani…
Se è per questo, non solo in Italia. Stiamo attraversando un momento molto difficile proprio perché, a fronte della rivoluzione anticoloniale, antirazzista e antipatriarcale in atto in molti livelli della società, sta crescendo un po’ ovunque un movimento reazionario che cerca di bloccarla. Ciò che trovo “orlandesco” oggi è che, nonostante tutto, il mondo sta cambiando, transitando verso qualcosa che non conosciamo. Chiaramente non si tratta solo di passare dalla mascolinità alla femminilità, ma di reinventare se stessi attraverso l’amore, il viaggio, la poesia.
Da dove le viene questo ottimismo?
La gioia o l’ottimismo, per me, non sono emozioni psicologiche da provare nel momento in cui certe condizioni migliorano. La gioia o l’ottimismo sono la metodologia politica degli oppressi: non possiamo permetterci il lusso della depressione perché, altrimenti, moriamo. Politicamente parlando, “depressione” è ciò che sta accadendo alla società neoliberista, dal momento che mercato e forze conservatrici mirano a privarci della capacità di desiderare e, quindi, di pensare il cambiamento. Questo l’ho imparato dal femminismo nero – sono stato studente di Angela Davis: la cosa più difficile da immaginare è che le condizioni nelle quale ci troviamo possano cambiare. Per questo dico che l’ottimismo è una metodologia politica, perché ci permette di pensare che le cose possono cambiare e che però, perché ciò accada, dobbiamo essere noi a cambiarle. L’oppressione, di genere o patriarcale, non è qualcosa di naturale, ma qualcosa di storicamente costruito, e in quanto tale può essere sconfitta.
Sul finale, in sala regia compaiono alcuni bambini trans, mentre si sente la sua voce che dice di avere girato questo film per gli Orlando che non sono ancora nati. Recentemente, la cronaca ha riportato numerosi attacchi contro i bambini trans. Qual è la sua opinione?
Negli ultimi 10 anni, sempre più persone della nuova generazione, dai 18 anni in giù ma anche i loro genitori etero che improvvisamente si sono sentiti dire dal figlio: “Non mi identifico con questo genere”, sono venute a chiedermi aiuto. Per me, la questione dei ragazzi trans coincide con la questione della società stessa, non c’è differenza tra me e un bambino, tranne che un bambino è ancora più oggetto di controllo e amministrazione e quindi, oggi, al centro dei dibattiti politici e mediatici. Il mio punto, come filosofo e attivista, è la necessità di avere un sistema di riconoscimento della vita umana come vita di un soggetto politico senza la definizione di genere.
Anche i ragazzini dovrebbero essere considerati soggetti politici, quindi.
Certo. Il vero problema quando si tratta di bambini è che nessuno di loro, non solo quelli trans, viene riconosciuto come tale. Per questo sono convinto che, da un punto di vista filosofico e politico, uno dei maggiori avvenimenti degli ultimi anni sia stato il fatto che in qualche modo questa cosa sta iniziando a cambiare. Pensiamo a Greta Thunberg e ad altri attivisti che sono diventati soggetti politici prima dei 18 anni. E poi perché 18 anni? Non è che una pura convenzione.
Darebbe il diritto di voto ai minorenni?
A partire dai 12 anni, anche se immagino che molti potranno non essere d’accordo. I dodicenni appartengono alla società e sanno cosa vogliono per sé stessi. Sono soggetti politici a pieno titolo. Penso che preferirei avere un dodicenne a capo del governo piuttosto che Trump o il presidente che avete in Italia.
Guardando il suo film ho pensato a un grande, bellissimo rituale collettivo.
Oggi mancano i rituali collettivi. O meglio, ci sono – vedi Netflix o Instagram –, ma sono finti, perché completamente alla mercé del mercato neoliberista e delle aziende digitali. E sì, molte scene del film sono state pensate come esorcismi collettivi. Per esempio, la scena della sala d’attesa dello psichiatra, di base un posto dove vieni mandato da solo e diagnosticato come individuo singolo: soffri di disforia di genere e noi ti cureremo. È molto diverso, invece, andarci tutti insieme, iniziare a confrontarsi e rendersi conto che abbiamo una storia comune. A quel punto che bisogno abbiamo che uno psicologo ci spieghi quello di cui soffriamo? C’è sì della sofferenza, ma questo non significa che soffriamo di qualcosa di orribile.
Nel film c’è una scena, geniale, in cui sul tavolo operatorio appare un libro fisico. Come le è venuta l’idea?
Non venendo dal cinema, durante le riprese mi sono sentito ripetere più volte: “Le cose non si fanno così”. A un certo punto mi sono detto, ok, farò come faccio in filosofia. Io vengo dal decostruzionismo, Derrida è stato il mio professore, e lì facciamo proprio quella cosa, apriamo un libro e lo “tagliamo a pezzi”. Perché non provare letteralmente? Mi è venuto in mente il famoso dipinto di Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp, tutti quei medici che operano su un corpo. Ho pensato, qual è il corpo oggi? Non è solo quello fisico, i nostri corpi sono un’entità complessa, costruita attraverso documenti, passaporti, identificazioni e storie, inclusa quella di Orlando. Così abbiamo iniziato a lavorare a quella scena che, poiché molti di noi erano stati davvero su un tavolo operatorio, si è rivelata anche un bellissimo atto curativo.
“Oggi mancano i rituali collettivi. O meglio, ci sono – vedi Netflix o Instagram –, ma sono finti, perché completamente alla mercé del mercato neoliberista e delle aziende digitali”.
Lei ha definito Orlando. Una biografia il suo “talismano di genere”. Quali sono i libri che l’hanno formata?
Sono nato nella Spagna degli anni Settanta, dove tutto quello che mi circondava mi diceva: la vita che desideri non è possibile, morirai in un istituto mentale o verrai ucciso. Quindi è stato proprio attraverso i libri che ho trovato il modo di costruire me stesso. Orlando è stato uno dei primi, ma ce ne sono stati molti altri. Sono sempre stato un lettore non convenzionale, ho iniziato a leggere libri di filosofia a 12 anni e ricordo di avere deciso che sarei diventato filosofo a 15 dopo avere letto Spinoza. Essendo però andato a scuola dai gesuiti, ho anche avuto un’educazione tradizionale, latino, greco, e letto anche i classici come Don Chisciotte della Mancia.
Continuerà a fare film?
Sì. Non ho mai avuto il sogno di diventare regista, ma oggi penso che per me questo sia diventato a tutti gli effetti un altro modo di lavorare, che si va ad aggiungere agli altri progetti di attivismo che porto avanti da anni. Avverto la necessità di comunicare attraverso tutti i sensi e di raggiungere un pubblico diverso da quello che verrebbe a un mio incontro politico o che leggerebbe i miei libri. È stata un’esperienza bellissima, girare questo film: piangere insieme, abbracciarci con la troupe e avere la sensazione che ciò che stava accadendo era un cambiamento radicale che coinvolgeva l’intera società, non solo le persone non binarie e trans, e dove nessuno veniva lasciato indietro.
Laura Pezzino
Laura Pezzino è giornalista e scrittrice. Collabora con diverse testate e il suo ultimo libro è A New York con Patti Smith (Giulio Perrone, 2022).
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