Mario Del Pero
Dopo decenni di cooperazione, i rapporti tra Europa e Stati Uniti sono tesi come mai prima d’ora. E anche al di là dell’impulsività di Trump, le divergenze su temi cruciali come la difesa, la guerra in Ucraina, la Cina e il commercio rischiano di compromettere per sempre il futuro dell’alleanza.
Il sistema internazionale è stato caratterizzato negli ultimi decenni da accelerati e intensi processi di integrazione. Una globalizzazione, questa, contraddistinta dalla crescita del commercio, degli investimenti, della circolazione di capitali così come da flussi migratori, trasformazioni tecnologiche e scambi culturali. Entro questa integrazione globale ve ne è stata una, quella regionale nord-transatlantica, ancor più accentuata. La relazione e interdipendenza tra Europa e Stati Uniti hanno radici profonde, che hanno facilitato la sua accelerazione contemporanea. Fondata su una pluralità di fattori economici, politici e culturali, questa relazione si è ulteriormente consolidata dopo la Seconda Guerra Mondiale e con la Guerra Fredda. A oggi, nessun volume di scambi commerciali bilaterali è superiore a quello tra Unione Europea (UE) e Usa. Il dato degli investimenti diretti esteri (FDI, Foreign Direct Investments) è ancor più significativo: l’Europa continua a investire tantissimo negli Stati Uniti e altrettanto fanno gli Usa in Europa. Il totale di FDI che si muovono sulle rotte transatlantiche – un totale di quasi 8mila miliardi di dollari nel 2023 – è di quattro volte superiore a quello, pur molto cresciuto, che circola nello spazio transpacifico, tra Stati Uniti e Asia. Questa integrazione economica si combina con forme di partenariato strategico di nuovo senza pari, nel passato e nel presente. Stati Uniti, Canada e trenta alleati europei danno vita a un’alleanza militare – la NATO – che nel tempo ha prodotto dinamiche di intensa cooperazione e, appunto, integrazione nel campo della Difesa. Ambito nel quale è storicamente difficile convincere gli Stati a rinunciare alle prerogative della loro sovranità, come gli stessi paesi europei hanno scoperto ogniqualvolta hanno tentato di dare vita a qualche sistema di difesa comune alternativo o complementare alla NATO. Integrazione strategica ed economica sono state a loro volta accompagnate da numerose altre sfere di scambio e interazione, dalla cultura alle migrazioni (primariamente dall’Europa agli Stati Uniti, anche se in modo meno univoco di quanto talora non si creda: negli anni Venti del Novecento, ad esempio, circa 40mila americani risiedevano, in modo temporaneo o permanente, a Parigi). Questi processi migratori hanno aggiunto un ulteriore legame tra gli Usa e tanti paesi europei, nei quali spesso è rimasta l’idea di avere una qualche relazione unica e “speciale” con l’alleato e partner d’oltreoceano.
Può reggere questa integrazione allo stress a cui è oggi sottoposta dopo l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump? A dichiarazioni e atti che ne rigettano esplicitamente molte premesse – su tutte che tra la democrazia statunitense e quelle europee vi sia una naturale affinità di idee, principi e valori – e sembrano eroderne deliberatamente le fondamenta? Per rispondere è necessario soffermarsi tanto sulle contraddizioni storiche della relazione nord-transatlantica quanto sugli aspetti specifici di oggi: sui suoi elementi “strutturali”, come si sarebbe forse detto un tempo, e su quelli più propriamente contingenti.
A monte vi è una fondamentale aporia, in una certa misura costituiva degli stessi Stati Uniti e quindi della loro interazione con l’Europa. Europa di cui gli Stati Uniti sono al tempo stesso antitesi e propaggine: modello repubblicano, pacifico e commerciale definito anche, se non soprattutto, come antinomico alle monarchie europee e alle loro guerre; ovvero espressione di una costola di Europa destinata, una volta indipendente, a sviluppare relazioni strette e speciali con ideali interlocutori europei, fossero essi la Francia repubblicana post-rivoluzionaria o l’antica madrepatria britannica, con cui si commerciava e da cui si ottenevano beni, finanziamenti e a lungo protezione sui mari. L’Atlantico, le sue rappresentazioni e le tante metafore utilizzate per descriverlo ben illustrano questa aporia. È la barriera che protegge e separa gli Stati Uniti, garantendo loro il privilegio di una sicurezza “gratuita” (free security) di cui gli europei invece non dispongono. Ovvero è quel ponte che unisce America ed Europa dentro il contesto di un grande Occidente che trova piena realizzazione in questa sorta di immenso lago sul quale negli ultimi due secoli vi è stato un moto incessante di merci, persone, modelli e idee.
Fattisi soggetto superiore dell’ordine internazionale, tra la fine dell’Ottocento e la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa hanno iniziato a proiettare sull’Europa la loro potenza e influenza. Con la presenza militare, le impareggiabili risorse economiche, i prodotti culturali e un modello di consumi di massa all’apparenza irresistibile. Con una forma energica, ancorché sui generis, di presenza imperiale spesso catalogata semplicisticamente come “americanizzazione”. Capace di ammaliare o alienare, spaventare o catturare. In una sorta di gioco di specchi, dove questi Stati Uniti, al tempo stesso Europa e anti-Europa, alimentavano nel Vecchio Continente desiderio di immedesimazione e rigetto, americanizzazione e antiamericanismo.
“Fattisi soggetto superiore dell’ordine internazionale, tra la fine dell’Ottocento e la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa hanno iniziato a proiettare sull’Europa la loro potenza e influenza”.
Il salto di qualità lo si ebbe con il secondo conflitto mondiale e, soprattutto, la Guerra Fredda. Che intensificò e istituzionalizzò l’integrazione euro-statunitense, con una crescita esponenziale di scambi e investimenti. E con la nascita dell’Alleanza Atlantica e della sua organizzazione, la NATO. In un contesto dove lo squilibrio di potenza e influenza, tra gli Usa e i loro partner europei, si faceva particolarmente acuto e dove la potenza superiore, gli Stati Uniti, operavano come una sorta di federatore di questa comunità nordatlantica. La cui storia era però scandita da frequenti tensioni e scontri tra le due sponde dell’Atlantico. Gli Usa imputavano agli alleati europei l’insufficiente partecipazione alla difesa comune, il mancato contributo agli oneri del “fardello” atlantico (il burden-sharing) e la propensione ad approfittare opportunisticamente della protezione statunitense (il free-riding), trasformandosi rapidamente in rivali economici degli Usa, capaci di approfittare del loro mercato aperto e vorace. Gli europei denunciavano i mille privilegi imperiali di cui gli Usa godevano, dal potere del dollaro alla extraterritorialità del loro personale militare dispiegato in Europa (come i piloti della tragedia del Cermis del 1998, sottoposti alla giurisdizione statunitense e in ultimo prosciolti da un tribunale militare negli Usa). Nel 1954 il Segretario di Stato John Foster Dulles, furioso per la mancata ratifica francese della Comunità Europea di Difesa, prospettava un “angoscioso riesame” dei rapporti con l’Europa. Quasi mezzo secolo più tardi, quello della Difesa Donald Rumsfeld liquidava come Europa “vecchia” e superata quell’asse franco-tedesco che si opponeva all’intervento militare in Iraq. Nel mentre, in quel mezzo secolo, tante incomprensioni e liti, pubbliche e segrete, a fare la fortuna di numerosi studiosi e commentatori di quella sorta di sotto branca degli studi storici e internazionalistici che sarebbe stata la “crisologia” transatlantica. Con intere sezioni di biblioteche universitarie riempite da volumi che molto spesso preconizzavano l’inevitabile fine della comunità atlantica.
È quindi lecito chiedersi se queste ultime turbolenze nei rapporti tra Usa ed Europa non siano null’altro che la riproposizione di tante crisi passate. In fondo, ciò che Trump rinfaccia all’Europa – sia pure con un lessico molto più primitivo e volgare di tanti suoi predecessori – è quello che gli Usa le imputano da 70 anni e più: bassa spesa militare; insufficiente contributo alla difesa atlantica; competizione economica sleale.
L’impressione, però, è che questa volta vi sia davvero qualcosa di diverso, a partire ovviamente dall’inquilino della Casa Bianca. E che se anche vi sono delle analogie con il passato, ciò a cui stiamo assistendo non è semplicemente un’altra, ennesima crisi transatlantica.
Perché questa volta non si tratta solo di bilancio della difesa o di deficit commerciali. Vi è qualcosa di altro e di molto più profondo. Veicolato con una retorica sovraccarica e ostentatamente eurofobica, l’attacco di Trump agli (ex?) alleati europei poggia su due critiche fondamentali oltre a quelle classiche del burden-sharing e del free-riding.
La prima riguarda la mancata partecipazione degli alleati europei alla aggressiva politica di contenimento della Cina che gli Usa intendono promuovere. Per Trump, così come per il suo Segretario di Stato Marco Rubio, è Pechino il vero e unico rivale di potenza degli Usa oggi. Ed è questa nuova competizione bipolare che deve orientare scelte e strategie statunitensi e transatlantiche. Procedendo in primo luogo a un ulteriore disaccoppiamento dell’economia statunitense da quella cinese e riducendo il peso della Cina negli stadi iniziali e intermedi delle catene transnazionali di valore dei beni, intermedi e finiti, che giungono negli Usa. L’assunto, qui, è che la Cina abbia sfruttato i processi di integrazione globale dell’ultimo secolo non solo per crescere economicamente e aumentare la sua influenza del mondo, ma anche per maturare una sorta di potere di condizionalità derivante dal suo ruolo centrale in cicli produttivi che si dispiegano in tanti passaggi, molti dei quali in Cina (è il caso, ad esempio, della supply chain ancora molto sino-centrica di Apple).
Abbiamo qui un plastico esempio di quella che gli studiosi definiscono “interdipendenza”: la mutua dipendenza tra tutti gli attori del sistema internazionale prodotta dai processi di integrazione contemporanei. Gli USA intendono sottrarsi a questa interdipendenza per recuperare, si afferma, spazi di una sovranità perduta – visto che la dipendenza non è solo da un altro ma dall’altro (la Cina) fattosi nel tempo rivale, se non nemico. Gli indicatori più banali di interdipendenza sono ancora una volta la bilancia commerciale e gli investimenti esteri diretti. Se usiamo questi parametri, vediamo che un primo, parziale disaccoppiamento tra le due principali potenze di oggi vi è stato: tra il 2017 e oggi il deficit commerciale statunitense con la Cina è passato da 375 a 295 miliardi di dollari; Pechino ha gradualmente ridotto la quantità di titoli di stato americani in suo possesso; gli FDI sono a loro volta diminuiti. Nonostante alcune iniziative della Commissione Europea, nulla di tutto ciò è invece avvenuto tra Europa e Cina (e, soprattutto, tra Germania e Cina), che hanno visto invece di molto intensificarsi la loro interdipendenza nell’ultimo decennio. I dazi contro l’Europa, messi in atto o minacciati da Trump, hanno quindi una funzione sanzionatoria e coercitiva prima ancora che direttamente economica: servono come leva di pressione sull’Europa non solo per ridurre il deficit commerciale statunitense o facilitare la reindustrializzazione americana, ma anche per costringere i partner di Washington a partecipare più attivamente alla campagna anticinese in corso.
E servono, secondo aspetto, per indurre l’Unione Europea a modificare politiche di regolamentazione delle attività economiche che prendono di mira anche grandi aziende del big tech statunitense, come i recenti casi di Microsoft e Google evidenziano chiaramente. Non comprenderemmo la mobilitazione pro-Trump di pezzi significativi della Silicon Valley dell’ultimo anno senza considerare questo aspetto. L’avversione a iniziative regolatorie, a Washington come a Bruxelles, è stata decisiva in questa svolta e nell’improvviso attivismo politico dei vari Bezos e Zuckerberg, preoccupati sia dall’azione europea sia da quella dell’amministrazione Biden e dall’agenzia federale competente (la Federal Trade Commission) guidata tra il 2021 e il 2025 da Lina Khan. L’UE rappresenta da questo punto di vista un soggetto importante e, appunto, minaccioso. Per la sua capacità di produrre norme che non di rado divengono modelli e precedenti per altri soggetti. E per l’ovvio peso del suo mercato unico.
Nella narrazione trumpiana, mai parca di riferimenti anti-europei, questa Europa è un soggetto politicamente e culturalmente altro. È un attore di cui va preservata laddove possibile la subalternità agli Usa e la dipendenza strategica, a partire da quell’Ucraina che gli Usa di fatto oggi abbandonano, delegando agli europei il compito di fornire una qualche garanzia di sicurezza a Kiev. Ed è un rivale che minaccia il business americano e non si schiera a fianco degli Usa nella loro campagna anticinese. Ma anche un soggetto la cui prosperità e sicurezza non sono più considerate funzionali a quelle degli Stati Uniti.
“Nella narrazione trumpiana, mai parca di riferimenti anti-europei, questa Europa è un soggetto politicamente e culturalmente altro.”.
Questa miscela di alterità, subalternità e competizione sembra in altre parole definire l’atteggiamento statunitense nei confronti dell’Europa. E, combinandosi con quella che appare a tutti gli effetti come una torsione autoritaria della democrazia statunitense, contribuisce a rendere questa nuova crisi transatlantica diversa, più profonda e pericolosa delle tante che l’hanno preceduta.
Mario Del Pero
Mario Del Pero è professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'”Institut d’études politiques SciencesPo” di Parigi. Il suo ultimo libro è Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2016 (Laterza, 2017).
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