Trattori, negazionisti, populisti: il fronte anti-ambientalista di cui dovremmo preoccuparci - Lucy
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Ferdinando Cotugno

Trattori, negazionisti, populisti: il fronte anti-ambientalista di cui dovremmo preoccuparci

09 Febbraio 2024

Le proteste degli agricoltori sono l'anticipazione dell'onda anti-ecologista che travolgerà l'Europa al voto. Un sentimento già cavalcato dall'estrema destra e che fa leva sulle ansie e le paure della gente. La narrazione portata avanti è tanto chiara quanto paradossale: gli ambientalisti sarebbero una élite, la transizione verde un errore. Ora tocca ai movimenti per il clima – e a noi – non cadere nella trappola.

C’è una linea che collega la protesta dei trattori – i blocchi stradali e le manifestazioni di questi giorni in mezza Europa – e due quartieri dell’estremo ovest di Londra, Uxbridge e South Ruislip. Gli agricoltori europei e le periferie inglesi hanno interpretato i loro problemi reali con la stessa lettura immaginaria: la colpa, dicono, è dell’ecologia.

A ben guardare si potrebbe dire che c’è un’onda che attraversa molti Paesi, che collega Javier Milei in Argentina, Geert Wilders in Olanda, i Fleximen che distruggono gli autovelox, le elezioni europee in arrivo, le nuove narrative del populismo. È la crisi di rigetto dell’ambientalismo, un’ondata di reazione speculare ai movimenti che cinque anni fa misero il clima in cima all’agenda globale con i primi scioperi di Fridays for Future, una reazione che spesso viene dalle categorie più colpite dalla crisi come, appunto, gli agricoltori. E i due quartieri londinesi sono stati un primo laboratorio dove l’abbiamo vista accadere con chiarezza, prima ancora che i trattori scendessero in strada in Europa.

L’anno scorso il sindaco di Londra, Sadiq Khan, aveva deciso un’estensione delle aree coperte dalla ULEZ, la «ultra low emission zone», cioè la zona a traffico limitato con limiti ambiziosi per il contenimento delle emissioni e il pagamento di una tariffa di 12,5 sterline al giorno per i veicoli inferiori a euro 3 (le moto), euro 4 (le auto a benzina), euro 6 (le auto diesel). Khan è un laburista sensibile all’inquinamento, anche per ragioni di salute: è un runner che ha scoperto di soffrire di una forma di asma causata dallo smog, e ha trasformato la sua malattia respiratoria nel mito delle origini della sua sensibilità ambientalista.

L’estensione della ULEZ è stata accolta nel Regno Unito come la città 30 in Italia: un capitale politico su cui lucrare. Gli abitanti delle periferie coinvolte si sono arrabbiati e si sono sentiti cacciati fuori dalla città, nonostante il 90% delle auto rientrassero già nei limiti delle emissioni. Non era una questione economica, era una questione simbolica: gli ambientalisti ricchi del centro città vogliono farci cambiare macchina! I Tories un tempo erano il partito conservatore più ecologista d’Europa, l’ULEZ era una creatura di Boris Johnson come sindaco di Londra. Da primo ministro, Johnson aveva dato al Regno Unito obiettivi di riduzione delle emissioni più aggressivi di quelli tanto contestati dell’Unione Europea. 

Era tre anni fa, sembrano trenta: Rishi Sunak ha smantellato quelle policy, ha scatenato le trivelle nel mare del Nord, ha posticipato il phase-out dell’auto a benzina (facendo infuriare le case produttrici, che avevano programmato per una data e devono lavorare per un’altra) e ha cavalcato la protesta anti ULEZ. L’idea di fondo era dare un nuovo nemico a elettori stanchi, impoveriti e nervosi: l’ambientalista.

“Il manifesto del Comitato nazionale riscatto agricolo sembra il riassunto di un lustro di editoriali di «Libero»: sono citate ‘le follie green’, ‘le ideologie ambientaliste’, e noi siamo gli agricoltori veri, voi ingrati ci additate come inquinatori”.

C’era un’occasione per verificare la bontà di quell’intuizione, ed erano proprio le elezioni suppletive a Uxbridge e South Ruislip, due quartieri appena entrati nella zona a traffico limitato, dove i conservatori partivano con una voragine di venti punti di svantaggio da recuperare. Si votava, per i paradossi della storia, per sostituire proprio Boris Johnson, i Tories erano estremamente impopolari da quelle parti, era appena uscito lo scandalo delle feste durante il COVID, per i Laburisti sembrava esserci un’autostrada. Ma i Tories avevano una buona nuova storia da raccontare, ed era quella anti-ambientalista. Hanno trasformato l’elezione in uno scontro di civiltà sull’automobile. In pochi mesi hanno rimontato lo svantaggio e vinto quell’elezione. Erano solo due quartieri di Londra per un solo seggio in Parlamento, ma è stato un segnale: questa roba funziona. E bene. 

Flashforward agli agricoltori che stanno bloccando le strade delle città europee. Hanno problemi con l’ecologia? Certo. Hanno enormi problemi con l’ecologia, di crisi climatica, siccità, perdita di qualità del suolo, e inoltre hanno problemi di reddito, che in Italia per loro è calato tre volte più della media europea. Vendono a prezzi troppo bassi spesso sotto il costo di produzione – prodotti che noi compriamo a prezzi troppo alti: se ci fosse qualcuno a guidarli politicamente, con i numeri e senza il forcone, gli si potrebbe suggerire che il loro problema è il capitalismo, non Greta Thunberg. 

E invece la lettura che hanno scelto di seguire è: il nostro problema è la transizione ecologica. In Italia, il manifesto del Comitato nazionale riscatto agricolo sembra il riassunto di un lustro di editoriali di «Libero» o dei discorsi di Giorgia Meloni (compreso quello a COP28): sono citate “le follie green”, “le ideologie ambientaliste”, e noi siamo gli agricoltori veri, voi ingrati ci additate come inquinatori. Magari per strada hanno i cartelli contro il ministro Lollobrigida, però usano le sue stesse logiche: ci siamo noi che coltiviamo la terra e sentiamo l’odore del letame sulle mani mentre i bevitori di champagne scrivono il Green Deal, che è la loro principale chance di avere un futuro da tramandare. Gli agricoltori sono la categoria produttiva più colpita dai cambiamenti climatici, la siccità del 2022 gli è costata il 10 per cento della produzione, ma hanno deciso che il loro problema è la lotta ai cambiamenti climatici molto più dei cambiamenti climatici. Perché? Perché, in mancanza di alternative, hanno visto un’onda politica – la stessa onda di Uxbridge e South Ruislip, l’antiambientalismo – e hanno deciso di salirci sopra. Dal 2019, per un paio d’anni tutto quello che toccavano i movimenti per il clima diventava consenso, nel 2024 per creare consenso basta andare contro le loro idee del 2019. 

Oggi è tutto un grande gilet giallo (o verde) collettivo, ogni politica ambientale ne può fare le spese, lo abbiamo visto anche con l’abbattimento dell’orso confidente M90 in Trentino. Dare al servizio fauna il mandato di sparare a una risorsa naturale così preziosa dovrebbe essere l’ultima opzione: oggi è diventata la prima, ed è diventata la prima perché in Trentino e oggi c’è sete di sangue più che voglia di convivenza, e l’abbattimento ha avuto le caratteristiche di un linciaggio. E i linciaggi montano nel consenso. 

Il presidente leghista della provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti ha fatto campagna elettorale in autunno parlando spesso di orsi, usando la stessa retorica dei trattori o di Uxbridge: quelli bevono champagne, noi siamo terrorizzati nelle malghe a fare formaggi, abbiamo il diritto di ribellarci e sparare anche a metà degli orsi se vogliamo. Ha vinto le elezioni anche grazie a questo sovranismo anti-ecologico e alla prima opportunità ha armato il grilletto, contro un animale che non era in letargo perché in queste settimane faceva troppo caldo, ed era anche stato già investito da un’auto. Dettagli che in un’altra epoca ci avrebbero colpito, emozionato, che avrebbero fatto guadagnare tempo e margine alle ragioni biologiche dell’orso. Oggi sono solo rumore di fondo.

“C’è il rischio che il cambiamento climatico diventi quello che le migrazioni erano venti anni fa, un’area dove il populismo può fare leva sull’ansia pubblica e rappresentare gli oppositori politici come fuori contatto con le persone”.

Le parole più efficaci non le ha dette una sociologa, ma una climatologa, Friederike Otto, la massima esperta di attribuzione, la scienza che collega i singoli eventi estremi al contesto della crisi climatica. Al «Financial Times», Otto ha detto: “C’è il rischio che il cambiamento climatico diventi quello che le migrazioni erano venti anni fa, un’area dove il populismo può fare leva sull’ansia pubblica e rappresentare gli oppositori politici come fuori contatto con le persone”.

I discorsi che hanno permesso a due negazionisti dichiarati come Javier Milei di vincere le elezioni in Argentina e a un paria politico come Geert Wilders di portare il suo partito al primo posto in Olanda toccano esattamente queste corde qui. Danno una risposta immediata ed efficace alla poli-ansia, la traduzione umana della poli-crisi: non ci sono soldi, non c’è futuro, succedono troppe cose e nessuno capisce più granché. Wilders ha fatto dell’opposizione alla ”riduzione isterica della CO2” il manifesto del suo populismo: il ”dover essere” dell’ambientalismo e della scienza contro le emozioni delle ”persone reali”, reali come sono reali gli agricoltori nella loro auto narrazione. 

Friederike Otto è tedesca e lo ha visto succedere davanti ai suoi occhi. C’è stato un momento in cui l’estrema destra dell’AfD ha capito che un nemico politicamente utile quanto il migrante siriano accolto da Angela Merkel nel 2015 potevano essere le pompe di calore per elettrificare il riscaldamento degli edifici. In apparenza la sostituzione della caldaia è un tema tecnico, freddo, noioso, da riunione di condominio: ma con la poli-ansia tutto si accende. Tutto parte la primavera scorsa, quando la coalizione di socialdemocratici, verdi e liberali al governo propone una legge per mettere al bando entro cinque anni le caldaie a gas. Le pompe di calore riscaldano le case con la corrente elettrica, permettono di ridurre le emissioni e di affrancarsi dal gas e dai suoi costi dipendenti da qualsiasi crisi geopolitica globale. L’infrastruttura però è più cara, non cara quanto diceva l’estrema destra, ma comunque più cara, anche se in buona parte coperta da sussidi pubblici. Con la narrazione tossica sulle pompe di calore sono arrivati al secondo posto dei sondaggi, ottenendo risultati impensabili alle elezioni dello scorso anno in Baviera e in Assia.

Manfred Güllner, uno dei più importanti sondaggisti tedeschi, ha detto che la propaganda sulle pompe di calore è stato il singolo ingrediente di maggior impatto su questa crescita. Insomma, a un partito di estrema destra in Germania è bastato capitalizzare sulla paura delle persone di dover cambiare la caldaia per ottenere una crescita spettacolare. L’odio per la transizione ha portato AfD dove nemmeno la xenofobia al picco della crisi migratoria fa era riuscita.

Ci si potrebbero fare molte domande, una buona sintesi l’ho trovata nel titolo di un evento del sito di informazione britannica Tortoise, fondato dall’ex direttore news della BBC James Harding: ”E se ci fossimo già annoiati della crisi climatica?”. All’inizio di questo ciclo politico ci eravamo convinti che il clima avrebbe rifondato il progressismo, invece cinque anni dopo ci rendiamo conto che ha soprattutto dato nuova linfa e argomenti al populismo di destra. La transizione è una storia più difficile da raccontare e vendere politicamente, perché non prevede un’opzione chiara di vittoria, soprattutto non nel breve termine, quello dove inevitabilmente vivono e votano le persone. L’anti-ambientalismo invece è una narrazione comoda, già pronta, un kit che funziona in paesi diversissimi tra loro come Olanda e Argentina, ai più spregiudicati bastano poche frasi per dipingere un mondo di buoni e cattivi, persone vere contro élite e burocrati, la consumata retorica populista applicata alla crisi climatica.

Un rapporto di European Council on Foreign Relations dell’autunno scorso aveva tracciato il quadro: il 2024 sarebbe stato l’anno dell’opposizione al Green Deal. Secondo ECFR, i destinatari di quel messaggio erano lavoratori dei settori industriali, agricolo, forestale, della pesca, i più in poli-ansia di tutti. Ed eccoci ai trattori, che oggi sono sia i destinatari di questa propaganda politica che il suo strumento, hanno assorbito la narrazione, la rilanciano, le conferiscono spessore e credibilità, in un ciclo che si auto alimenta. 

“Insomma, a un partito di estrema destra in Germania è bastato capitalizzare sulla paura delle persone di dover cambiare la caldaia per ottenere una crescita spettacolare”.

Il fatto è che ci eravamo illusi che il negazionismo climatico fosse stato sconfitto, invece aveva solo cambiato forma. Le quattro varianti base del negazionismo sono state sintetizzate bene dalle ricerche di Iris Beau Segers e Manès Weisskircher per il Centro di ricerca sull’estremismo dell’Università di Oslo. Lo scetticismo sul trend, di chi nega l’emergenza climatica tout court. Lo scetticismo dell’attribuzione, di chi nega che sia causata dagli esseri umani. Lo scetticismo dell’impatto, di chi nega che il fenomeno sia così grave. E infine lo scetticismo sul processo, di chi si oppone a come gestiamo la transizione, politicamente, scientificamente e tecnologicamente. 

Oggi il negazionismo che nutre AfD, la narrazione che produce i manifesti degli agricoltori o alimenta la rabbia degli automobilisti, è tutto nella quarta categoria: scetticismo sul processo. Non negano più il cambiamento climatico, però si oppongono alla transizione, le sue basi, i suoi principi, i suoi strumenti. Erano le stesse conclusioni di un rapporto del Center for Countering Digital Hate: oggi due terzi dei video negazionisti su YouTube vanno in quella direzione: screditare, screditare tutto, screditare sempre. 

Il cambiamento climatico è troppo evidente per negarlo, quindi il populismo oggi staziona più a valle nella conversazione: si occupa di cosa stiamo facendo per contrastarlo, chi deve farlo, si chiede se il Green Deal serva davvero, crea retoriche come l’ambientalismo pragmatico contro l’ambientalismo ideologico, è la fabbrica di tutte le quick reaction come: “e allora la Cina?”. Gli agricoltori sono il caso di studio perfetto: nessun contadino europeo nel 2024 può essere davvero negazionista, perché il collasso è troppo evidente, però il discorso anti transizione è ancora seducente, forse più seducente che mai, perché spinge il contadino poli-ansioso a non guardare al futuro, a occuparsi strettamente del presente, e da qui nascono le posizioni a favore dei pesticidi, contro il riposo dei suoli, le barricate per i sussidi al gasolio agricolo. 

Gli europei sono ancora spaventati dal clima: secondo i dati Eurobarometro del 2023, il 77 per cento crede che sia un problema serio, l’86 per cento ritiene che i governi dovrebbero fare di più. 

Però non c’è una contraddizione: l’anti-ambientalismo oggi vive nello spazio tra ”Vedi il cambiamento climatico?” e ”Cosa sei disposto a fare contro il cambiamento climatico?”. Ora va alla grande chi sta proponendo il lodo: assolutamente niente, tanto è comunque tutto inutile, irrilevante, inefficiente o le tre cose insieme. Vince chi propone alla categoria ansiosa l’idea che fermare tutto sia una buona idea. Nel 2018 i gilet gialli in Francia, cioè la prima grande protesta contemporanea contro una norma per il clima, una tassa sul carburante giusta da un punto di vista ecologico ma reazionaria da quello economico, perché colpiva le classi sociali più povere e marginali, furono un moto spontaneo e ingovernabile, oggi le forze populiste in cerca di capitale politico in vista delle elezioni europee rischiano di trasformare l’intera Unione in un grande gilet giallo creato in laboratorio.

“Il fatto è che ci eravamo illusi che il negazionismo climatico fosse stato sconfitto, invece aveva solo cambiato forma”.

L’anti-ambientalismo diffuso è anche il motivo per il quale in Europa è stata normalizzata la repressione contro il dissenso, il doppio standard secondo il quale chi protesta per il clima è già un mezzo terrorista e ha in generale meno diritti e margini di manovra di chi protesta per qualsiasi altro argomento, in Regno Unito ci sono state condanne (eseguite in carcere) a tre anni per gli attivisti, le più alte nella storia del paese per manifestazioni non violente, in Germania si è scelta la persecuzione per associazione a delinquere, strada tentata anche in Italia, Greta Thunberg è stata già arrestata quattro volte. 

Come l’abbattimento dell’orso, anche la repressione dell’ambientalista può esistere solo in un contesto di consenso diffuso, che deriva non solo dallo slittamento a destra dell’Europa ma dal fastidio di sentire quelle voci in una fase di ansia, quando dall’altra parte c’è invece una narrazione così seducente che dice: è tutto a posto, non dovete fare niente, non vi è richiesto niente, tornate al lavoro. È un loop negativo: più gli ambientalisti vengono marginalizzati, più diventano conflittuali, più diventano conflittuali più fanno fatica a uscire dalle bolle, più rimangono chiusi nelle bolle, più è facile marginalizzarli. 

Non c’è una ricetta facile per uscirne, ma si dovrebbe partire liberandoci dall’illusione di partecipare a un dibattito razionale. I movimenti per il clima riuscirono a trovare nel 2019 un dosaggio perfetto di paura, entusiasmo e fiducia nella scienza, che funzionava perfettamente in quell’epoca di passaggio. Ora devono riconoscere di parlare a una società allo stesso tempo post traumatica e in attesa permanente del prossimo trauma. È solo sintonizzandosi con questa parte viscerale e terrorizzata che possono uscire dalla trappola dell’identificazione con l’élite, che è propaganda, ma anche una propaganda che in questi anni ha messo radici

La lettura radicale della società proposta in questi anni ha ancora molto da dire e da dare, a tanti gruppi sociali, agricoltori compresi, ma va aggiornata, senza rimpiangere nessuna età dell’oro dell’attivismo. Il 2019 è passato, e prima lo capiamo che lì non si tornerà, meglio sarà. La luna di miele è finita, ora c’è la realtà. 

Ferdinando Cotugno

Ferdinando Cotugno è giornalista freelance. Il suo ultimo libro si intitola Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).

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