Spazzolini, lassativi, Gratta e Vinci: tre storie di dipendenze insospettabili - Lucy
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Arnaldo Greco

Spazzolini, lassativi, Gratta e Vinci: tre storie di dipendenze insospettabili

Che cosa hanno in comune una siringa e uno spazzolino da denti? Alla scoperta di dipendenze poco comuni, per cercare di comprendere l'essenza stessa delle ossessioni.

I ragazzi che si trovano nella comunità di recupero per tossicodipendenti che ho visitato trovano particolarmente buffo il fatto che esista la dipendenza da sesso. Li fa sorridere, perché non la riconoscono come una dipendenza.

Non che siano degli esperti del tema, certo, e il loro parere non ha valore clinico naturalmente: è probabile che ne abbiano sentito parlare giusto in qualche storia di gossip di star americane, ma mi pare comunque singolare sentirglielo dire.

Sembra che non riescano proprio a concepirla in astratto, è come se la confondessero con la depravazione, quella (o quelle) sì che gli sembrano da curare, e quando sentono di comunità che curano la dipendenza dal sesso non riescono a immaginare cosa ci sia davvero da curare.

Per loro nulla è minimamente paragonabile alle droghe – questo lo si può comprendere – e la mia domanda genera un piccolo capannello e avvia una discussione.

Non sono molte le attività a disposizione nel dopocena. La tv comune non ne offre e l’occasione di una chiacchierata diversa dal solito è allettante. Provano a farmi una lista di ciò che può essere una vera dipendenza e ciò che non lo è.

Le voci si sovrappongono e le vicende personali vengono sempre prima di un’analisi generale, ciascuno ci tiene troppo alla propria storia e al proprio “percorso”. (Secondo me la parola “percorso” l’hanno imparata dalla tv, non dagli operatori).

In sintesi, mi fanno capire che la vera differenza è il corpo. La sofferenza del corpo, per la precisione. Nessuna dipendenza arriva a quella che hanno provato loro, perché nessuna comporta il grado di malessere fisico provato da loro. Provo a obiettare che altre dipendenze sono socialmente più accettabili e che forse anche a uno che fuma le sigarette se togliessero le sigarette all’improvviso, da un giorno all’altro, soffrirebbe come loro.

Lo dico pensando sia una stupidaggine, ma lo faccio per suscitare una reazione. Invece la prendono molto più seriamente di me. Sono persone semplici che non hanno alcun bisogno di essere deferenti o rispettose e che, probabilmente, o almeno a me sembra così, prendendomi in giro guadagnerebbero dei punti agli occhi degli altri.

Propongono varie idee, c’è tanta passione che non merita di essere derisa o sminuita, ci sono anche fantasia e storie concrete (e poca concretezza), ma l’idea del coinvolgimento fisico mi sembra precisa. È quello il discrimine che facciamo, di solito, tra le dipendenze.

Su questo hanno ragione loro. Ciò che ci preoccupa è la reazione fisica, per questo anche certe dipendenze, più spaventose, o perfino le stesse, quando non coinvolgono visibilmente il corpo, non ci interessano. Il personaggio di Toni Servillo ne Le conseguenze dell’amore, prova a raccontare proprio questo aspetto della dipendenza: Titta Di Girolamo assume regolarmente eroina, una volta alla settimana sempre alla stessa ora, ma con una disciplina che non compromette la sua immagine pubblica. 

Stefano ha poco meno di trent’anni e, al momento, è ospite in comunità. Ci sono alcuni ospiti che hanno ottenuto di scontare la pena carceraria in comunità, e chi parla ci tiene sempre a rimarcare la differenza. Non è tanto una questione di status, non c’è disprezzo per i detenuti come si potrebbe immaginare, semmai il desiderio di mostrare la propria forza di volontà: come a dire che sei lì perché l’hai scelto, non perché ti hanno costretto.

Stefano è un fabbro e, probabilmente, uscito di qui, tornerà a lavorare come fabbro. Dice che quel lavoro gliel’ha suggerito il padre, che di lavoro faceva l’impiegato, perché il padre si lamentava sempre del fatto che con i lavori manuali si guadagna meglio. Vedeva questo vicino di casa che riparava caldaie e girava in 164, a fronte della sua utilitaria, e sacramentava contro i lavori di concetto.

Stefano effettivamente ha guadagnato  molto più del padre, ma non si è mai comprato il “macchinone”, perché giocava d’azzardo. 

Mi racconta che nella sua officina si era costruito un tavolo di alluminio molto ampio, saldando pezzi di piani diversi. Poi aveva lavorato la superficie fino a renderla molto liscia e accompagna la descrizione col gesto della mano che scivola morbida. Certe mattine lo chiamava il tabaccaio e gli diceva che quel giorno arrivava il “carico”.

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Il carico, per lui, erano i Gratta e Vinci. Allora Stefano indossava un pantalone, correva al negozio e lì comprava un pacco intero del “Milionario”, cioè il Gratta e Vinci da cinque euro, uno dei primi a uscire sul mercato. Dice di essere rimasto affezionato a quel biglietto, con una tenerezza che, se non proprio agli amici, si riserva quantomeno agli sportivi o a cantanti amati, di sicuro non agli oggetti usa e getta. Si sente un precursore e ci tiene a rimarcare che, all’inizio, nessuno avrebbe immaginato il successo che poi i Gratta e Vinci hanno riscosso.

Fatto sta che nella confezione trovava sessanta biglietti. Li prendeva tutti e li disponeva sul tavolo d’alluminio, uno a fianco all’altro, in tante strisce. Poi prendeva la bottiglia di solvente e ce la rovesciava sopra. A questo punto Stefano si esalta come un alchimista, e spiega che è molto più rapido che grattare, perché quella roba grigia che ci mettono sopra si scioglie proprio col solvente. Altro che usare le monete. Ci vuole molto di meno. Fa giusto un po’ di puzza e poi scompare. Brucia, evapora. E si asciuga subito. 

A quel punto raccoglieva i biglietti e li guardava a uno a uno. Ne ha visti talmente tanti di quei pacchi che aveva imparato anche quanto si poteva guadagnare. Con questa affermazione entra in un discorso ricco di dettagli inverificabili che mi affascina per la sua ossessività. Mi spiega che se in un pacco da sessanta si trova un biglietto da cinquecento euro o più, vuol dire che non ci possono essere altri vincenti.

Gli domando se ne era così sicuro da non controllarli neanche, al che lui ammette che li controllava, ma solo per verificare di avere ragione. Mi spiega che i biglietti vincenti sono tutti nella stessa parte del blocchetto, tra il ventesimo e il trentesimo biglietto, e mi racconta, con un pizzico di nostalgia, che una volta aveva fatto pure una scommessa con lo stesso tabaccaio già menzionato.

Lui voleva convincerlo a giocare. Lo stuzzicava dicendogli che il giorno prima, appena Stefano aveva lasciato il negozio, un tizio aveva vinto 500 euro, proprio col biglietto successivo. “Lo vedi, io te l’avevo detto che dovevi continuare a giocare”. Sfotteva. Ma Stefano sapeva che era impossibile. Perché? Perché – spiega – il giorno prima era andato via dopo aver preso un biglietto da cinquanta euro, e dopo quello non può essercene uno vincente. Allora aveva domandato al tabaccaio se era disposto a scommettere cinquemila euro che non erano due biglietti successivi: “e quel coglione se l’è giocate davvero”.

Non sa perché l’ha fatto, ma intanto le ha perse. Perché Stefano è andato a casa, ha preso il biglietto e gli ha potuto mostrare i due numeri di serie non consecutivi. Riconosco subito cosa ci sia di esaltante in questo episodio. Gli domando, perciò, se per lui è stata una sorta di vendetta, ma a quel punto cambia tono e mi dice che altro che cinquemila euro, cinquantamila gliene doveva dare il tabaccaio per tornare pari con tutto quello che aveva speso da lui in Gratta e Vinci. 

Per entrare in questa comunità Stefano ha dovuto far finta di essere tossicodipendente, e la cosa gli ha dato pure fastidio, perché non si sente come “loro”. Quando parla con gli operatori e si riferisce agli altri ragazzi chiamandoli “i tossici” gli dicono di smetterla. Secondo lui in quel modo vogliono fargli capire che sono identici. Ma lui non ci sta. Dice che non è vero. Che ha capito tante cose lì dentro, ma che è lui che ci è voluto andare. Gli ricordo che anche per gli altri è così. Mi dice, sorridendo, di non fare il furbo. Che ho capito bene cosa vuole dire.

Torna il discorso della sofferenza, insomma. Come se solo la sofferenza del corpo fosse il discrimine tra cosa è dipendenza e cosa non lo è. E, per ribadire il concetto, mi fa notare, in maniera un po’ rozza ma decisamente efficace, che perfino lo Stato la pensa così. Altrimenti perché esisterebbero così poche comunità per i ludopatici e l’azzardopatia? 

Lui ha scelto una comunità in Campania, perché non voleva allontanarsi dalla madre che lo ha aiutato molto nella decisione di farsi curare e, anzi, già prima di entrare, gli era sempre stata di grande sostegno. A volte si faceva chiudere in camera da lei, per non avere la possibilità di uscire. Altre volte facevano un patto diverso: lei usciva di casa al posto suo per giocargli le scommesse. Così almeno giocava solo quanto programmato, mentre se fosse andato lui alla sala scommesse si sarebbe fatto prendere dalla frenesia.

Per un po’ Stefano immagina divertito la faccia del tizio che all’agenzia vedeva arrivare una signora con mille euro in tasca per giocarli su una partita del campionato francese. Ma poi si corregge subito, forse non faceva nessuna faccia, perché avranno visto di tutto lì dentro.

La madre aveva avuto anche un’altra idea per mettergli un freno: gli aveva consigliato di scommettere sulle partite del giorno dopo. Così lui poteva mettersi tranquillo in attesa del risultato. Anzi, in quelle occasioni anche prendere sonno era più semplice del solito. Non vedeva l’ora di addormentarsi, perché prima dormiva, prima arrivava domani, prima arrivavano i risultati. 

Stefano mi racconta di aver scommesso su ogni cosa, su ogni squadra che esiste e di ogni campionato possibile, e di conoscere la geografia meglio di un professore. Il Gratta e Vinci, il lotto, il poker, la scopa, il SuperEnalotto. Con orgoglio aggiunge che, una volta, ha giocato a poker anche col più famoso cantante napoletano, ma non si è divertito perché voleva bene a quel cantante e, quando sei gentile con i tuoi avversari, rischi di combinare pasticci. Solo i cavalli non gli sono mai piaciuti abbastanza.

In assoluto, però, lui si considera innanzitutto “un sistemista di over”, quella era la sua specialità. (L’under\over è una scommessa sul calcio abbastanza comune. Con due risultati possibili, come il bianco/nero alla roulette per intenderci. Ad esempio si può scommettere che in una partita vengano segnati almeno tre gol, o meno di tre).

“Per entrare in questa comunità Stefano ha dovuto far finta di essere tossicodipendente, e la cosa gli ha dato pure fastidio, perché non si sente come ‘loro'”.

Si ricorda perfettamente l’ultima scommessa prima di entrare in comunità: erano due over su due partite della serie B francese. “Ci giocai su novemila euro. Mi ero giurato che sarei entrato in comunità pure se vincevo. Ma era una palla. Se avessi vinto me li sarei rigiocati sicuramente. Forse è stato meglio così. Prima entro, prima mi fanno uscire”. 

Quando è arrivato in comunità scommetteva ancora. Senza soldi, ovviamente, ma trovava comunque il modo di scommettere. “Con questa”, dice, e si picchietta col dito la testa. C’è una regola, in comunità, che lui non si sa spiegare: i quotidiani si possono leggere solo al pomeriggio. In ogni caso lui aveva preso l’abitudine di sfogliare il giornale e farsi delle scommesse in mente. Se le segnava su un pezzo di carta per non barare con sé stesso. Poi, il giorno dopo, aspettava di finire di mangiare per leggere il giornale e controllare se era ancora bravo.

A un certo punto, però, gli operatori si sono accorti che il giornale gli piaceva un po’ troppo e si sono insospettiti. Perché agli altri ospiti non è che poi piaccia così tanto. E a quel punto gli hanno spiegato una cosa su cui non aveva riflettuto: che non conta che si scommetta con i soldi, conta la scommessa in sé. Che se lui era comunque proiettato tutto il giorno sul momento in cui avrebbe potuto leggere il giornale e verificare la sua scommessa, allora non stava “guarendo”. Così gli hanno vietato pure il giornale.

Allora si è inventato un’altra scommessa: indovinare il colore dell’automobile che esce da una galleria che si vede da un punto panoramico, lì in comunità. Ma è durata poco. 

Si sente in una situazione strana. Lo curano, ma, secondo lui, lo curano come i tossicodipendenti. Quando se ne è lamentato gli hanno detto che pure l’ONU (l’OMS, in realtà, come confermato da un operatore) dice che chi gioca e chi si droga sono uguali. Ma lui non si fida comunque fino in fondo.

“Si ricorda perfettamente l’ultima scommessa prima di entrare in comunità: erano due over su due partite della serie B francese”.

Gli domando se la differenza sta allora nel fatto che per lui sarà più semplice che per gli altri uscirne, ma mi risponde con una questione che sembra contraddire quanto detto finora. “Pensa ogni giorno, quando esci di casa, quante volte vedi una sala scommesse, una macchinetta del poker, un tabaccaio che fa il lotto istantaneo, e quante volte sul telefonino puoi finire su un sito di scommesse”. 

Mi sembrano immediatamente due questioni decisive: dunque non conta solo la sofferenza, conta anche la resistenza alle tentazioni. E non conta solo quanto tempo dedichi alla tua dipendenza, ma quanto il tuo pensiero resti proiettato nell’appagamento di quel desiderio. Provo allora a parlarne con Francesca, una persona che mi ha rivelato una dipendenza che, secondo gli standard comuni, non è neanche una dipendenza: quella da spazzolino a idrogetto.   

Spazzolini, lassativi, Gratta e Vinci: tre storie di dipendenze insospettabili -

Francesca vive in quella via e in quella casa da sempre. Prima con i genitori, poi ci ha vissuto col padre, poi con la nuova compagna del padre e la sorella, poi sola, e adesso ci vive con Alessio.

Mi hanno invitato a casa loro una sola volta, per una partita, anche se poi, per fortuna, abbiamo accompagnato la partita a questa chiacchierata. Lì su un divano nuovo, Alessio mi ha spiegato che, quando si è trasferito, ha chiesto di cambiare tutti i mobili e, assieme, anche la disposizione delle camere, per sentirsi in una casa nuova, e perché pretendeva che per lei fosse lo stesso. 

In realtà vivono in quella casa giusto due o tre mesi l’anno perché, per il resto del tempo, stanno in Senegal. Una volta, camminavo per strada con un amico comune e abbiamo visto Francesca arrivare da lontano. Mentre si avvicinava, ma quando ancora non poteva sentirci, il mio amico, rapido, ha detto: “Scommettiamo un caffè che ‘Senegal’ sarà una delle prime dieci parole che le sentiremo pronunciare?”. Ha vinto il caffè. È stata la settima.

Il fatto che la cosa ci infastidisca, non sempre ma ogni tanto ci infastidisce parecchio, spiega più di noi che di loro. In effetti, perché dovrebbero parlare d’altro? Il poco tempo che passano in Italia lo trascorrono in attesa di ripartire, pianificando cosa dovranno fare. Se vedono un oggetto che gli interessa pensano a come potranno trasportarlo in Senegal senza spendere troppo, se gli parli di un cibo pensano a una cosa simile con cui si nutrono in Senegal, anche – soprattutto – quando la similitudine è campata per aria.

Lavorano per una sorta di missione e dico “una sorta” perché, dai loro racconti, mi sembra più di una missione. Diversa da come le ho sempre immaginate e da come mi sono state raccontate da chi ha fatto esperienze analoghe.

Innanzitutto, la loro missione sembra dipendere solo da loro due, non hanno alle spalle una di quelle sigle che vediamo nelle pubblicità, né una Chiesa o una religione. Sono lì per conto di un’associazione locale che si occupa di tutt’altro.

Non capisco bene neanche perché abbiano una missione e quanto ci investano. Poi la loro missione non sembra avere uno scopo limitato, scavare un pozzo, vaccinare contro una malattia, organizzare un ospedale: uno di quegli obiettivi in qualche maniera precisi che possono però aiutarti a pensare che la vita, o almeno una fase di essa, abbia uno scopo.

La loro missione somiglia più a un’iniziativa personale, vanno lì a spiegare che se ci si lava le mani prima dei pasti si evitano le malattie, ma non hanno la forza, probabilmente neanche la volontà, di imporlo. Come in “Riusciranno i nostri eroi a riportare l’amico scomparso in Africa”, non si capisce bene cosa facciano lì.

Si capisce di più perché non stiano qui. Quindi se qualcuno del loro villaggio arrangia uno strano rituale per esorcizzare una malattia partecipano. Probabilmente quando parlano con qualcuno più aperto di me dicono frasi tipo: “noi abbiamo tanto da insegnare, ma anche tanto da imparare”. Me l’immagino dire cose di questo tipo.

Sono ossessionati dalla coerenza. Che qualcuno gli possa imputare di essere incoerenti. Si sottopongono, perciò, a una dieta anche quando sono qui e sono molto magri così che nessuno possa imputargli di rubare il cibo ai senegalesi.

Ci tengono a raccontarti che quando viaggiano per piacere fanno in modo di essere il più solidali possibile con i locali, evitano gli alberghi internazionali e i luoghi in cui (a sensazione) ciò che viene incassato non viene diviso equamente. Dicono di mangiare poca carne e solo se hanno allevato e ucciso loro l’animale. Se gli prendi un regalo per una festa ti chiedono di fare una donazione al loro progetto.

Non so se qualcuno gli abbia mai fatto il terzo grado sulla coerenza, forse credono che nessuno ci provi perché sono così coerenti che non potrebbero perdere la faccia, forse semplicemente credono che davvero a qualcuno interessi qualcosa della loro coerenza. L’ipotesi più probabile è che siano loro gli aguzzini di sé stessi. Si sfidano a dare di più. Mi piace immaginarmeli mentre si caricano a essere più immacolati.

Nel villaggio in cui vivono in Senegal non hanno energia elettrica. Un paio di volte ho osato chiedere perché non mettono i pannelli solari, lì il sole non mancherà e cosa c’è di più coerente con lo spirito della missione dell’energia pulita? Ma Francesca mi ha investito con una barriera di chiacchiere: una lunghissima spiegazione in cui mi sono perso, quindi non saprei dire perché non lo facciano.

Intanto usano un generatore a diesel. È in tutto e per tutto un motore a diesel che invece di far camminare una macchina produce energia elettrica. Non per loro – sia chiaro – ma per tutta la missione. Solo che sono tutti abituati a vivere senza e quel generatore lo usano pochissimo. Inoltre, è così rumoroso che lo spengono al tramonto.

Loro avrebbero l’unica lavatrice del villaggio ma non la usano, avrebbero anche un computer ma cercano di limitarne l’uso solo alle ragioni di lavoro. Accendono il telefono un’ora al giorno, cuociono col fuoco, la sera leggono con le candele (almeno dicono così). 

Però, una volta al giorno, anche dopo il tramonto, Alessio accende il generatore. Tre minuti, non di più. Non può farne a meno. Resiste ai film, a usare internet, a chattare, perfino a calcio e fantacalcio, ma non resiste con qualcosa tra i denti. Soprattutto la carne e le verdure con molte fibre.

Una volta al giorno, prima di andare a dormire carica d’acqua il suo spazzolino con l’idropulsore e si lava i denti. Ci mette dentro acqua non propriamente potabile (è lui che mi ha fatto scoprire che esiste una sorta di via di mezzo anche tra l’acqua potabile e quella non potabile – è sempre bello scoprire che esistono sfumature, perfino di questo tipo), è coerente perfino sul risparmio dell’acqua. Purché, per due minuti, possa usare l’idropulsore.

Francesca gli rompe le scatole anche su quello. Lui si ripromette, ogni tanto, che una volta in Italia andrà dal dentista e si farà chiudere meglio – il dentista troverà un modo – quegli spazi tra i denti in cui si ferma il cibo. Ma poi non lo fa. La sensazione di sciacquarsi i denti con l’idrogetto gli piace di più: vedere i pezzetti che scivolano e sentirsi pulita la bocca non ha prezzo.

A lui non piace solo la sensazione dei denti puliti. Ciò di cui non riesce a fare a meno è il liberarsi di un fastidio. Avere qualcosa tra i denti e poi non averlo più. Stuzzicarsi con la lingua senza risultato e poi essere libero.

È come se sapesse, anche nel piccolissimo, che il vero piacere non è l’assenza di dolore come dicevano certi filosofi greci. Il vero piacere è la scomparsa di un dolore: un analgesico che ti fa scomparire il mal di testa, un antinfiammatorio che cura un dolore, un idropulsore che ti toglie un fastidio.

Forse c’è un meccanismo che si ripete identico, che siano le macchinette del videopoker, le scommesse sportive, i Gratta e Vinci, il lotto istantaneo, le sigarette o quelle che comunemente chiamiamo “droghe”.

Un meccanismo di cui la sofferenza del corpo è solo uno dei potenziali aspetti, che ha bisogno di essere curato naturalmente, ma che non esaurisce ciò che è “una dipendenza”. Un meccanismo che ha più a che fare con la delusione e di cui “deludere se stessi” è la forza motrice: come se esistesse una sorta di senso di colpa rispetto al denaro o al tempo o all’impegno profuso in una certa dipendenza e questa delusione costituisse in qualche modo l’essenza della dipendenza.

Forse anche Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore non ha solo il controllo del corpo e perciò della dipendenza, ma ha il controllo della delusione: fino a un certo punto non sta deludendo se stesso, né nessun’altro. Mentre chi pensa di aver grattato di nuovo, o scommesso di nuovo, o fumato di nuovo o acceso di nuovo il generatore per la cosa più superflua del mondo e cioè un idropulsore, è simile nel non aver resistito a una tentazione, innanzitutto davanti a se stessi.

“Resiste ai film, a usare internet, a chattare, perfino a calcio e fantacalcio, ma non resiste con qualcosa tra i denti”.

Ma questa delusione è anche strettamente correlata al lasciarsi andare successivo. Perché, quando si è soli e delusi, il desiderio di tornare alla propria dipendenza si alimenta, in un circolo vizioso che può rompersi sempre più difficilmente. Ho ceduto di nuovo, non merito, ora lo rifaccio. 

Luigi mi racconta che un giorno, mentre era in coda dal dottore per tutt’altro tipo di indagine, si è trovato a sfogliare una rivista. È un articolo su Trump che cattura la sua attenzione, una storia di cui si parla molto in quei giorni, ma lui ha perso il filo e spera di ricucirlo. Mancano ancora un paio di persone al suo turno e ha poca batteria sul telefonino, “altrimenti col cavolo che continuavo a leggere”. Poi la sua curiosità viene attratta da un particolare che l’autore del pezzo butta lì per rendere un personaggio laterale della vicenda un po’ caricaturale, dice che è dipendente dai lassativi. 

Spazzolini, lassativi, Gratta e Vinci: tre storie di dipendenze insospettabili -

“So che ti sembrerà scemo, ma in quel momento ho scoperto contemporaneamente due cose: la prima è che esiste la dipendenza da lassativi e la seconda è che non ero semplicemente stitico, ma ero dipendente dai lassativi pure io. Però, visto che ero già in coda dal medico, mi sono detto che potevo approfittarne e potevo dirglielo pure, così almeno mi risparmiavo un’altra mattinata di coda. Allora ho sacrificato quel po’ di batteria che stavo conservando e ho cominciato a cercare.

Ma tutte le domande: da cosa era dipendente quel tizio? Perché i lassativi sono tanti e diversi? Quali medicine? Quanto forti? Quanto spesso? Niente. Nessuno risponde a domande del genere. Persino i siti di stronzate più disperati, persino i siti di politica più approfonditi, nessuno si concentrava sui lassativi.

Faceva ridere così, dipendenza dai lassativi. Potevi immaginartelo accovacciato sul gabinetto mentre chattava con dei tizi del KGB su come truccare le elezioni americane”. (Io ho messo in dubbio questa storia di Luigi perché non sono mai riuscito a capire di quale conoscente di Trump si tratti. Mi domando se lui ricordi male). Che da qualche anno a questa parte il problema dell’evacuazione sia diventato un argomento sentito mi pare abbastanza evidente, lo raccontano le pubblicità e le ricerche online, non a caso autodefinite da Google lo zeitgeist dei nostri tempi.

Appena un passo dietro il reflusso gastroesofageo si situa il colon irritato con i suoi yogurt al bifidus, le sue acque della salute, i suoi prodotti “ricchi di fibre”, le pubblicità sui giornali con la foto di un attore con un braccio sullo stomaco e l’espressione dolorante. E quando i prodotti che si nascondono dietro la patina dell’ “essere naturali” non sono sufficienti a curare la stitichezza, entrano in gioco i lassativi veri, da farmacia. 

Ovviamente il grimaldello del naturale lungo la china dell’abuso di lassativi è identico, ma una volta che cominci a scenderla, la china, ti accorgi che è solo una scusa.

Par di capire, innanzitutto, che in linea di massima l’abuso di lassativi abbia due origini diverse:

1. Quelli che prendono i lassativi per dimagrire

2. Quelli che prendono i lassativi per andare in bagno. (Poi, prevedibilmente, ci sono anche tanti casi in cui le due tendenze si compenetrano). 

Luigi racconta che la prima volta in cui ha avvertito di avere qualche problema con l’andare in bagno è stata quando ha deciso di fare l’idrocolonterapia. L’ha scoperta perché a un certo punto era diventata un fanatico di Groupon e controllava quotidianamente le diverse offerte, i deal si chiamavano allora, non so adesso. Non comprava nulla o quasi, ma lo appassionava lo stesso scorrerli. E quest’offerta di idrocolonterapia a prezzi stracciati gli appariva di continuo.

Così si è consultato con un’amica che conosceva anche in qualità di esperta di ayurveda e lei gli ha detto che l’idrocolonterapia è l’unico trattamento della medicina occidentale che apprezza davvero. Che una volta hanno fatto l’idrocolonterapia a Buzz Aldrin e gli hanno trovato nell’intestino dei resti di latte materno. Che tuttora non ho capito se fosse colpa del latte della mamma di Buzz Aldrin, dei viaggi spaziali o dello stomaco degli astronauti. Fatto sta che serve tantissimo. Ti senti rinato dopo averla fatta. Ma tu parli per esperienza personale? No, per sentito dire. Chiaro. Vabbè. (Chissà perché proprio Buzz Aldrin). 

Poi mi racconta di un altro amico con cui ha parlato. Ricorda con precisione la volta in cui lo vide molto dimagrito e lui, quasi in confessione, gli disse che era tutto merito di uno sciroppo preziosissimo che la moglie aveva fatto arrivare appositamente dall’estero. Uno sciroppo che serviva a purificare il corpo. (Io avrei detto a “purgare”, dopotutto l’etimologia è la stessa, ma il significato completamente diverso).

Fatto sta che in Italia quello sciroppo era addirittura vietato. E che loro avevano dovuto infrangere le leggi per farselo spedire. Era stato pericoloso e illegale. Lui disse che era stato emozionante come farsi mandare dei funghi allucinogeni o del Cialis.

Ovviamente anche secondo lui l’idrocolonterapia era un toccasana, anzi a quel prezzo Luigi avrebbe dovuto fargli una recensione, e se fosse andata bene a lui ci sarebbero andati assieme per un nuovo ciclo. Che detto così può sembrare una cosa amichevole, da bro, ma che poi nella pratica significa andare assieme a qualcuno in un posto dove poi ti ficcheranno un tubo in corpo dal quale far passare qualche litro d’acqua. Forse lo fai perché quando condividi con qualcuno la stessa esperienza spiacevole sai anche che quella persona è l’unica che non avrà mai voglia di continuare a parlarne. 

Ma Luigi ha un ricordo pessimo dell’esperienza. Soprattutto per colpa del centro in cui è stato, perché non gli ha “trasmesso igiene”.

È impressionante che oggigiorno capiti di entrare in una fondazione artistica o letteraria e trovarle del tutto asettiche – vai in un’aula di tribunale e dall’odore di ammoniaca che sprigiona ti pare che non solo non possa esserci un insetto, ma neanche un virus – tutto pare ispirarsi a una grande asetticità, come se essere asettici, puliti e coi neon fosse l’unico modo per comunicare sicurezza e ordine, mentre poi trovi che gli unici posti non asettici sono le sale d’attesa degli ospedali e certe cliniche come quella. Forse si rischia di prendere un’infezione più in sala d’attesa in un reparto d’otorinolaringoiatria che dentro la Fondazione Prada. 

“All’inizio bastavano le supposte pediatriche, che era una cosa che preferivo anche per l’incontro in farmacia. Avevo meno vergogna a dire al farmacista “ha delle supposte di glicerina pediatriche?”. Poi indossavo una faccia simpaticamente preoccupata che nella mia stupidità stava a significare “eh, povero bambino, dovrà sopportare questo supplizio, ma da solo non riesce” e poi anche un sorriso di circostanza che voleva dire “non come noi che invece non ne abbiamo bisogno perché espletiamo le nostre funzioni benissimo”. 

Nell’autobiografia di Vittorio Alfieri – che lui aveva ribattezzato perfettamente Vita anche se oggi neanche una starlette o un cantante scarso potrebbe chiamare così la suo autobiografia – c’era un punto molto curioso, l’unico che io ricordi, a dire la verità.

Racconta di un’influenza fortissima che ebbe a un certo punto della sua vita. Febbre, nausea, congestione, brividi. Alcuni giorni tra la vita e la morte. Poi riuscì ad andare in bagno, dopo giorni di stitichezza, e da lì si sbloccò (anche artisticamente). Non solo gli passarono la febbre, la nausea e gli acciacchi, ma cominciò a scrivere. Si liberò dalle paure e dalle inibizioni: un episodio freudiano persino banale. 

“I lassativi davvero impegnativi sono solamente l’arma finale, nessuno può permettersi di devastarsi lo stomaco con dosi continue e ripetute. Già al terzo giorno di Dulcolax, per esempio, lo stomaco comincia a dirti qualcosa. Ti svegli di notte coi crampi, e non crampi semplici, crampi prolungati, di minuti. A volte i crampi fanno anche piacere perché significano che c’è movimento e tra un po’ avrai lo stimolo, ma quei crampi sono diversi.

Ti accorgi che stai digerendo te stesso, non il cibo. Che non c’è niente da trasformare. Ti auto-digerisci. Allora pensi di smettere, te ne convinci, basta che passi il dolore e si possa dormire. Solo che i lassativi si prendono, di preferenza, la sera e quando arriva sera la sensazione dei crampi è molto lontana. Sono passate sedici ore, una giornata intera. Un’altra senza andare in bagno. Così ti dici che in fondo un’altra pilloletta puoi prenderla. Che sarà mai. Giusto per andare in bagno e, se ci riesci, il giorno dopo smetti. E si riprende”. 

“Forse si rischia di prendere un’infezione più in sala d’attesa in un reparto d’otorinolaringoiatria che dentro la Fondazione Prada”. 

Luigi ha elaborato tutta una sua teoria della stitichezza lungo le fasi della vita. Sei stitico da lattante, quando neanche sai di esserlo, poi sei stitico da bambino quando tua mamma ti domanda quando sei andato in bagno l’ultima volta e tu non ne hai idea.

Poi smetti di essere stitico per anni, anche se lo sei, perché non ti metti a contare quante volte vai in bagno. Non è un tuo problema. Ci sono dei tuoi compagni di classe schizzinosi che non la fanno a scuola e a te dà fastidio semplicemente per il fatto che siano snob. Non sai che un giorno, da adulto, perdere il momento significherà rischiare di non farla più per giorni.

Da adulto imparerai a cogliere l’attimo anche dal lavoro, col tuo capo in attesa oltre la porta, e ripeterai, felice e divertito, frasi stupide come “non c’è cosa più gradita di una cacata retribuita”. 

Sostiene che tra dipendenti da lassativi si parli pochissimo. Che si vergognano. Che non hanno mai quei bei momenti di condivisione che capitano, anche nei film, a chi ha problemi con alcol e droga. Loro non parlano, “non abbiamo il coraggio” mi dice.

Perfino quando si riconoscono, secondo lui, si limitano alle battutine. Magari si consigliano un nuovo prodotto di erboristeria, un libro – a un certo punto ha avuto un certo successo un bestseller sull’intestino felice – una verdura cucinata in un certo modo.

Ma di vita vera troppo poco. Di sensazioni, paure, benessere, piacere. Perché pensare di continuo all’eventualità di dover andare in bagno può assorbire molte attenzioni. Ti fa ascoltare solo una parte del corpo. Sarebbe anche una valvola di sfogo per l’ansia, perché così la sprechi per una cosa che tutti considerano volgare e inutile. Se non fosse che, tuttavia, l’ansia non fa bene al bagno. 

“Ho visto dei dottori, ma non mi hanno mai trovato niente. Ricordo ancora che un’analisi prevedeva di portare tre campioni delle proprie feci in laboratorio, ma una condizione fondamentale era che fossero raccolte nella stessa settimana. Ma se ci riuscissi tre volte in una settimana non sarei qui! Era l’urlo di dolore che avrei voluto urlare a qualcuno. Non hanno voluto sentire ragioni però. Pare che dopo sette giorni le feci diventino spazzatura…”. 

La varietà di lassativi a disposizione è “davvero sterminata”, ma Luigi sostiene che il prodotto che funziona meglio con lui è un ritrovato dell’Aboca. Che lui adora l’Aboca, che è andato anche al loro museo, a Sansepolcro, vicino Arezzo.

Su uno di quei quadernoni che vengono messi all’uscita dei musei c’erano tanti complimenti per il bel museo e tanti ringraziamenti all’Aboca perché grazie al suo sciroppo di lumaca un figlio non tossiva più, perché grazie allo spray alla propoli e al miele un altro figlio aveva riscoperto il valore dello stare insieme, insomma tanti ringraziamenti e tanti figli che erano tornati a vivere, dopo essere stati segregati per anni in un lazzaretto per colpa di una tosse stizzosa e grassa che il pediatra aveva ridicolizzato, ma che la mamma voleva debellare a ogni costo.

In quel guestbook Luigi ha messo il suo ringraziamento per Aboca che con Sollievo gli ha sollevato la vita. Forse avrebbe potuto dedicargli addirittura delle righe come Vittorio Alfieri. 

“Oltretutto la stitichezza è un campo in cui la ricerca corre e, davvero, ogni mese sbucano nuovi prodotti per curarla o alleviarla. – È davvero il tipico first world problem –. Provare e confrontare i prodotti diversi è piacevole. Anche perché il corpo si abitua al miglior prodotto, perfino a quello che hai scoperto essere il più adatto a te. Non so perché succeda. Mi sembra molto stupido da parte del corpo abituarsi a ciò che ti fa bene costringendoti a cambiare sostanza”. E, a me, sembra anche la perfetta sintesi di questa ricognizione tra le dipendenze. 

Arnaldo Greco

Arnaldo Greco è giornalista e autore televisivo. Per Einaudi ha curato l’antologia “Aragoste, champagne, picnic  e altre cose sopravvalutate”.

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