Potrei suicidarmi con uno yogurt - Lucy
articolo

Giordano Meacci

Potrei suicidarmi con uno yogurt

Gli eroi sono sempre grandiosi e pressoché invincibili. Persino i loro pochi punti deboli contribuiscono ad accrescerne la leggenda: da Achille col suo tallone a Superman con la fatale kryptonite. Ma cosa siamo allora noi umani, al confronto, se a sconfiggerci può bastare l'allergia a un latticino?

No, ma’, grazie… Non posso mangià idrocarburi.

Elide Catenacci , Da Ettore Scola, C’eravamo tanto amati

0. La domanda sospesa in due parti

0a. La digressione diagonale

Yoda (insieme a Peter Venkman maestro irripetuto di ogni i-ching cinematografico) insegna ”fare o non fare: non c’è provare”. Il che, detto da qualcuno che ha deciso scientemente di allontanarsi dalla comunità galattica (è una Galassia lontana lontana, peraltro; e tanto tempo fa: nel passato abissale, non nel futuro remoto; anche se pochi se ne ricordano) per rintanarsi nell’èremo paludoso del Sistema Dagobah: potrebbe trasformarsi, in apparenza, in un insegnamento di comodo.

Solo (non lo Han coprotagonista: leggételo avverbialmente) la capacità di questo minuscolo omino verde di far levitare un caccia stellare T-65 X-Wing dalla melma con la sola forza del pensiero: gli dà evidentemente diritto – per opera acclarata – di parola e di consiglio su come vadano fatte le cose.

Ed è proprio appellandomi all’auctoritas scettica di Yoda che – comunque: da sempre più scanzonato contrabbandiere tallonato da Boba Fett che cavaliere jedi – formulo la domanda sospesa su tutto il racconto che segue. Perché scrivere di me? Interessa davvero (a me, a chi leggerà) la mia esperienza privata e soggettiva, il mio caso umano particolare di fronte all’esperienza comune planetaria dell’assunzione quotidiana del cibo?

Vale davvero la pena indicare un io tra la folla diacronica degli altri io costringendolo, comunque, nella parvenza fittizia di una ricostruzione?

Ecco.

Mentre mi dico – me lo dico da tempo – che la posta in gioco non è solo in questo testo in particolare ma è invece un rovello sincronico più largo e pressante: mi rispondo provvisoriamente, di passaggio (ma mi trincero dentro la forza del paradosso di una risposta transitoria interrogativa): dipende dalla forma.

Non (solo) del cibo.

E anche qui non confondete l’avverbio tra parentesi con un ritratto narcisistico. Almeno: non solo.

Potrei suicidarmi con uno yogurt -

0b. L’illinearità dei fatti, la non-esaustività della diagnosi

A detta della mia Famiglia e, per i cinquantadue anni successivi al novembre del 1971 fino a questo rigo Qui, nasco allergico al latte. Mia madre ha affrontato il parto con la stanchezza sfiorita delle ore di travaglio già prima che cominciassero le doglie; è stato un parto difficile, lei è giovane – giovanissima: ha vent’anni da sei o da cinque giorni (a seconda che si creda all’anagrafe stabilita da mio nonno nella registrazione della sua, di nascita; o a mia nonna che è stata convinta per almeno ottantasette anni che mio nonno avesse sbagliato, nel dichiarare il giorno natale della sua prima figlia) ― comunque: mia madre è giovanissima, ha appena partorito; e il latte materno, per me, pare proprio, non c’è: quantomeno: finisce dopo i primi giorni. 

E da Qui in poi si stampa la leggenda, invece, di una serie indefinita di giorni successivi in cui la mia nascita patita (lo stesso nonno che s’è battuto instancabile per la giustezza della sua dichiarazione anagrafica per quasi mezzo secolo, dichiarerà, stando alle registrazioni memoriali, ”non posso affezionarmi a te: non sono sicuro che durerai”: e questo, naturalmente, accompagnando sempre il ricordo con la risata, sdrammatizzante, delle profezie disavverate, l’esorcismo che – in bìlico tra il terrore e il tentativo di magia – ha battezzato il suo stesso nome defilandosi nel bene rifugio dell’ironia) ― la mia nascita patita s’è da sùbito scontrata con i due chili e trecento grammi con cui sono nato: il calo fisiologico fa di me una di quelle bamboline messicane del Dia de los Muertos: e solo dopo un po’ (la puntualità catalogatrice dei racconti di fiabe, più che la traccia di un’anamnesi) ci si accorge che il bambino, Giordano, io: è (sono) allergico al latte.

A questo punto, nella ricostruzione filologica della patologia – malattia, sfortuna, accidente, comunque ‘morte scongiurata’ – le strade delle storie si avviluppano intorno a un cardine incerto e fluttuante che spalanca la stessa porta però ogni volta ad altezze diverse. Galattosemia, ricostruirà il bambino cresciuto; ma la parola è al tempo stesso ambigua e troppo responsabilizzante.

È un tempo in cui non esiste se non nelle enciclopedie mediche, perlopiù, una competenza attiva diffusa nei confronti della parola lattosio. Allergia. Un po’ più dell’intolleranza. Gli fa male. Potrebbe morire per asfissia!

“Perché scrivere di me? Interessa davvero (a me, a chi leggerà) la mia esperienza privata e soggettiva, il mio caso umano particolare di fronte all’esperienza comune planetaria dell’assunzione quotidiana del cibo?”

Comunque. Giordano, il bambino, io: nasco allergico al latte e così resto, nel persempre della mia infanzia, nelle calibrature mediche della mia adolescenza (”provi a indagare se riesce a sopportare a piccole dosi il latte e i derivati; veda se nell’età dello sviluppo c’è stato un qualche cambiamento”, le parole mediche che la mia famiglia s’è riscritta addosso con me partecipe quando, per alcuni anni della lontana giovinezza, ho azzardato esperimenti – riusciti – di scesa a patti con il latte e i suoi derivati); fino alle estreme conseguenze di un eccesso di leggerezza nella gestione delle dosi plausibili: con ripiego verso l’ascetismo alimentare, un’impaurita ritirata strategica e l’eliminazione terroristica del latte in qualsiasi forma dalla dieta dopo un trittico di episodi in fila, nella piena maturità. Crepatura metaforica degli organi interni e visioni febbrili, prima avvisaglia di blocco della respirazione per avvio di choc anafilattico, notte all’Ospedale Molinette per sospetto infarto commutato, poi, in probabile danno da ingestione di latte.

(Rispettivamente: per una torta evidentemente alla panna, un’alice in grado di nascondere il burro con cui conviveva, una salsa ai mirtilli mantecata nonostante le mie preghiere ossessive all’intero personale di un ristorante torinese: di controllare se nella salsa c’era il latte).

Insomma. 

Di là dall’ondeggiare incerto della tradizione orale, l’imprecisione mirata dei Miei (e mia, a essere onesti) nella disàmina della malattia che mi caratterizza fisiologicamente.

L’alimento prìncipe del genere umano mi è precluso.

Questo, è quello che si concretizza attraverso i crocevia delle storie. E: se si aggiunge che, nel tempo, ho scoperto a mie spese di essere allergico anche al chinino, la panacea primaria: è evidente che ho un fisico disadatto alla vita sulla Terra.

Ma non ci fate troppo affidamento. Da sempre, mi so organizzare.

Ho avuto un giramento di capo e son svenuta per la strada.

Ho avuto un giramento di capo e son svenuta per la strada.

Ipo… ipovitaminosi anemica, rialzi termici, tendenza al collasso, ossia fame arretrata. Cannolicchi.

Luciana e Antonio , Da Ettore Scola, C’eravamo tanto amati

1. Le torte, i torti

1a. Ciampino (Roma, Italia), primavera del 1981

Ora. È evidente che bisogna trovare una forma corretta per raccontare la lontananza galattica (la Galassia per eccellenza, la Via Lattea: battesimo e origine nominale di tutte le altre galassie, la fascia bianca di latte che l’infanzia di specie ha nominato, immergèndocisi) e la solitudine alimentare della mia, di infanzia ― un modo, una via mia all’inizio, più che alla fine, per raccontare che è la tarda primavera del 1981, G. abita a Ciampino ed è a una festa di compleanno. Come sempre accade nelle feste di compleanno, soprattutto se i partecipanti hanno un’età media che si aggira intorno alla prima decade di ogni vita, la musica diffusa da mangianastri o Hi-Fi di prima avanguardia (moloch tecnologici dettati dalle variabili economiche famigliari singolari) all’improvviso s’interrompe, lasciando irrelati nell’aria della casa di turno gli ultimi gorgheggi coetanei di On my own di Nikka Costa o gli squilli inquietanti degli Orchestral Manoeuvres in the Dark alle prese con gli spettri in agguato dell’apocalisse nucleare con cui – è il primo degli anni Ottanta, entro un paio d’anni The Day After fermerà per sempre gl’incubi di chi adesso ha dieci anni nell’aiuola di tenebra di un’esplosione atomica: di là dalle colline di Castel Gandolfo o di Albano Laziale (almeno nella variante ciampinese di chi sta materialmente partecipando a questa festa di compleanno a Ciampino) ― nella primavera incerta del 1981, appunto, e ricordo che la torta viene annunciata, la musica s’interrompe, i tamburi sintetizzati di Enola Gay si fermano a un passo dalla chiusa, la mamma del festeggiato arriva con la torta facendosi spazio sul tavolo della sala: vandalizzato da bottiglie di fanta rovesciate, patatine in busta sparpagliate e popcorn rigorosamente fatti in casa distribuiti sul pavimento come viatico per il ritorno di qualche hänsel e gretel da camera spaesati ― e comincia il taglio delle fette e la distribuzione.

In questi casi G. è sempre in imbarazzo perché sa quello che deve fare, e dire, con educazione e gentilezza – gli è stato pedagogicamente imposto attraverso indottrinamento formulare adeguato – ”Grazie, ma non posso. Non posso mangiare il latte. Sono allergico”.

E Qui. Mentre una decina di bambine e bambini di una decina d’anni si ingozzano con la felice voracità dell’infanzia di panna e cioccolato, lanciandosi i pallini d’argento di guarnizione l’uno nel piatto dell’altra, mentre la musica riprende con una variante forzata di Sarà perché ti amo o di Gioca Jouer, la memoria vacilla dantescamente sui propri fondamenti, la madre del festeggiato guarda G. con intenzione; piazza con perizia la forchettina di plastica nella fetta di torta già pronta e passa, con grazia, il piatto a G. che, per reazione istintiva, lo riceve e lo trattiene.

“Sei viziato, altroché” dice la mamma del festeggiato a G. ”Un po’ di torta che vuoi che ti faccia?!”. Lasciando G. sconcertato per l’incertezza del gesto futuro da compiersi; e, soprattutto, per un vago sentore di incongrua illogicità nel vedere un ‘bambino viziato’ in un ‘rifiutatore di dolci’. Vorrebbe replicare questo, G., il tarlo ribollente della logica a scalpitargli dentro le viscere con la forza, superciliosa, di uno Spock in miniatura. Ma non lo fa; non replica, non risponde. Per delicatezza si perde la vita sotto gli occhi di qualche compagno di classe – uno ridacchia, un altro lo guarda con rispetto complice senza capire bene cosa è successo – e mangia la torta che gli è stata offerta. La mangia. Prima un timido colpo di forchetta, poi un altro. Finché non gli sembra di aver dimostrato con sufficiente sprezzatura la sua sostanziale sospensione del giudizio di fronte allo scontro allergia-vizio; che adesso gli s’incista, però, nei precordi della sua percezione linguistica, dando inizio a un sintagma imbarazzato che gli si ripresenterà – come un cibo pesante, indigeribile o guasto – quasi a ogni richiesta di menu, o partecipazione a una qualsiasi festa in cui ci sarà da mangiare.

Quando torna a casa, il viziatissimo G. si sente male. E vomita. Le parole ci sono. Eméō, in greco antico; da ragazzo, poi, si troverà a doverlo coniugare in un’interrogazione ginnasiale in cui, quasi, si ritroverà di nuovo in quella festa elementare, l’eternità di cinque anni prima a vestirgli il passato di memoria; ritroverà gli antiemetici dell’ispettore Bloch in un Dylan Dog appena nato, ricorderà sempre – sempre – quel primo ritorno a casa imbarazzato e doloroso con il ricordo con cui di solito si identifica la prima ubriacatura: è questo che G. prova ora, nella comparazione successiva con la sua prima sbornia, quel dolore lancinante dopo un’ebbrezza diffusa, e divertita, che però nel caso della primavera del 1981 è stata priva anche di quella forma ubriaca di fulgore con cui si accompagna la gestione dell’alcol dell’adolescenza.

Poi il bambino sarebbe diventato ragazzo, s’è detto, e le cene di classe si sarebbero trasformate nella sua privatissima variante finale del dolce. Dal liceo in poi, fino a Qui, fino a questo rigo, la necessità di farsi compagnia – magari dopo una cena priva di supplì, di pizza con la mozzarella e di dolce, appunto – mentre tutti chiudono il dessert: la solitudine puberale che li rende, tutte e tutti loro, monadi in cerca di dialogo, e di presente sostenibile: G. ripiegherà la sua personale sfida alla dimenticanza dentro i conforti cilindrici dell’ultima bevuta. Grappe impresentabili dei Castelli romani, whisky nominali degli anni Settanta transitati a forza nel decennio successivo.

“Giordano, il bambino, io: nasco allergico al latte e così resto, nel persempre della mia infanzia, nelle calibrature mediche della mia adolescenza”.

Di là dalla vulgata che ti racconta come ‘buono’, e ‘disponibile’, tu in realtà diventi una persona gradevole solo se qualcuno ti nebulizza intorno del negroni, àma dire mia moglie dacché mi conosce. Suscitando il consenso, anche, di tutti quelli che mi conoscono bene.

Capìtemi. La privazione della dolcezza, in me, è di tipo congenito.

(Nel novanta per cento dei casi, va da sé. Non generalizziamo).

1b. Una precisazione anti-titanica

Nell’universo DC Comics Green Lantern teme il colore giallo. Annulla tutti i suoi verdi, quasi infiniti poteri di supereroe. Mi sono chiesto sempre cosa comporterebbe in Hal Jordan (questo, il nome compiaciuto della prima ‘Lanterna Verde’) la presenza del blu. Comunque. Superman può essere frenato e sconfitto dalla kryptonite, la pietra radioattiva che arriva dallo sgretolamento esplosivo del suo pianeta d’origine. Con un pezzetto di kryptonite al collo i suoi poteri – determinati dal giallo Sole del nostro Sistema – scompaiono. E, a lungo andare, la radioattività della roccia comporterebbe la sua eterna fine. (Anche se: a chi no? Da Marie Curie in poi – e anche prima – a chi non farebbe male un’esposizione radioattiva continuata, di là da quello che può imbonire l’ottusa malafede di qualche deputato leghista?).

Achille, l’eroe per eccellenza, è invulnerabile: se si eccettua il fastidio del tallone; unico punto del corpo non immerso dalle cure materne nelle acque dello Stige.

Sigfrido uccide il drago, si bagna nel suo sangue e ”non lo ferisce nessun’arma in battaglia”. Lo spiega Crimilde nei Nibelunghi, lo traduce Laura Mancinelli: mentre si fa una doccia di sangue gli cade ”tra le spalle una larga foglia di tiglio”. E per questo ”può essere ferito”. E morire. Perché una foglia di tiglio s’è staccata dal ramo e, assecondando la culla di vento che l’ha sospesa, s’è andata a posare proprio sulla futura piccolissima croce che ucciderà Sigfrido.

Un colore primario, un minerale che arriva dagl’insondabili spazi siderali portando con sé il peso di un passato perduto, una foglia di tiglio che volteggia nei boschi mitici dell’infanzia collettiva, un’abluzione nel fiume infernale che comporta, anche, un’assunzione responsabile della propria, invincibile, mortalità.

Quello che caratterizza lo sforzo titanico di ogni eroe – di ogni supereroe – nella sua stessa formazione iniziale: è proprio il difetto, la mancanza, la violazione della normalità (per quello che poi non-significa una catalogazione strumentale attraverso un termine improprio, se non come statistica funzionale e limitante): ogni volta singolare e unica, la mancanza, l’assenza riempitiva che fa di un individuo quell’individuo. Quello che ci deforma ci rende unici, evidentemente.

Potrei suicidarmi con uno yogurt -

Così, nell’arte: il particolare diventa universale perché unico nella forma e nel punto di vista.

Un particolare informe è solo comune. Senza neppure la forza di farsi luogo, comune.

Anche perché: i luoghicomuni – i proverbi, gli slogan – raccolti senza consapevolezza (e ‘tecnica’, téchne: ‘arte’) diventano repertorio immediatamente riconoscibile. Ma la riconoscibilità è patrimonio sociale della comunicazione; visto che l’azione creativa non si fonda sul messaggio: Sicché

La forma, quindi, caratterizza la storia di ogni singola mancanza, o particolarità (nella creazione di un personaggio, nella selezione di una storia tra le altre).

Solo.

Arrivando formalmente alla fine cronologica della rastremazione, fino a Qui.

Pensate al titanismo di vedersi morire per l’interazione con un colore, con un aspetto della luce; la grandezza di finire, dopo aver sconfitto un drago con merito, per mano traditrice: e questo dopo essersi cuciti addosso la croce stessa della propria, brandita debolezza. La fine lontana, e èsule, di un supereroe ricondotto all’es radioattivo del proprio passato. La freccia che finisce la propria corsa nel cuore, difficile e calloso, del punto più sottovalutato del proprio corpo di eroe.

C’è modo, e modo. Appunto.

Ecco. Un ricordo che mi riscrivo a mente, mi recito da anni: riguarda Vonnegut che cita Céline e l’unica preoccupazione di qualcuno (un amico di Céline? Un suo personaggio? Un amico di Vonnegut? Qui, non importa): per tutta la vita, l’assillo di morire in modo dignitoso. Solo questo, mi basta, diceva, ossessivo, per tutta la vita. Non sia mai una morte ridicola. 

Ed era poi morto sotto un pianoforte a coda durante un terremoto.

Ecco.

Io, posso suicidarmi con uno yogurt.

Ah, guardi! Io pur di andare a teatro: piuttosto non mangio.

Eh… Così poi sviene e la portano all’ospedale…

Luciana e Antonio , Da Ettore Scola, C’eravamo tanto amati

2. Il cibo, l’arte

2a. I cuori affamati dell’arte

Gli esempi che di solito si scelgono ci rappresentano quanto le intuizioni, le digressioni, le parole incastonate sulla pagina che selezioniamo nelle nostre corse sintattiche. 

Con Francesca Serafini, ogni volta che ci troviamo a dover indicare la nostra idea di frattale, nel cinema (l’idea, cioè, che in una singola scena, nelle frazioni montate di una sequenza: in un gesto singolo, comunque: si dia rappresentazione non letterale dell’universo estetico che quel gesto contiene): facciamo vedere a chi ci ascolta l’incipit di Hungry Hearts di Saverio Costanzo.

Il film (del 2014, liberamente ispirato al romanzo di Marco Franzoso Il bambino indaco) inizia con un incontro tra Jude (Adam Driver) e Mina (Alba Rohrwacher) nel bagno di un ristorante cinese. Jude ha avuto un problema con del cibo guasto che s’è trasformato in disagio; e scoria, evidentemente. Mina – che ancora non conosce Jude – ha raggiunto quello stesso bagno poco dopo.

La porta s’è bloccata e Jude e Mina, per un piano sequenza asfittico di quasi dieci minuti, s’incontrano, condividono una situazione di imbarazzo (soprattutto Jude, spiazzato dall’impossibilità di fuggire), dominati come sono dai làsciti, biologici, inerziali, di un’intossicazione. In quei quasi dieci minuti di telefonate non partite, ritorni di Jude per imbarazzo fisico, non solo emotivo: si innamorano.

Nel rettangolo in movimento di quei dieci minuti, Mina e Jude si confrontano – nella messa in scena del cibo, dell’asfissia, del fronteggiarsi reciproco, delle fughe non riuscite – con tutte le forme frattali (per chi ha visto il film, per chi lo vedrà) del film futuro che ricomincia dopo questa prima scena lunghissima in cui l’amore – l’amore – arriva inaspettato nel cuore nero del bagno, bloccato, di un ristorante cinese di New York.

Perché poi l’amore questo fa, ogni volta a suo modo, ti becca quando sei più fragile e indifeso; perché, del resto, non si è mai realmente preparati agli agguati dell’amore – per quello che vale la parola in sé, fuori da ogni singola, segretissima resa dacché esistono gli esseri umani.

L’amore è una sorpresa che ti sei sempre aspettato: ma non sapevi come.

E chiunque dica il contrario mente; o non sa giustificare la sua idea con una bella affermazione.

Perché se l’amore dev’essere – finché c’è, almeno – ci sarà; e le recriminazioni e i rimpianti sono un semplice inganno della percezione, se non si ha abbastanza fantasia per distinguere tra le parole.

Se deve accadere – l’amore, le storie, ognuna a suo modo – accade.

E ogni storia, se raccontata attraverso la forma che prevede, accenna già alla propria eternità conclusa senza dare nulla per scontato. Come gli amori che resistono. Come – teste Javier Cercas – la democrazia.

“La musica s’interrompe, i tamburi sintetizzati di ‘Enola Gay’ si fermano a un passo dalla chiusa, la mamma del festeggiato arriva con la torta facendosi spazio sul tavolo della sala”.

2b. Spesso il racconto della malattia è una scusa che non regge

Forse non tutti sanno che dietro alla resa apparentemente improvvisata, naturalmente istrionica di Alberto Sordi incarnatosi in Nando Mericoni – in arte Santi Bailor – ci sono le invenzioni scritte (come nel caso della Lettera di Totò e Peppino nell’universo della Malafemmena) di Ettore Scola.

Anche nel caso di Nando Mericoni la sua scena più iconica riguarda uno scontro di civiltà alimentare tra la mostarda e i “maccheroni”. Lo provocano, li distrugge.

Però. Insieme con la resa all’evidenza della propria ostentata inappetenza statunitense (“questo lo dàmo al gatto, questa ar sorcio… questa ce ammazzamo le cimici”): lo spettro costante di una recriminazione. Un mantra che Santi Bailor usa, sempre, per giustificare le proprie mancanze, il proprio inarrivato successo. L’inesistenza, irriscattabile, del proprio talento.

Ribadisce, sempre, che è stato bloccato dalla scarlattina. L’ha bruciato la malattia avuta da piccolo, secondo la versione privata della sua esistenza. Sennò sarebbe lui accanto a Marilina. Non Joe Di Maggio. 

E non è “a me m’ha bloccato la scarlattina!”, fuori dall’universo geniale del film, un cartiglio da poter ascrivere alle istanze recriminatorie di questo tempo; alla demagogia coercitiva e irrazionale dell’uno uguale uno senza giudizio?

Non è la traduzione mericoniana di certe spire asfittiche della cattiva interpretazione del presente? Non c’è, nella digestione più o meno rilassata di quegli stessi maccheroni distrutti, la stessa natura proterva, fintamente democratica, deresponsabilizzante e pericolosa del manifesto “le opinioni hanno tutte lo stesso valore in ogni contesto”?

Se parliamo di fisica, Giorgio Parisi e io abbiamo lo stesso diritto di dire la nostra.

In ognuno di noi si cela un romanzo che dev’essere raccontato. Non importa come.

Questo. Dimenticando la bellezza comica dei rischi messi in luce dal Woody Allen di Amore e guerra.

Il genio del sillogismo bruciato. Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è mortale.

Tutti gli uomini sono Socrate.

Pomodoro e cipolla li vedo, manzo un po’ meno…

A sor mae’, ce stanno cinquemilaottocentotrenta trattorie a Roma: ciài ampia scelta!

Nicola Palumbo e il Re della “Mezza Porzione , Da Ettore Scola, C’eravamo tanto amati

3. L’indigestione referenziale

Una precisazione digressiva. Giusto perché non si dica “che siamo provinciali, che siamo tirati” e simili.

Viviamo in un’età referenziale, dove non soltanto la politica, la società, il mondo della partecipazione civile rischia di precipitare in una uniformità demoniaca, ma l’arte stessa ― anzi: non esiste l’arte in sé, quindi: tutte le rese artistiche, le manifestazioni dell’arte attraverso le opere rischiano un appiattimento comunicativo che snatura l’idea stessa di azzardo estetico; ogni esperimento di bellezza, o di originalità.

Un rischio determinato da un principio diffuso di ricezione referenziale, appunto. La percezione della sola lettera, senza il filtro interpretativo dell’ironia, magari (che, teste Wittgenstein, è un’interpretazione del mondo, non un orpello); o, comunque: la necessità che il messaggio passi di là da qualsiasi fatica della forma – appunto – in grado di rendere universale quel particolare.

Il caso delle iterazioni elencatorie di identiche risposte a un’unica domanda social, per esempio. O, dopo un ventennio e più di riscrittura planetaria dell’ironia berlusconiana (che non ironia, era, ma manipolazione strumentale di un dato oggettivo, definito poi ironico dallo stesso patetico manipolatore per giustificare qualsiasi sciocchezza detta): l’incapacità di percepire il senso altro di una frase rispetto – appunto – alla lettera che la individua. Così: Trump (o Putin, o Bolsonaro, o Milei: tutte geminazioni della stessa pianta populista-apripista) continuano ad amplificare la mistificazione dei dati reali attraverso una pratica narrativa di finzione che devasta il confine, fluttuante, tra finzione ricreata e finzione strumentale.

Questo, portato dalla dimensione civile alle istanze – primarie, e umane – di lasciare qualcosa che resti, di me: ha comportato la proliferazione testimoniale e diaristica referenziale nella gran parte della produzione letteraria contemporanea.

E quindi: ancora: a chi possono interessare le mie derive galattosemiche se non a qualcuno che sia – possa, voglia – semplicemente essere interessato dalla forma con cui vengono descritte, raccontate? Dalla scelta dei toni; dalla musica di parole che ho voluto usare – o dimenticare in questo stesso testo

Ora. Non voglio certo con questo dare vita a una sorta di battaglia all’algorythm and blues che imprigiona molte – troppe – esecuzioni di questo tempo.

Voglio solo fermare sulla carta inesistente della pagina virtuale una riflessione soggettiva, segreta, privata, personale che parta però dalla forma che mi rappresenta.

Un’ossessione da condividere, in sostanza. 

Qualsiasi artista prende il suo mondo – privato, segreto – e lo rende universale attraverso la forma che usa per raccontarlo (le scalmane ipotattiche della Ricerca, l’assenza voluta del colore in Guernica per raccontare il bombardamento, e la guerra; le digressioni di Matt Groening come resa formale e quindi messa in scena delle aritmie digressive di Homer Simpson, le sue distrazioni: la frattura tra un pensiero e l’altro). Nei suoi tentativi d’arte, qualsiasi dilettante più o meno in buonafede fa esattamente il contrario: afferra quella che considera la percezione degli universali artistici con cui entra in contatto: e li riporta alla sua vita privata. In pratica, la prosa di Busi contro le dinamiche del Signora-Mia

“Nell’universo DC Comics Green Lantern teme il colore giallo. Annulla tutti i suoi verdi, quasi infiniti poteri di supereroe. Mi sono chiesto sempre cosa comporterebbe in Hal Jordan (questo, il nome compiaciuto della prima ‘Lanterna Verde’) la presenza del blu”.

E però: nell’età referenziale che andiamo delineando: messe sullo stesso piano ricettivo.

Ora.

Anche per non defilarmi dall’agone della messa in scena.

Continuando queste rime tra composizione e alimentazione, percezione e ingestione (con tutte le variabili che la mia premessa galattosemica ha determinato: sempre per non generalizzare).

Quando mangio, quello che trattengo in me e diventa me e mi fortifica in carne e sangue: fa di me quello che sono; e permette a chiunque di riconoscere in me l’umanità fisica che la biologia determina. Nascosta dai fumi di cottura della metafora, questa è l’arte per me (alla fine, non solo in un universo arcimboldiano).

Le scorie che elimino, le tossine che il mio corpo espelle, ogni deiezione e spurgo: non è arte. È scoria e spurgo, appunto.

Così. Gli sfoghi social e i libri che certo mercato vorrebbe imporre sono di quest’ultimo tipo (e quante vampate allergiche mettono radici già in origine nel senso nascosto di sfoghi; quanta banalità strutturale in tipo?).

Distinguere quello che è cibo e quello che è veleno per me. Questo il làscito formativo – che fa parte per sé stesso e non deve dare conto a nessun corpo esterno strutturale – della mia leggendaria, in realtà insondabile galattosemia.

E in più. Perché sia più chiaro di cosa parliamo quando parliamo di veleno in modo non referenziale.

L’avvelenata di Guccini, che si fonda apparentemente sullo sfogo: è canzone di estrema perizia formale; e appartiene alla tradizione parallela e maledetta dei Folgóre e dei Vian. Così come la magnifica Rutti di Morgan ascoltata al Concerto dell’ultimo primo maggio.

Perché, senza la fatica e la consapevolezza della forma, un grido al veleno partecipa al gioco sgrammaticato (meglio: de-grammaticato) e becero dell’insulto social; non agli scherzi rigorosissimi delle pasquinate aretine del Cinquecento (o alle loro sublimi riscrizioni magnesche).

Pasta e ceci?! Re! Un’altra mezza porzione. Abbondante, mi raccomando!

Mai una sana scarsa, eh…

Antonio e il Re della ” Mezza Porzione” , Da Ettore Scola, C’eravamo tanto amati

4. Però. (“Che cosa vuol dire però?!”)

Ricordo un pomeriggio di parecchi anni fa; forse la fine degli anni Zero, il preludio degli anni Dieci. Una riunione di scrittrici e scrittori sotto il segno, combattivo, di TQ. Scrittrici e scrittori trentenni e quarantenni che, di fronte al famigerato piano della realtà storica in cui si vive, decidono di riunirsi e, come prima cosa, interrogarsi. Sul cosa fare, evidentemente. Soprattutto – ma non per tutte e per tutti, a quel che ricordo – sul come.

(Poi, nel tempo, l’esperienza TQ si sarebbe sgretolata come una serie di piccoli pianeti Krypton paradossalmente ancora interi in una congerie di attività politiche differenziate: alcune notevolissime; con, però, la crepa progressiva del grande discrimine tra chi avrebbe voluto partire da Carmelo Bene e dall’estetica e chi, invece, strenuamente, da una salvaguardia etica del Bene Comune. Una differenza paragrafematica tra lineetta e e: tra scrittore-cittadino (scrittrice-cittadina) e scrittore e cittadino (scrittrice e cittadina), per l’appunto).

Comunque. Ognuna e ognuno di noi, nella Sala Grande della Laterza, a Roma, quando decide di prendere la parola: espone una sua ipotesi di lavoro, una sua strategia, una riflessione sulla vita e la realtà del tempo che sta vivendo, una suggestione per sé.

Io, mi ricordo, racconto un episodio di Misfits di Howard Overman. Per chi non ricordasse la serie (nonostante le più o meno copie che l’hanno saccheggiata nel tempo): in séguito a un non ben specificato temporale, un sommovimento planetario (e, forse, non solo) molte persone acquistano dei superpoteri. Più o meno utili; o bizzarri. Tra questi, il nostro gruppo di protagonisti, alcuni ragazzi condannati (la parola c’è) ai lavori socialmente utili in un’Inghilterra kubrickiana e meccanica. Tra di loro: c’è chi può riportare indietro il tempo; chi con un semplice tocco può scatenare nel toccato una frenesia sessuale incontrollabile, chi legge nel pensiero, chi, addirittura (attenzione: rivelazione da finestagione) è immortale.

Potrei suicidarmi con uno yogurt -

Ecco. C’è però, fuori dal novero dei protagonisti effettivi, nel sesto episodio della seconda stagione, un personaggio che, dopo il temporale, ha acquisito il potere di controllare il latte. Un potere ridicolo, diciàmocelo; un trucco dilettantesco, a confronto delle infinite possibilità degli altri.

Però. Tutti gli altri bevono latte, mangiano toast al formaggio. Così, l’oscuro manipolatore di lattosio attraverso la telecinesi: muove il latte nei loro organismi. E c’è chi soffoca; chi, immortale, viene ridotto in coma vegetativo trasportando il latte fino alla corteccia cerebrale.

Quindi stiamo attenti a non sottovalutare, concludevo allora, concludo oggi: i disastri che possono essere determinati dalla mediocrità; quando decide di avere un superpotere: ed è però fustrata dalla presenza, evidente, dei proprî limiti. Quando, con la forza patetica di una velleità, può riuscire a distruggere proprio quel mondo di riferimento da cui si sente esclusa. Ricordiamoci che non tutti i superpoteri – parlavo di arte, naturalmente – sono uguali all’arrivo. E, personalmente, mi sento più affascinato da un immortale (pur guascone e impresentabile come il personaggio interpretato da Robert Sheehan) che da un manipolatore di latte.

Ecco.

Oggi. Due cose. La prima, plurale. La questione dell’età referenziale, in arte, dovrebbe servire per esorcizzare i varî esordienti dei Mostri di Risi, che scrivono “così… nu poco come gli viene… come la natura, ecco”. Questo, naturalmente, se la nostra percezione critica non si fonda sulla competenza millantatrice con cui l’ingegnere di Straziami ma di baci saziami, fingendosi esperto sommelier, scambia un Cantina sociale di Velletri 1968 per un Frescobaldi del 1911; e poi vuole dare la colpa a Marino-Nino Manfredi perché ha sbagliato a prendere la bottiglia giusta.

La seconda. Singolare. (Ma non per questo, di suo, condivisibile o escludente).

Sono galattosemico. Refrattario a qualsvoglia intervento, contro di me, di un qualsiasi manipolatore di latte. 

Càpita.

E che le mezze porzioni diventino intere per tutti!

Antonio , Da Ettore Scola, C’eravamo tanto amati

5. Non si sa mai come ci càpita (un poscritto)

Tanto per non lasciare nulla di intentato.

Non posso attingere senza pensarci alla scatola di cioccolatini di Forrest Gump (e alla sottesa idea della vita insegnàtagli dalla madre, evidentemente). 

Almeno: senza un previo controllo dell’elenco degl’ingredienti (come uno spiantato Gassman di fronte ai prezzi esposti del Re della Mezza Porzione in C’eravamo tanto amati, appunto).

Mamma diceva sempre: la vita è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti càpita”.

In realtà: le grandi linee della vita si sanno, di massima. Nasci. Muori. 

Vivi nel mondo. 

Sono le singole avventure quotidiane del come questa vita si svolga a lasciarci senza fiato (anche prima della fine, dico).

Non posso mangiare i cioccolatini senza pensarci. Lo so.

Questo però mi ha costretto a essere al tempo stesso più aperto e più selettivo nei confronti dei doni incartati che la vita ci dovrebbe offrire.

“Quando mangio, quello che trattengo in me e diventa me e mi fortifica in carne e sangue: fa di me quello che sono; e permette a chiunque di riconoscere in me l’umanità fisica che la biologia determina”.

E proprio io che affronto – teste, ancora, chi mi conosce nel profondo – le cose d’arte con la stolida frenesìa di Forrest Gump sul campo di football (tradotto: spesso, quasi sempre: mi serve qualcuno che mi gridi di smettere di correre): ora m’impongo di finire con un poscritto.

Una delle scene più belle in assoluto di Forrest Gump: per quello che mi riguarda: la più bella in assoluto (ho sempre preferito i relativi, agli assoluti) è quando Forrest parla con l’amore della sua vita davanti alla sua tomba. Nell’italiano tradotto del film Sei morta un sabato mattina, dice Forrest. E ti ho fatto mettere qui: sotto il nostro albero.

Solo. A guardare bene la lapide inquadrata. Si legge Jenny Gump July 16. 1945 – March 22. 1982.

Nel nostro universo, il 22 marzo era un lunedì.

Tre possibili motivi.

Nell’universo sfasato di Forrest Gump, gli autori hanno voluto testimoniare di una diffrazione, un anello che non tiene, un disvelamento per puntigliosi guardatori di lapidi. Ma è consapevole. E voluto. (Anche se: morire di lunedì – e se vi chiedete perché, non lo saprete mai – è infinitamente più triste che morire di sabato).

Quelle due date, 22 marzo e sabato, hanno un valore privato e soggettivo per gli autori del film. E hanno voluto celebrarle a modo loro, di là da qualsiasi puntigliosa precisazione recettiva. Il film è il loro: è il 22 marzo 1982 è il giorno della settimana che vogliono loro.

Infine. Il terzo aspetto velenoso. Indigeribile. Ma solo perché avvelena la bellezza, appunto (per me: sia chiaro, per me), con le scorie deludenti dell’inconsapevolezza (che non è, attenzione, la preterintenzionalità, spesso, del genio).

 Non se ne sono curati.

Giordano Meacci

Giordano Meacci è scrittore e sceneggiatore. Il suo ultimo libro è Acchiappafantasmi (Minimum Fax, 2023).

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