Diversamente da altri Paesi, dove gli stadi sono al centro delle città così come nell’atmosfera dei loro quartieri, in Italia sono luoghi frequentati per pochissimi giorni l’anno e per nulla integrati nel tessuto urbano. Siamo destinati a perderli come già sta accadendo per alcuni?
È il 27 Novembre del 2020, lo spiazzo che si apre di fronte allo stadio Alberto José Armando, La Bombonera, somiglia a quello di fronte a Westminster Abbey, o a Piazza San Pietro, dopo il funerale di un re, o di un pontefice.
È appena finita una delle veglie funebri di Diego Armando Maradona. A terra ci sono i resti di una batteria di fuochi d’artificio, candele ormai completamente sciolte, una tanica mezza piena di acqua benedetta nel santuario della Virgen de Luján.
Gli argentini, scrive Abel Posse nel suo La passione secondo Eva, sono degli ottimi funeralisti. Cinque anni più tardi, in un barrio della Boca deserto, un tifoso canta in solitaria, agitando un fumogeno nel silenzio della notte. All’interno dello stadio c’è il corpo di Miguel Ángel Russo, ex allenatore degli xenéizes. L’indomani, là dentro, si svolgeranno i funerali.
Il ruolo della cancha, nella quotidianità, nella società argentina, è un ruolo centrale: interi barrios sono letteralmente sorti – e hanno edificato le loro mitopoietiche – attorno a uno stadio. La vita (e quel che c’è oltre, verrebbe da dire) parte e si dipana da qua: non c’è passeggiata per Caminito alla Boca che non conduca alla Bombonera, non c’è girovagare per Parque Patricios che non ti porti di fronte al Ducó e alla sua facciata liberty.
Perché, a noi, passare di fronte al Diego Armando Maradona a Fuorigrotta, a San Siro, allo stesso Olimpico di Roma, per certi versi, non restituisce la stessa atmosfera di centralità nel contesto cittadino – la stessa idea cioè di compenetrazione e appartenenza? Perché non riusciamo a fare a meno di trovarle chiese abbandonate nel dì in cui non si celebra la messa? Il paragone con la chiesa magari è un po’ abusato, ma continua a rimanere cristallino: se il calcio, come diceva Pasolini, è l’ultimo rito collettivo rimasto, allo stesso modo lo stadio è ancora l’ultimo tempio laico?
Il fatto è che in Italia lo stadio non è quasi mai epicentro. È, piuttosto, un luogo-non-luogo vissuto pochissimo. Respingente, per di più, attorno al quale da tempo è stata disegnata una zona di rispetto che somiglia però sempre di più a una zona di esclusione. Se un tempio, è un tempio in rovina.
Nell’antichità lo stàdion greco non era solo – anzi, verrebbe da dire non era per niente – un mero luogo di celebrazione sportiva: era un tempio a cielo aperto, dedicato a Zeus. Un puntodi aggregazione sociale, ritualistica, che nella Roma antica avrebbe raggiunto il suo apice, con l’aggiunta di una componente ludica: le gare gladiatorie, le acrobazie, celebravano sì il potere politico, la sua dominance su ogni aspetto della quotidianità, ma sempre in una partecipazione comunitaria indissolubile.
Quando abbiamo cominciato ad avvertire lo stadio come un luogo di netta divisione (tra lo stadio stesso e il resto della città, oltre che tra il campo da gioco e gli atleti)? Buona parte del merito (o del demerito) va imputato all’ingegnere scozzese Archibald Leitch, che ai primi del Novecento ebbe l’idea di introdurre nella concezione degli stadi moderni le barriere metalliche e le gradinate di cemento. E poi, contestualmente, all’ignoto argentino che prima di un Argentina-Uruguay che si preannunciava particolarmente violento, ispirò la recinzione del campo con metri e metri di filo spinato.
Al MAXXI di Roma, per qualche mese, fino a pochi giorni fa, si è tenuta una mostra intitolata Stadi, architettura e mito. Si trattava di una specie di wunderkammer, in cui era possibile ripercorrere la storia degli stadi, il cammino percorso per trasformarsi in templi laici, architetture monumentali, specchi della città, simboli di trasformazione urbana e culturale e perfino strumenti di city branding. Ma ripercorrere la storia degli stadi significa ripercorrere anche quella di chi li ha vissuti e continua a viverli, cioè noi. Nel percorso espositivo si fondevano elementi e ispirazioni molto diverse tra loro: letteratura e antropologia, architettura e sociologia. Si passava da De Martino a Mario Benedetti, da Eduardo Galeano a Renzo Piano: un contenitore in cui c’era un po’ tutto per il semplice fatto che nell’esperienza stadio, a ben pensarci, e anche guardandosi dal bisticcio linguistico, in effetti, c’è davvero un po’ tutto.
A latere della mostra, negli ultimi mesi, si sono poi svolti numerosi eventi, incontri pubblici, rassegne di arte visiva, talk, in uno dei quali ho avuto il piacere di intervenire: si trattava di un focus sugli stadi italiani, un dibattito sulle prospettive di rigenerazione e interpretazione, ma anche sull’impatto contundente che ogni stadio ha (o potrebbe avere) sull’immaginario collettivo di una comunità. Se per tutto il tempo mi sono rimbalzate in testa immagini rioplatensi, nonostante stessimo parlando di provincia italiana, è perché nelle pieghe della differente maniera in cui frequentiamo, viviamo, vediamo gli stadi noialtri e i rioplatensi, appunto, si annidano tutta una serie di risposte su cosa rende peculiare la nostra società, la nostra comunità, il nostro approcciarci alla frequentazione di uno stadio.
“Quando abbiamo cominciato ad avvertire lo stadio come un luogo di netta divisione (tra lo stadio stesso e il resto della città, oltre che tra il campo da gioco e gli atleti)?”
A Montevideo lo stadio su cui si è disputata la prima partita in assoluto dei Mondiali, l’Estadio Pocitos, è stato raso al suolo pochi anni più tardi per far posto a un quartiere residenziale. Eppure se passeggi per quelle strade, oggi, c’è chi con la punta del piede ti mostrerà dove si trovava il dischetto del rigore, l’intersezione del corner, il cerchio del centrocampo. A quelle latitudini lo stadio segna l’identità, e dall’identità è segnato: l’attuale capolista del campionato argentino, il Deportivo Riestra, gioca all’ombra dello stadio Nuevo Gasometro, casa del San Lorenzo, e ha fatto di questa posizione di inferiorità un grimaldello rivendicativo. A sua volta, il San Lorenzo gioca in un luogo che non avverte suo, perché la sua vera casa – nelle menti della comunità, nei cori – continua a essere il barrio Boedo, dove si trovava l’arena rasa al suolo dalla dittatura militare per far posto a un supermercato. Lo stadio è allora l’ubercontenitore di un’identità snaturata, rubata, il cui ritorno è agognato, inseguito.
Ovviamente a rendere così centrale lo stadio nella vita dei tifosi – dei cittadini – sudamericani è anche la strutturazione stessa dei club, che per regolamento federale devono necessariamente essere, da statuto, associazioni di persone, e non società private a scopo di lucro. È per questo che vengono costruiti così pochi stadi ex-novo, e anche i progetti di ristutturazione seguono tempi bradipici: semplicemente mancano i soldi. Le uniche società che ci sono riuscite, in tempi recenti, l’hanno fatto monetizzando la vendita dei loro giovani talenti ai club europei. In fondo è lo stesso principio grazie al quale il River Plate, storica e vincente compagine bonaerense, è riuscita a costruire una tribuna dal nulla negli anni Sessanta, ossia grazie alla cessione di Omar Sivori alla Juventus. D’altra parte, però, il fatto che i club siano tutti associazioni fa sì che gli stadi siano davvero dei centri comunitari, che il barrio vive sette giorni su sette: negli stadi si trovano scuole, centri sportivi, campi da tennis, perché no, camere ardenti. Ovviamente ciò è reso possibile anche dalla centralità, in termine urbanistico, degli stadi: se non delle città, almeno dei quartieri. In Italia gli stadi non raggiungono mai questaportata mitopoietica; oppure, semmai l’hanno avuta, l’hanno persa.
Oggi si configurano piuttosto come luoghi che non sono riusciti a integrarsi nel sistema cittadino, che gli si è sviluppato intorno senza appunto coinvolgerli.
L’unica centralità degli stadi, quindi, è quella simbolica. Un’immagine che stride con il loro essere, spesso, caravanserragli di emarginazione. Cosa ha contribuito, passando dalla metafora alla realtà, a renderli così marginali? Il fatto che nella migliore delle occasioni siano vissuti, frequentati, soltanto per una ventina di giorni l’anno? Solo questo? Ripensare lo stadio come spazio di socialità e condivisione, aperto sempre ne sminuirebbe la sacralità?
Rispondere non è semplice. Per più di qualcuno, la commercializzazione degli spazi di uno stadio è – per certi versi – una profanazione del tempio. Eppure ampliare lo spettro di frequentazione potrebbe permettere di strappare dallo stadio quell’aura di luogo maledetto nel quale si scatenano gli istinti più primigeni, tra violenza e rabbia, della nostra società.
Se parlo di profanazione del tempio è perché in Europa – dopo la tragedia dell’Heysel soprattutto (cioè da quel 29 Maggio 1985 in cui, a Bruxelles, poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus, il tentativo degli hooligan inglesi di forzare uno sbarramento portò al crollo di un muro e alla morte di 39 persone) – ma anche in Sudamerica la concentrazione della violenza dentro uno stadio ha raggiunto un volume così impattante che si è cercato, legislativamente, di contenerla con misure ad hoc. La reazione dei tifosi è uno slogan rivendicativo: «tifosi, non clienti». Quando gli spalti sono stati militarizzati, i controlli portati all’esasperazione e la soglia di sbarramento innalzata vertiginosamente con l’aumento dei prezzi, il cuore popolare delle tifoserie si è allontanata dagli stadi, che hanno iniziato a essere visti – sono diventati – carapaci inospitali. Oppure, peggio ancora, palestre della repressione.
Durante quel talk sugli stadi di provincia, in effetti, a pensarci, si è parlato soprattutto di stadi, e non di chi li vive; o meglio, di una prospettiva di sviluppo potenziale che dovrebbe accontentare tutti, ma che tutti, probabilmente, accontenterebbe solo sulla carta.
Matteo Marani, il Presidente della Lega di Serie C, è probabilmente la figura istituzionale nella piramide calcistica italiana che paga più di ogni altri lo status quo delle arene del gradino più basso del livello professionistico, tutte vetuste, costruite almeno cinquant’anni fa, costrette in un cul-de-sac a metà strada tra volontà privata di investire nelle strutture e pachidermia delle amministrazioni. In fondo gli stadi italiani, anche i principali, sono vecchi non solo dal punto di vista delle modalità di fruizione, ma alla lettera: i principali sono stati costruiti in occasione del Mondiale del 1934, e l’ultima ristrutturazione organica risale all’ultimo Mondiale italiano, quello del 1990. Immaginiamoci gli stadi di provincia.
La cosiddetta Legge Stadi, la serie di misure legislative tra cui spicca il Decreto Legislativo 38 del 2021, dovrebbe facilitare la modernizzazione degli stadi, l’insieme di misure per renderli più sostenibili e funzionali: la semplificazione procedurale e la possibilità di attrarre investimenti privati potrebbe portare gli stadi a diventare luoghi polifunzionali, arene per concerti, centri di aggregazione commerciale. Ma chi lo stadio lo vive, come la prenderebbe? Non sarebbe la conferma di quella dinamica in cui il tifoso diventa sempre più un cliente? Non sarebbe un ulteriore giro di vite della profanazione del tempio?
A quel talk era presente anche l’architetto Carlo Fayer, che con il suo studio sta portando avanti il progetto per la ristrutturazione della Città di Arezzo, lo stadio cittadino degli amaranto. Un progetto che non solo si propone di inserire lo stadio nel tessuto urbano della città (attraverso l’implementazione di infrastrutture che consentano, per esempio, di arrivarci a piedi o con i mezzi pubblici), ma anche, di non lacerare il tessuto economico (a essere coinvolte nei lavori di ristrutturazione sarebbero esclusivamente aziende locali) e anzi rinsaldare quello sociale, oltre che sportivo: durante l’ammodernamento la squadra non lascerà mai lo stadio, perché ogni dislocazione, anche temporanea, è per certi versi uno sradicamento.
L’idea che lo stadio possa diventare davvero uno spazio sociale, da vivere quotidianamente, perfettamente integrato nel tessuto urbano, è il bias al quale ci si sta affidando: è già successo anche altrove, ma non è detto che l’Italia sia pronta.
In Inghilterra, nel Gloucestershire, quasi venti anni fa, è stato inaugurato il The New Lawn, uno stadio totalmente ecosostenibile, casa di un club altrettanto ecosostenibile, il Forest Green Rovers, passata qualche tempo fa per essere l’unica squadra al mondo completamente vegana. Ma anche il Druso di Bolzano ha dimostrato come possano esistere impianti capaci di offrire, oltre all’avanguardia delle dotazioni, uno spazio fruibile, comunitario.
C’è un racconto, scritto nel 1967 da Adolfo Bioy Casares e Jorge Borges, che si intitola Esse est percipi (come la famosa massima di Berkeley secondo la quale essere è essere percepito) e che si apre con la sparizione dello stadio Monumental dal quartiere di Núñez a Buenos Aires. Passeggiando da quelle parti i protagonisti del racconto scoprono proprio che c’è un buco nel tessuto urbano del barrio. Indagando scopriranno che lo stadio è stato demolito da un bel pezzo, perché le partite, tanto, vengono riprodotte da anni, fedeli a un copione, come in un The Truman Show antelitteram, in uno studio televisivo. Il messaggio sotteso, inquietante se vogliamo, è che la televisizzazione ha reso gli stadi innecessari, un orpello del novecento.
E invece gli stadi innecessari non sono per nulla: né quando permettono la rievocazione del passato, come gli spettacoli estivi al Teatro Greco di Taormina, né quando promettono una continuità nel futuro della fruizione dell’evento. Stadi come palcoscenici posticci (all’Azteca di Città del Messico, fino a poco tempo fa, si poteva passeggiare sul prato e farsi scattare una foto mentre, spiccato il salto, colpivi la palla con la mano rievocando la mano de Dios), stadi come depositari della memoria (come l’Estadio Nacional di Santiago del Chile ha nelle viscere gli spogliatoi e un museo della memoria per le vittime della dittatura militare).
Negli stadi si deposita la vita nella sua essenza più elementare: in una delle installazioni videoartistiche proiettate al MAXXI, Lode di Emma Ciceri, gli spalti sono immortalati nell’istante immediatamente successivo alla fine della partita, quando sulle curve, ormai vuote, restano tracce minuscole, piccoli accadimenti, resti della presenza umana non ancora rimossi.
Eduardo Galeano, in un racconto che si trova in Splendori e miserie del gioco del calcio, scrive: «Siete mai entrati in uno stato vuoto? Provateci. Non c’è niente di più vuoto di uno stadio vuoto». Nondimeno, in quella vacuità resta la traccia di un corpo: ogni stadio vuoto, diceva Mario Benedetti, è lo scheletro di una moltitudine.
Fra cinque anni lo Stadio di San Siro verrà abbattuto: in ricordo, a imperitura memoria, verrà mantenuta solo una delle undici torri cilindriche ideate da Ragazzi e Hoffner, a cui si devono le scale elicoidali e l’effetto ottico del cemento in movimento, ben ritratto da Paola Di Bello nel suo Video-Stadio del 1997. Marcel Desailly, uno dei calciatori che in quello stadio ha vissuto momenti indimenticabili, ha confessato in un’intervista che si metterà a piangere.
C’è da immaginare che non sarà il solo, perché ogni stadio, prima che un impianto a volte vetusto, dimenticato, impattante, è anche – e soprattutto – un coacervo di memoria, di storia, di emozioni. Un palcoscenico di vita. Per qualcuno, dall’altra parte dell’Oceano, a volte, qualcosa addirittura oltre la vita.