Washington D.C. vs Trump - Lucy
articolo

Lorenza Pieri

Washington D.C. vs Trump

28 Maggio 2025

Città progressista, sede di istituzioni di eccellenza e con una vivace scena culturale, Washington D.C. deve resistere a Trump per evitare di perdere la sua unicità.

“Mio nonno ha combattuto il fascismo, mi sa che ora tocca a me” recita il cartello che la mia ex vicina di casa a Washigton pubblica sul suo profilo Instagram il 5 aprile, giorno della molto partecipata protesta anti-Trump “Hands off, che, partita proprio dalla capitale, ha coinvolto poi altre 1300 città statunitensi. 

La mia ex vicina di casa mi ha detto che collettivi di donne di DC si sono organizzati tramite un gruppo Telegram che si chiama “Sisters of the Resistance”. Migliaia di persone si sono riversate per le strade e lungo il Mall, che in questa stagione è in pieno cherry blossom (la capitale americana ha, come in Giappone, la sua fioritura di sakura, con più diecimila ciliegi), per protestare contro le politiche della seconda amministrazione Trump – talmente tante, queste politiche, che per brevità alcuni cartelli si limitavano a un generico ma efficace “THIS IS NOT OK”. Un elenco: tagli ai fondi per gli aiuti umanitari, per la ricerca scientifica, per la scuola pubblica, per l’arte; poi misure anti-immigrazione, anti-LGBTQ+, limitazioni al diritto riproduttivo delle donne, pensioni decurtate per i veterani, licenziamenti nel settore pubblico. Inarrestabile, la mannaia del secondo mandato Trump ha falcidiato una serie impressionante di istituzioni, quasi tutte con sede a Washington DC. È per questo che la capitale americana, dove ho vissuto per più di otto anni, è la città che al momento sembra stia soffrendo di più, nel concreto, le conseguenze dei primi cento giorni furibondi del trumpismo 2.0.

Se Da Washington (come vuole la formula standard usata dai corrispondenti) si racconta il Paese, non si sa poi granché di lei. La capitale degli USA (che spesso gli americani chiamano solo con il suffisso D.C. che sta per District of Columbia e lo distingue dallo Stato dove c’è Seattle) è una città che mostra al mondo la sua faccia più visibile, quella del potere. 

Nell’immaginario collettivo degli Stati Uniti, nutrito nel tempo da migliaia di film e libri che ci hanno raccontato i quartieri, la gente e le storie di New York, la complessa e stratificata storia di Los Angeles, la ricca e rozza Dallas, di Washington restano vivi solo i racconti che ruotano intorno alla Casa Bianca e a Capitol Hill, spingendosi al massimo fino al Pentagono. Eppure D.C. è molto più del potere che la abita, nascosto dietro le facciate di marmo bianco; molto più delle trame di sangue raccontate dalle serie tv sui Presidenti e i loro uomini; più delle guerre dichiarate e combattute sempre fuori, che non l’hanno mai sfiorata; più della Homeland Security. Washington D.C. è una città democratica. Dove le forme di stato sociale che esistono negli Stati Uniti (e ci sono) hanno (o meglio: hanno avuto) sede, azione, visibilità.

Senza ricorrere a troppe cifre, per dimostrarlo bastano due percentuali: il 90% di preferenze, soglia sotto la quale non sono mai scesi i candidati democratici nelle ultime cinque tornate elettorali, e il 45%, che è la quota di popolazione nera della città (rispetto al 14% degli Stati Uniti). 

Storicamente D.C. è una città dove si sono sempre sviluppati efficaci anticorpi alle tendenze antiliberali. È stata casa di artisti, musicisti e movimenti controculturali (il punk e la scena hardcore americana, spesso scritta harDCore per mettere in evidenza la sigla del Distretto, hanno la loro culla nella capitale). Poi ci sono (c’erano) le strutture pubbliche dei centri di ricerca avanzatissimi a tutti i livelli: è al NIH – National Institutes of Health, struttura pubblica oggi oggetto di smantellamenti – che per anni si sono portate avanti le ricerche più avanzate per la cura del cancro, ed è lì che è stata stata creata la blueprint per sviluppare il vaccino contro il Covid (poi sì, le case farmaceutiche lo hanno prodotto, ma senza quella ricerca pubblica non sarebbero andate da nessuna parte).

Era a D.C. la sede di USAID, agenzia pubblica per gli aiuti umanitari e la cooperazione in più di 100 paesi del mondo, così come molte altre agenzie per lo sviluppo internazionale, l’aiuto su servizi sociali sanitari, educativi, climatici, tecnologici, che hanno finora funzionato in maniera efficiente a livello planetario. È a Washington anche il National Endowments for the Arts, agenzia federale che supporta con fondi pubblici grant e borse di studio (quest’anno cancellate) per autori, poeti, artisti e traduttori, con cifre che noi in Italia ci sogniamo. 

Washington è (era) una città dove davvero si aveva la prova della possibilità di “fare del bene” a tanti e su molti  livelli. Oggi la città assiste allo smantellamento di queste istituzioni con conseguenze rapide e inaspettate, come lo svuotamento e la fuga di funzionari e dipendenti federali. La città perde rapidamente molti lavoratori e di conseguenza molti cittadini, con intere famiglie che negli ultimi mesi si sono trasferite altrove.

Ovviamente tra Trump e la città, negli anni del suo primo mandato, c’è stato un odio reciproco più o meno palese. Durante la campagna elettorale del 2016, aveva definito la Capitale una “palude”, utilizzando un vecchio slogan: “It’s time to drain the swamp”, “È tempo di bonificare la palude”,  perché se è vero che Washington sorge su un terreno acquitrinoso, il sottotesto è che  va liberata dagli interessi dei lobbisti (democratici, ovviamente). #Draintheswamp era un hashtag che Trump aggiungeva ai suoi innumerevoli tweet, prima che venisse bannato nel 2021 (bei tempi quelli in cui i social lo consideravano un pericoloso fomentatore di odio). 

La palude capitolina, negli anni in cui ci vivevo, non ha mancato occasione di rispondere al Presidente con esplicita ostilità. Al tempo, i famosi anticorpi democratici avevano iniziato ad agitarsi combattivi, e spesso quegli anticorpi abitavano i corpi delle donne, ancora più spesso afroamericane. 

Il giorno dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, il 21 gennaio del 2017 c’è stata la prima colossale Women’s march che ha visto più di duecentomila persone solo a Washington marciare per i diritti delle donne e contro la nuova amministrazione, e circa due milioni di partecipanti contando anche le altre città alleate, diventando così la più grande manifestazione di piazza di sempre nella storia degli Stati Uniti (adesso forse superata da quest’ultima del 5 aprile).

Poi c’è stata Carla Hayden, prima donna e prima persona afroamericana chiamata (sotto l’amministrazione Obama) a ricoprire l’incarico di direttrice della Library of Congress, la biblioteca più grande del mondo e una delle istituzioni più importanti della città. Hayden, una ex-bibliotecaria, non una funzionaria di apparato – già famosa per aver lasciato le biblioteche pubbliche aperte di notte durante i riots di Baltimora per dar modo ai manifestanti di ripararsi dalle cariche della polizia – un mese dopo l’insediamento di Trump, ha organizzato una festa pazzesca dentro la Library of Congress per celebrare la cultura dance, con tanto di concerto di Gloria Gaynor (e la presentazione del suo  libro I Will Survive), silent disco nella sala lettura, open bar sponsorizzato: praticamente è riuscita a trasformare Capitol Hill in una discoteca che celebrava la cultura queer. Una vera e propria provocazione per il Congresso lì di fronte, che si è ritrovato centinaia di persone vestite da drag, con gli zatteroni, le parrucche e le giacche di paillettes sfilargli davanti tutta la sera per entrare nel tempio della cultura e scatenarsi davanti alla teca dove è conservata una delle sopravvissute Bibbie di Gutenberg. – peraltro una delle serate più divertenti della mia vita americana.

“Il giorno dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, il 21 gennaio del 2017 c’è stata la prima colossale Women’s march che ha visto più di duecentomila persone solo a Washington marciare per i diritti delle donne e contro la nuova amministrazione”.

Altra washingtoniana afroamericana che ha dato del filo da torcere a Trump è stata la sindaca ancora in carica Muriel Bowser, da sempre ostile alle politiche repubblicane. Alla fine della primavera 2020, quando impazzavano in tutto il paese le proteste contro la violenza della polizia a seguito dell’uccisione di George Floyd, il suo rapporto burrascoso con Trump ha raggiunto il culmine. Trump mandava agenti federali ad attaccare le folle che protestavano davanti alla Casa Bianca e lei in tutta risposta, proprio davanti ai cancelli del giardino della White House, ha inaugurato Black Lives Matter plaza, facendo scrivere a caratteri cubitali gialli BLACK LIVES MATTER proprio sul manto della strada di fronte all’ingresso di casa Trump. Quella piazza ora non esiste più, la scritta gialla distrutta da squadre di operai con il martello pneumatico, proprio in queste settimane.

È una cosa che fa male a guardarla. Non so come la sindaca si sia piegata a questa imposizione. Sembra che la resistenza a Trump, a questa tornata, sia molto molto più fragile. Che cosa è successo a quegli anticorpi?

Sempre parlando del fronte di resistenza punk capitolino costituito dalle biblioteche, nel febbraio del 2022 Jeff Bezos ha donato 2,7 milioni di dollari alla biblioteca pubblica di Washington dedicata a Martin Luther King. Il direttore dalla fondazione biblioteche di Washington a quel punto ha proposto di nominare l’Auditorium della MLK Library al generoso tycoon di Amazon. Ma i bibliotecari sono insorti: in una lettera hanno fatto sapere che per loro era inaccettabile avere il nome di Bezos celebrato accanto a quello di Luther King. Come prima cosa sottolineavano che  le donazioni a istituti pubblici sono un’ipocrisia per chi evade massicciamente le tasse federali (peraltro due milioni e mezzo non sono niente per Bezos che ne fattura duecento al giorno), ma soprattutto che  le idee politiche di King, che si batteva contro le ingiustizie sociali ed economiche e venne ucciso durante una protesta sindacale, cozzassero del tutto con quelle di Bezos, il suo essere inviso ai sindacati e le sue enormi ricchezze accumulate con lo  sfruttamento dei lavoratori. Bezos, a quei tempi più sensibile di adesso, fece il bel gesto di proporre che l’Auditorium fosse intitolato alla sua amica, Nobel per la Letteratura, Toni Morrison.

Last but not least della resistenza washingtoniana di allora: NPR news, la radio pubblica, un gioiello del servizio nazionale, che vive di sussidi federali e donazioni (gli speaker sono un po’ pressanti in effetti, richiamano il pubblico a donare ogni quarto d’ora, accettando pure macchine usate) e fa un servizio indipendente e serissimo di news, trasmissioni culturali, podcast. Sono gli inventori, tra le altre cose, dei molto imitati Tiny desk concert, mini concerti di circa un quarto d’ora registrati live nei loro uffici, tra le scrivanie dei dipendenti, a cui da più di quindici anni partecipano artisti di ogni calibro, genere musicale e nazionalità. Pensate a un gruppo o a un cantante in vita e sicuramente ha fatto un concerto Tiny Desk (da Paul Weller a Dua Lipa al duo argentino che lo scorso anno ha scalato le classifiche con più di dieci milioni di visualizzazioni). Una cosa piccola e perfetta fatta con poche risorse che riesce a far felici tanti senza conseguenze distruttive, antidoto perfetto ai razzi, ai loro consumi e agli assurdi viaggi spaziali da dieci minuti. Ovviamente Musk ha chiesto subito che i fondi pubblici per NPR venissero cancellati.

Ero convinta che l’avamposto liberal di Washington avrebbe sempre lottato contro il trumpismo. Invece le cose sono cambiate. I tecnobros ex liberal come Zuckerberg, Gates e Bezos sono saliti senza troppi ripensamenti  sul carro del vincitore. Quest’ultimo, anche proprietario del «Washington Post», da sempre testata di riferimento dei lettori democratici, ha perso 250 000 abbonati nei giorni appena successivi all’annuncio, a qualche settimana dal voto, di non voler dare endorsement a Kamala Harris. Ma che importa a Bezos degli abbonati al «Washington Post», gli bastano i subscriber di Prime.

L’aria che tira a questo giro è diversa. Questa volta l’imperativo “drain the swamp” è partito in maniera veramente aggressiva, tanto che sembra che la resistenza sia stata colta in contropiede. 

Chiedo agli amici che ancora vivono lì qualche rassicurazione. Non me ne danno molte.  L’unica nota divertente in questo clima di sottomissione è il racconto del fermento che serpeggia tra quella minoranza di popolazione repubblicana di D.C. eccitata all’idea che, con l’arrivo in città dell’entourage presidenziale, riesca  finalmente a rimorchiare con le app per incontri. Un recente sondaggio tra gli utenti delle app di dating dice infatti che la maggioranza di chi li usa non è disposto a uscire con qualcuno con idee politiche diverse dalle sue. È chiaro quindi che quelli di destra a Washington per anni non hanno battuto chiodo (del resto non erano tutti Dio, Patria e Famiglia?).

In questo clima di teste chinate anche nella democratica DC, la wild card al nuovo Trump nei primi giorni è stata di nuovo una donna, ma in un posto inaspettato, in genere appannaggio dei conservatori: la Cattedrale di Washington. È stata infatti la vescova Mariann Edgar Budde a bacchettare Trump dal suo pulpito, durante la messa di insediamento, chiedendogli di pensare alle persone a rischio discriminazione o deportazione che oggi sono spaventate di vivere negli Stati Uniti. Che gli anticorpi allo strapotere della destra, che in genere è sempre andata a nozze con le alte sfere ecclesiastiche, arrivino dal pulpito di una Cattedrale è una discreta novità, perfino per Washington. Adesso forse la vescova può contare anche sul supporto di Papa Prevost, per quanto i cattolici americani siano una minoranza. 

Bel paradosso se quello che resta da sperare è che mentre i repubblicani nella capitale sono impegnati a fornicare sulle app di dating, la resistenza civile si riorganizzi, magari ripartendo dalle donne, dalle biblioteche e sorpresa: dalle parrocchie. Chiederò alla mia ex vicina di essere ammessa alla chat “Sisters of the resistance”. Anche se sono fuori mano per alzare un cartello, sono una cittadina americana e oltre a dare il mio inutile voto nel distretto più democratico d’America vorrei essere vicina alle sorelle per la resistenza della mia ex, amatissima, città. 

Lorenza Pieri

Lorenza Pieri è scrittrice e traduttrice. Il suo ultimo libro è Erosione (E/O, 2022).

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2025

art direction undesign

web design & development cosmo

sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga

lucy audio player

00:00

00:00