Senza casa non c’è futuro (soprattutto per i giovani) - Lucy
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Sarah Gainsforth

Senza casa non c’è futuro (soprattutto per i giovani)

Pur con 10 milioni di case vuote, l’Italia vive una profonda crisi abitativa, acuita da anni di politiche speculative; oggi, persino avere una casa ereditata non è più garanzia contro la povertà. Come uscirne?

Se il valore economico di un bene aumenta costantemente, prima o poi sarà fuori dalla portata della maggior parte delle persone, a meno che i salari non crescano di pari passo. Se i salari non solo non crescono ma stagnano o addirittura calano, è certo che in poco tempo quel bene non sarà più abbordabile.

Se quel bene è un bene di prima necessità, l’esito di questa dinamica sarà un’emergenza sociale. È un fatto abbastanza intuitivo, ed è questo il motivo per cui, pur con 10 milioni di case vuote e un tasso di famiglie proprietarie del 70%, l’Italia è di nuovo in una situazione di emergenza abitativa.

Negli anni Sessanta, un operaio abruzzese emigrato a Torino per lavorare alla Fiat, riusciva eventualmente a comprare una casa; ancora all’inizio degli anni Ottanta una giovane infermiera che iniziava a lavorare in ospedale poteva trovare una casa in affitto, per un quinto del proprio salario, nel centro storico di Bergamo. Oggi questo non è più possibile: le due principali forme di accesso alla casa, il mutuo e la locazione, non funzionano più.

Lorenzo, nome di fantasia, si è da poco trasferito a Roma per lavorare come anestesista al Policlinico. Dorme in automobile: di case in affitto a prezzi abbordabili non se ne trovano. Questo è anche colpa di proprietari come Cinzia, nome reale, che per un bilocale a San Giovanni chiede 1.900 euro al mese. “A Cinzia, per 1900 al mese me porti pranzo e cena tutti i giorni”, ha commentato un ragazzo sotto l’annuncio su Facebook.

A Roma gli affitti sono schizzati alle stelle in previsione di masse di turisti che sarebbero dovuti arrivare con il Giubileo. In tutto il Paese, le case in affitto ordinario sono scomparse anche a causa della diffusione degli affitti turistici. Ma l’aumento dei prezzi delle case in Italia va letto in una prospettiva temporale più ampia.

Negli ultimi 70 anni, nell’arco di una generazione, i prezzi delle case in Italia sono aumentati tantissimo: hanno iniziato a crescere molto all’inizio degli anni Sessanta e poi, in soli quarant’anni, tra il 1970 e il 2007, sono addirittura triplicati. Questo aumento è dipeso soprattutto dall’aumento del valore del suolo, cioè dall’incremento della rendita fondiaria. Poiché il costo della casa è aumentato così tanto, la popolazione esclusa sta crescendo. Negli ultimi dieci anni il tasso di proprietà è diminuito, e l’affitto sta aumentando: in Italia ci sono molte più famiglie in affitto (quasi il doppio) di quelle che invece pagano un mutuo. 

La crescita proprietaria è insomma un fatto del passato. Quasi la totalità delle famiglie proprietarie ha la piena proprietà dell’abitazione secondo l’Istat, cioè non sta pagando un mutuo: perché ha finito di farlo, perché è talmente ricca da non aver bisogno di credito, o perché ha ereditato la casa.

“A Roma gli affitti sono schizzati alle stelle in previsione di masse di turisti che sarebbero dovuti arrivare con il Giubileo. In tutto il Paese, le case in affitto ordinario sono scomparse anche a causa della diffusione degli affitti turistici”.

Si tratta della fascia più anziana della popolazione (solo il 6% dei proprietari ha meno di 35 anni secondo l’Agenzia delle Entrate). I proprietari sono soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati, e questi ultimi posseggono le case di maggior valore anche perché il valore di quelle abitazioni è cresciuto nel tempo( lo scrive l’Agenzia delle Entrate).

Oggi accedere a un mutuo per molti lavoratori precari non è più possibile, senza  contare che solo chi ha una famiglia alle spalle può farsi garantire il capitale di partenza necessario: secondo il Think Tank Tortuga l’anticipo è tra i 90 e i 130mila euro a Firenze, Bologna, Roma e Milano, motivo per cui le grandi città italiane sono del tutto inaccessibili per le famiglie monoreddito e sono, nei casi migliori, al limite dell’accessibilità per le famiglie con due redditi.

Insomma, l’andamento socio-demografica della proprietà immobiliare conferma quel che sapevamo già: in Italia gli anziani se la passano molto meglio dei giovani. Se poi consideriamo che l’affitto è un trasferimento di ricchezza dalla parte più giovane e povera della popolazione a quella più anziana e ricca, e che l’affitto implicito, ovvero il costo che un proprietario risparmia non pagando un affitto, costituisce circa il 20% del reddito familiare netto disponibile delle famiglie proprietarie, cominciamo ad avere il quadro di una crescente disuguaglianza intergenerazionale.

La casa come perno dell’economia

La casa è sempre stata uno strumento di consenso politico. Il sostegno della proprietà è stato il perno infatti di una strategia di mobilitazione individualista: garantire l’accesso di massa alla casa è stato un obiettivo politico (“non tutti proletari ma tutti proprietari”) promosso come elemento di stabilizzazione della società, un antidoto al conflitto da una parte, e  di trasformazione culturale della società, di imborghesimento della società con l’emersione del ceto medio attraverso la promozione della proprietà della casa, dall’altra.

Oggi però quella politica mostra il suo costo. E non è un caso che la nuova questione abitativa riguarda proprio la classe media, che è figlia di quegli strati sociali che la politica abitativa del secondo dopoguerra aveva fatto emergere dalla povertà. La storia della classe media è a tutti gli effetti una storia ‘domestica’. In questa storia, è importante ricordare che la crescita proprietaria è il risultato non soltanto del sudore delle generazioni passate ma anche, appunto, delle politiche pubbliche, oltre che di un minore divario tra costo della casa e salari. La crescita proprietaria è avvenuta infatti anche grazie al finanziamento e alle agevolazioni per l’edilizia agevolata e sovvenzionata, come anche grazie alla vendita di alloggi popolari a prezzi inferiori a quelli di mercato. Le case popolari sono state vendute a prezzi a volte addirittura inferiori ai costi di costruzione di nuovi alloggi, un fatto che smentisce la motivazione che dovrebbe giustificare la vendita del patrimonio pubblico: costruire case nuove con la vendita di quelle vecchie.

La promozione della proprietà è una costante che attraversa le diverse fasi delle politiche abitative in Italia. Ma c’è un altro motivo per cui, soprattutto dagli anni Novanta, quando la politica è stata mangiata dall’economia e l’economia dalla finanza, lo Stato ha attivamente sostenuto l’acquisto di abitazioni: l’incremento cioè dei valori immobiliari. Questo obiettivo è stato raggiunto alimentando la domanda di case con agevolazioni del credito e la privatizzazione del patrimonio pubblico. A guadagnarci non sono state tanto le famiglie, che si sono indebitate e sono rimaste fregate dallo scoppio della bolla immobiliare nel 2008, ma le imprese che avevano capito per tempo come sia più redditizio guadagnare con la speculazione immobiliare piuttosto che producendo beni di consumo o pagando salari decenti. Lo Stato ha aperto così la strada alla finanziarizzazione dell’economia, trasformando case ed edifici in investimenti. La piccola proprietà ha interiorizzato la logica speculativa con attese di redditività sempre più alte, oggi completamente sganciata dalla capacità di spesa di chi lavora.

Dalla metà degli anni Settanta le rendite hanno più che raddoppiato il loro peso sul valore aggiunto totale in Italia. E siccome tutto è connesso anche in economia, la crescita della rendita (cioè del reddito da immobili) è avvenuta a discapito delle altre componenti del valore aggiunto (salari e profitti). La rendita ha di fatto  sostituito salari e profitti.

Oggi la casa non è più abbordabile proprio perché la rendita immobiliare ha sostituito il lavoro come mezzo di produzione di ricchezza, come salvagente individuale, come forma di welfare personale, anche grazie alle politiche pubbliche che hanno creato l’infrastruttura per la finanziarizzazione dell’economia. La casa è diventata il principale mezzo di estrazione di un valore sociale e collettivo quale è il valore delle città, alimentato anche da investimenti pubblici, e di trasformazione dello stesso in surplus economico attraverso l’attività edilizia. Si tratta di un modello assolutamente insostenibile, dal punto vista sia sociale che ambientale.

La crescita della rendita infatti deprime l’economia, perché assorbe la crescita. Anche questo è intuitivo: se il mio salario aumenta ma il mio affitto raddoppia, la spesa per la casa assorbe completamente la crescita del salario. Per questo bisogna aumentare i salari, che in Italia sono bassissimi, ma anche stabilire un limite all’aumento dei canoni di locazione e regolare gli affitti brevi turistici. Bisogna cioè stabilire qual è un livello di remunerazione della rendita socialmente accettabile: quanto è possibile guadagnare dal possesso e dalla locazione di una casa senza mettere a rischio la vita degli altri, delle nuove generazioni escluse dalle case a causa dell’aumento del loro valore. Nessuno minaccia il diritto di proprietà privata, che andrebbe però limitato per ridurre il consumo di suolo, e nessuno intende abbassare per decreto i valori immobiliari. Bisogna però distinguere tra una giusta remunerazione della rendita (un affitto equo) e la speculazione immobiliare. Bisogna recuperare il valore d’uso delle case: le case vanno abitate, non sfruttate come veicoli finanziari.

Gli affitti brevi turistici hanno accelerato la crisi abitativa trasformando le case in mezzi di estrazione di rendita che lasciano il vuoto dietro di sé. Gli affitti brevi, è bene ricordarlo, competono nel mercato ordinario degli affitti, non con tutte le case disponibili in assoluto in Italia: non è su questo dato che si calcola l’impatto degli affitti brevi. L’impatto si calcola piuttosto stimando il differenziale di redditività tra tipologie di affitto: se guadagno l’equivalente di un canone ordinario annuale con quattro mesi di affitto turistico, sto mettendo a rischio la residenzialità nelle aree turistiche. Anche questo è abbastanza intuitivo e ci sono molti studi che lo dimostrano, ma basta farsi un giro in qualsiasi centro storico italiano per averne esperienza immediata.

Non spetta ai proprietari privati risolvere la crisi abitativa, anche se andrebbe loro vietato di alimentarla tenendo vuote le case: nessuno li obbliga ad acquistare case a uso investimento salvo poi lamentarsi dell’aumento della morosità (una prevedibile conseguenza della crescita dei costi della casa, sganciati dai salari). Si chiama rischio d’impresa, e potrebbero investire in altro. Certo, c’è da dire che l’acquisto di case a uso investimento è in gran parte il risultato di un regime fiscale favorevole: se la casa è trattata come un investimento, è però altresì tassata fiscalmente come se fosse un bene di prima necessità. Fino all’anno scorso, la cedolare secca sugli affitti brevi turistici era addirittura inferiore alla prima aliquota Irpef: generando così una disparità di trattamento tra contribuenti giustificabile solo con l’ipotesi che si voglia intenzionalmente favorire la rendita immobiliare sui redditi da lavoro.

A ogni modo, non si capisce proprio perché se l’Italia sta per toccare il fondo, grazie alle politiche economiche neoliberiste che si sono succedute in tutti i settori negli ultimi decenni, debbano salvarsi solo i proprietari delle case, con le loro irrealistiche attese di guadagno, e a discapito di tutti gli altri. E non parliamo chiaramente di tutti i proprietari, ma solo di quelli che possiedono seconde e terze case nei centri storici di alcune, poche, città. Se guardiamo oltre, alla vastissima provincia italiana, alle periferie urbane, alle città medie e piccole, ai paesi, alle aree interne, al Mezzogiorno, cioè alla maggior parte dell’Italia, ci rendiamo contro che il modello economico fondato sull’estrazione di rendita immobiliare non funziona per nessuno, neanche per i proprietari.

Che fare, allora? 

La promozione della proprietà dell’abitazione (e non del diritto alla casa) è servita negli ultimi decenni a rendere accettabile per milioni di persone la svolta neoliberista che li ha impoveriti, alimentando una ‘mobilitazione proprietaria’ in difesa di un sistema che sarebbe molto più logico combattere. Sottrarre la casa alle logiche finanziarie non solo risolverebbe la crisi abitativa ma combatterebbe un sistema che sta impoverendo la maggior parte delle persone. Oggi il principale strumento per farlo è mantenere e rafforzare la proprietà pubblica (o collettiva) del suolo. 

In altre città in Europa questo è molto chiaro: città come Barcellona, Parigi e Berlino hanno smesso di vendere suolo, ricominciato a costruire edilizia residenziale pubblica e a finanziare edilizia sociale in affitto, cioè con un canone intermedio tra quello di una casa popolare e una casa sul libero mercato. Nel caso di Barcellona, una varietà di soggetti contribuisce a realizzare una varietà di misure, la cui regia pubblica è netta. Il comune orienta l’attività dei privati. In Italia avviene esattamente il contrario: si continua a cedere il suolo pubblico, anche gratuitamente, a vendere l’edilizia residenziale pubblica e finanziare edilizia sociale che ha un vincolo di destinazione di soli otto anni (poi può finire sul mercato), lasciandola però in mano a costruttori privati senza alcun controllo pubblico, con il risultato che le stanze per studenti classificate come edilizia sociale sono locate a prezzi più alti di quelli di mercato. 

Il cuore del problema è che in Italia il suolo rappresenta ancora oggi il principale strumento di auto-finanziamento delle città. La svolta neoliberista ha imposto un regime di austerità per tagliare il debito e la spesa pubblica; i trasferimenti statali agli enti locali sono diminuiti e continuano a farlo: dal 2011 al 2018 lo Stato ha tagliato 12 miliardi di euro ai comuni, “un taglio senza precedenti” secondo l’Anci, sproporzionato anche rispetto all’esiguo contributo dei comuni alla formazione del debito pubblico. In questo contesto, l’urbanistica è diventata una moneta di scambio: per attirare investimenti privati, l’attività edilizia (la cosiddetta rigenerazione urbana) è agevolata dai comuni con incrementi volumetrici e sconti sugli oneri dovuti dai costruttori. Gli oneri dovrebbero servire a realizzare i servizi pubblici e tutto quello che contribuisce alla qualità urbana delle città oltre le case. Ma come il caso di Milano dimostra, gli oneri sono talmente bassi che non coprono neanche il costo di nuovi servizi per i cittadini (scuole, parchi, piscine, biblioteche), mentre grazie agli sconti operatori privati, costruttori e fondi, hanno triplicato i loro guadagni.  

Il problema è che dietro lo slogan ‘pubblico-privato’ in Italia c’è solo il privato, finanziato con soldi pubblici. Come ha scritto Lucia Tozzi alla voce Rigenerazione Urbana dell’Enciclopedia Treccani, “la rigenerazione è interamente imperniata sul dogma della presunta impotenza strutturale del settore pubblico e della conseguente dipendenza dagli investimenti privati: la trasformazione di una qualsiasi porzione di territorio, in quest’ottica, è vincolata alla capacità di attrarre fondi”. Ma, prosegue Tozzi, “l’imposizione del metodo della concertazione urbanistica, della partnership pubblico-privato, crea in questo quadro un radicale e ingovernabile sbilanciamento di forze a favore del privato, libero di porre condizioni che indeboliscono ulteriormente le finanze e le competenze pubbliche, accelerano la concentrazione della ricchezza e implementano le disuguaglianze tra le classi e i territori” nel quadro più generale della privatizzazione delle politiche pubbliche. 

È proprio nella fase della rigenerazione urbana, invece, che bisogna tassare le elevatissime plusvalenze che si realizzano: bisogna intervenire a monte, prima che la rendita si materializzi nel costo della casa poi pagato dalle famiglie, tassando, dunque, la fase di trasformazione del suolo e dell’edilizia esistente. 

Bisogna ricostruire un soggetto pubblico con obiettivi sociali, che siano chiaramente distinti da quelli dei privati. Bisogna poi sottrarre la casa al mercato a partire dal governo del suolo che i privati tentano di ‘semplificare’, cambiando le norme che regolano diritti e doveri della proprietà immobiliare in funzione delle trasformazioni edilizie.

“Non si capisce proprio perché se l’Italia sta per toccare il fondo, grazie alle politiche economiche neoliberiste che si sono succedute in tutti i settori negli ultimi decenni, debbano salvarsi solo i proprietari delle case, con le loro irrealistiche attese di guadagno, e a discapito di tutti gli altri”.

Il pubblico deve tornare protagonista: può cedere per esempio il diritto di superficie ma non la proprietà del suolo; in alcuni modelli, chi rivende una casa acquistata con il diritto di superficie rientra in possesso del proprio capitale ma non specula su aumenti di valore della casa che non ci sono perché la proprietà della casa è sganciata da quella del suolo. Esistono, insomma, diverse strategie di accesso all’abitazione che non contemplano la speculazione. 

Per uscire dalla crisi abitativa, c’è bisogno di una nuova offerta di case in affitto a prezzi sostenibili realizzata dal pubblico e da enti non profit come le cooperative. La crescita proprietaria ha compiuto il suo ciclo ed è tempo di mutare strategia. 

Continuare a favorire l’attività edilizia privata speculativa per il finanziamento delle città e per la sopravvivenza individuale, è molto problematico anche dal punto di vista ambientale: ridurre il consumo di suolo ma anche la densificazione edilizia è assolutamente prioritario nel contesto della crisi climatica, per la salute pubblica. Invece si continua a privilegiare l’interesse di alcuni, i proprietari di aree ed edifici, che hanno sempre più peso nelle decisioni sul futuro di tutti. 

Ripartire dalla casa significa anche provare a invertire la spirale negativa dell’economia in Italia. A ogni crisi economica, che ha le sue radici nelle scelte politiche degli ultimi decenni, la ricetta per far ‘ripartire’ l’Italia è sussidiare l’edilizia privata. Così ogni volta si rianima un settore ormai troppo sganciato da qualsiasi funzione sociale con ristori e sgravi fiscali. Ma questo sistema è arrivato al capolinea, fatto particolarmente evidente dopo la diffusione della pandemia da Covid-19, quando, durante la crisi, si è aperta la possibilità di un cambiamento, di una inversione di tendenza rispetto alla privatizzazione orizzontale. 

Come ha reagito la ‘classe dirigente’? Destinando 170 miliardi di euro come credito di imposta per il Bonus facciate e il Superbonus 110, creando dunque nuovo debito pubblico per una gigantesca operazione di valorizzazione immobiliare privata, da una parte; dall’altra, con il decreto sicurezza.

Finanziamento pubblico della rendita privata, e repressione, criminalizzazione, di tutti gli esclusi da questo sistema, dall’altra: cos’è questa se non  una strategia di conservazione di un sistema al collasso? Ma gli esclusi sono ormai troppi: l’offerta di case si rivolge, infatti, sempre di più a un micro-target ricchissimi e stranieri che può soddisfare le attese di guadagno altissime dei proprietari di case in località attrattive; la ricchezza è sempre più concentrata e, anche il welfare personale, in un contesto di impoverimento generale, viene eroso rapidamente. La casa ereditata dalla nonna, anche se affittata su Airbnb, non garantisce più contro la povertà. Sono troppe le persone – insegnanti e ricercatori, medici e infermieri, autisti, camerieri, impiegati, oltre a persone disoccupate e in pensione – che ormai non ce la fanno. 

Siamo al termine di un ciclo, e forse i tempi sono maturi per aprire un grande dibattito culturale sulla casa, ma anche sul ruolo del pubblico, dello Stato e degli enti locali, della finanza, dell’economia, della proprietà, del suolo pubblico, e sulla crisi climatica, che è anche sociale, e che conferma che la proprietà non è un salvagente. 

Sarah Gainsforth

Sarah Gainsforth è una giornalista e ricercatrice indipendente. Il suo ultimo libro è Abitare stanca (Effequ, 2022).

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