Mariachiara Rafaiani
18 Giugno 2025
Ancora oggi, quando qualcuno intorno a me si domanda il nome di un fiore o di una pianta, penso a Montale. Montale è stato l’autore che per primo mi ha fatto comprendere l’importanza del conoscere le parole esatte, del saper nominare le cose, saperle indicare col maggior grado possibile di precisione. Ho un amico scrittore che è cresciuto in città, e dunque da bambino non ha avuto, come me, la fortuna di passare ore a collezionare fiori e foglie. Quando passeggiamo al Parco di Porta Venezia, o mentre esploriamo le isole del Sud Italia, spesso mi chiede il nome delle piante che ci circondano. Perlopiù domande semplici. Di recente, a Lipari, mi ha indicato delle foglie comunissime, chiedendomi se sapessi a che piante appartenessero. Ogni volta rimane stupito dalla mia conoscenza, come fosse straordinaria. Ma anche le mie capacità tassonomiche sono limitate, e dunque spesso chiama in suo soccorso un’app che riconosce foglie, fiori e cortecce. È uno scrittore, mi dico io, è normale che voglia conoscere i nomi delle cose. Ma non posso fare a meno di pensare che anche per lui quell’esigenza sia nata in seguito alla lettura degli Ossi di seppia di Eugenio Montale, e a quella sua minuziosa messa a sistema della vegetazione ligure, con lo scrupolo e la maestà che si avrebbe per stelle e pianeti.
Ossi di seppia usciva il 15 giugno 1925 da Piero Gobetti Editore. Cent’anni fa. È uno di quei casi in cui un libro d’esordio non è un’introduzione provvisoria a un’opera futura, ma un’opera compiuta e risolutiva, che inaugura una voce e una forma poetica nuove nella letteratura italiana del Novecento. Montale esordisce quando la scena letteraria è ancora dominata da residui simbolisti e da un’estetica dannunziana del “bel verso”, della trasfigurazione mitica, del paesaggio idealizzato. A quella tradizione risponde con una lingua asciutta, oggettiva, e con un immaginario fatto di aridità, scarti, epifanie negative. Il paesaggio ligure che attraversa le sue poesie non è consolatorio, ma ruvido, sassoso, assolato e inospitale: un correlativo oggettivo – così come T. S. Eliot – della disillusione. Scrive Gianfranco Contini: “Il mondo di Ossi di seppia è un mondo negativo”.
Il gesto linguistico di Montale è una vera frattura rispetto ai tempi a lui più vicini, e riapre il dialogo con la tradizione. Scrive Mengaldo: “Colpisce il conservatorismo formale degli Ossi, in uno spontaneo accordo con la tradizione che si lascia alle spalle ogni tentazione avanguardistica”.
La raccolta include da subito testi centrali come I limoni, Meriggiare pallido e assorto, Spesso il male di vivere ho incontrato, Non chiederci la parola, Cigola la carrucola del pozzo. I limoni, in particolare, è il testo che può essere letto come il vero manifesto poetico della raccolta: quasi un elenco dove il poeta dichiara quanto ha già promesso al lettore, ovvero ciò che non è e ciò che non vuole. Lontano dai poeti laureati, la sua è una poesia che ambisce solo a ciò che si vede per caso “un giorno da un malchiuso portone”. Una poesia fatta di dettagli, di squarci, di illuminazioni improvvise che costituiscono l’unico privilegio di un individuo sperso, taciturno, paradossalmente molto più simile all’uomo contemporaneo di oggi di quanto, forse, lo fosse a quello di allora.
Nel 1928 Montale pubblica una seconda edizione del libro per la casa editrice Fratelli Ribet di Torino, con sei testi aggiunti (tra cui Arsenio) e una nuova articolazione interna. Ma la struttura fondativa della raccolta – il suo tono, la sua visione, la sua cesura storica – era già perfettamente compiuta nella prima.
Si dice a volte che gli esordi non debbano preoccupare troppo gli autori. È solo un inizio, poi si vedrà. Ma ci sono casi in cui l’opera prima contiene già tutto: la voce, il ritmo, la grammatica di un pensiero. È quello che accade in Ossi di seppia. E si capisce, leggendo quei versi, che siamo di fronte a qualcosa di nuovo, che mette in crisi l’esistente e apre – come diceva Brecht – alla possibilità di “una situazione nuova”.
“Ancora oggi, quando qualcuno intorno a me si domanda il nome di un fiore o di una pianta, penso a Montale”.
Sarà che il mio primo amore è stato Leopardi, con cui condivido la patria nel natio borgo selvaggio, Montale non poteva che essere il secondo. Il nesso fra i due è tanto forte quanto sotterraneo. È lui a prendere il testimone di una poesia che aspira alla grandezza, che dà forma allo stupore, all’interrogazione, all’incanto. Da Leopardi desume la necessità quasi metafisica che la poesia sia sempre anche pensiero, che l’emozione non è reale se non è il culmine di un ragionamento,e che vadano di pari passo dunque poesia e filosofia. Come sottolinea Giorgio Zampa, tra i massimi studiosi di Montale,: “La vanità del tutto nella consapevolezza che è necessario, costi quel che costi, enunciarla e descriverla”. La parola fondamentale eppure sempre vana, al cospetto di quel fantasma che è il nulla, il vuoto annientante del male di vivere. Eppure quel “male”, di cui parlava anche Contini, nei versi di Montale diventa il soggetto di una gloria linguistica. Ed è proprio quel senso di possibile gloria che nei suoi versi convive con la tragedia dell’esistere, e anzi ne trae forza, che fin da giovanissima mi ha esaltata. Raccolta dopo raccolta, più entravo dentro la sua poesia, più mi stupivo delle possibilità della mia lingua. Una lingua, quella italiana, che fino a quel momento, avevo usato solo per “dire”.
Ancora Giorgio Zampa:
“Uno sguardo al corso del secolo che si sta avviando alla fine rende palese come a nessun poeta del nostro Novecento si possano ascrivere un’azione per durata e profondità pari a quella esercitata da Eugenio Montale. Dal 1925, anno in cui appaiono Ossi di seppia, al 1980, quando si pubblica L’Opera in versi, la presenza di Montale non è venuta mai meno, costituendo punto di riferimento costante”.
Si interroga poi, Zampa, su come cambierà la percezione di Montale nel tempo, superate le soglie del Duemila.
A cent’anni dall’uscita di Ossi di seppia e quasi quarant’anni dopo la pubblicazione della sua opera completa, abbiamo pensato di chiedere ai nuovi poeti – quelli nati tra gli anni ‘80 e gli anni 90’ – che cosa ha rappresentato per loro Montale, che cosa rappresenta ancora oggi, e cosa resta o non resta di lui nella poesia del Secondo Millennio.
La parola ai poeti
“La poesia di Eugenio Montale è stata, per me, il salto dentro la polpa delle parole. È il primo poeta: colui il quale mi ha fatto vedere e sentire che poteva darsi un uso del linguaggio che metteva in tale subbuglio le sinapsi da creare uno stato di sbalordimento del percepibile”. Così scrive Tommaso Di Dio – (la sua ultima raccolta Ardore è uscita nel 2023 per Nino Aragno Editore), critico e curatore dell’antologia Poesie dell’Italia contemporanea (il Saggiatore) – quando gli parlo, a lui che ne è maestro, dell’idea di fare un viaggio tra i poeti contemporanei, a partire dal loro incontro con Montale.
“Per un certo lungo periodo ricordo di aver portato il volume Ossi di seppia ovunque con me. Era l’orribile ma economicissima edizione Oscar Mondadori 1991, nella quale, in un abbacinante fondo bianco ottico, bordato da una banda rosso carminio, era incorniciato non il migliore quadro di De Pisis. A ogni lettura, i suoi versi bruciavano il velo di una visione anodina e introducevano il mio sguardo di primo adolescente dentro un’accelerazione infinita, dirompente, fracassata. Potremmo accostare alla poesia degli Ossi un’espressione che Cesare Brandi usa per definire i paesaggi inquieti, sassosi e liquidi, di Giorgio Morandi: ‘Sembra un ornamento ed è una piaga’.
Ma al di là del suo primo rapporto con gli Ossi, puro e quasi primigenio, Di Dio continua riflettendo su cosa però, al di là dell’indubitabile grandezza artistica, resta a suo avviso di non attuale in Montale: l’inaccettabilità del suo conservatorismo di fondo, accompagnato a una sfiducia nei confronti di un’azione collettiva. Il suo cinismo, che ha fatto scuola. Il suo essere, in un certo senso, un “cattivo maestro”. Ma ancor di più la sua visione del linguaggio, che è quello di una poesia pienamente letteraria e non aperta ai cascami della realtà:
“Ciò che manca a Montale non è insomma l’idea della povertà della lingua poetica nel mondo contemporaneo, ciò che manca è la fiducia – disperata e inevitabile – che non si possa che abdicare al letterario per scrivere poesia. E pensare che era stato proprio lui a insegnarci a fare poesia con ciò che resta sulle spiagge del mondo, arenato e morto: è lì che bisogna avere il coraggio di restare.”
E proprio su questa tensione si colloca Maria Borio (Perugia, 1985), poetessa e critica, che in Satura. Da Montale alla lirica contemporanea ha indagato il passaggio dalla voce montaliana alla modernità lirica, e il cui ultimo libro di poesie è Trasparenza. Poesia e Musica (Interlinea, 2024).
“Montale incarna la fisionomia del classico. La sua poesia è riuscita a risuonare con vari momenti cruciali del secolo scorso: la cultura esistenzialista, la guerra, il boom economico, la società dell’informazione. La consonanza della sua poetica con le mutazioni storiche poggia su un’idea di poesia come forma saggistica, che unisce i valori estetici a quelli del pensiero, e alle trasformazioni reali del linguaggio, mantenendo un principio di misura e intellegibilità nella dizione. Inoltre, il lirismo tragico del primo Montale si sviluppa in un’ironia acuta che, pur provenendo da una salda tradizione umanistica che sfocia nel modernismo, riesce a metterla in discussione, anticipando la cultura post-umanistica. L’aderenza al linguaggio come sostanza del tempo, corporeo e mentale, al linguaggio come forma che interroga il senso dell’umanità e lo mette in discussione, rappresenta una delle lezioni più icastiche della poesia italiana del Novecento. Essere tragici e ironici possono tenersi per mano.”
Altri poeti partono invece da un legame più primigenio e personale. Antonio Francesco Perozzi (Subiaco, 1994), il cui ultimo libro on land (Prufrock SPA) è arrivato nella dozzina finalista del Premio Strega Poesia, racconta l’intuizione iniziale:
“La premessa è che ho iniziato a interessarmi di poesia solo in un secondo momento, rispetto a quando, a scuola, ho scoperto l’attrazione verso la filosofia e la narrativa. Tra quelle studiate, però, Montale è stata proprio la cosa di poesia che, mi ricordo, fece più incursione (in competizione forse solo con Leopardi). Non a caso: mi arrivava in effetti come pensiero in versi. In più – visto che, scolasticamente, era il Montale degli Ossi – questi pensieri li avvertivo in certo senso precipitati nel materiale bruto che risuona in quei versi. Queste interpretazioni le faccio a posteriori, all’epoca leggevo e basta. Ma proprio per questo, per l’intuizione che arriva di una lingua che medita e si aggancia ai rovi insieme, mi sembra che Montale sia ancora un passaggio decisivo per chi si avvicina alla poesia”.
Ma la poesia non vive solo sui banchi di scuola. Per alcuni, entra nella carne del quotidiano, nelle stanze familiari. Per Giuseppe Nibali (Catania, 1991; il suo ultimo libro è Eucariota per Samuele Editore), Montale è una voce d’infanzia e insieme un lascito: un libro che si consegna a un padre, e una lingua che sopravvive alla perdita:
“Noi Ossi di seppia lo abbiamo messo nella bara di mio padre prima di chiuderla. Non era la copia di rappresentanza, quella ancora occhieggia dalla mia libreria. Era l’edizione del ‘79, arancione e bianca e io mi arrampicavo per prenderla e la sfogliavo, da bambino. Lui completava quella esperienza muta citandomi a memoria: i cocci aguzzi di bottiglia, i limoni, quello che gli uomini sanno e non sanno. Mi pareva una voce distante e familiare, quella di Montale. Qui, venti anni dopo e con tutti gli studi, la mia idea non è cambiata. Credo anzi si sia radicata, quella lingua, quella costruzione sintattica, nella storia della lirica italiana e sia stata poi ruminata e sminuzzata dalla linea lombarda e dal neo-ermetismo, sempre in modi diversi. Ogni autore deve confrontarsi con Montale e Ossi di seppia certifica questa paternità, per questo non mi pare di aver cambiato nulla della mia idea di bambino: mi pare ancora, distante e familiare, quella voce”.
Anche Viola Lo Moro (Roma, 1985) associa Montale alla memoria familiare. Ma se per Nibali la memoria è fisica, oggettuale, per Lo Moro è fatta di ritorni, di parole che si riaccendono nei luoghi e nei momenti imprevisti. Nel suo primo libro Cuore allegro (Giulio Perrone Editore, 2022) ha messo un estratto di Casa sul mare, proprio da Ossi di seppia, in esergo alla sezione centrale. Quando le ho chiesto di raccontarmi il suo rapporto con la prima raccolta montaliana è andata subito al ricordo del nonno, Giorgio, che le recitava quei versi quando era bambina, allo zio Pietro che lo ha studiato per decenni. E ancora a un pezzo della sua vita trascorsa a Genova, dove non tanto i luoghi, ma i versi del poeta sono tornati ad abitarla.
“Montale ha abitato le stanze della mia infanzia e della mia giovinezza. Avere un rapporto intimo con la poesia ti fa entrare in una sfera di parole dalle quali poi è difficile allontanarti. Quello che ti appare come realtà, deve sistemarsi sempre di più con parole esatte. Eppure, credo sia lì che può esistere l’invenzione della parola nuova, l’intuizione della composizione. Se poi, addirittura, hai l’ardire di fare un passetto anche tu nella poesia scritta per essere pubblicata, quelle parole (e Montale di parole indelebili ne ha scritte parecchie) ti tornano, ti abitano, ti costringono a stare con e allontanarti da loro. Il solco della tradizione è un po’ questo imprescindibile legaccio. Penso all’uso della parola alto/altro, a quella seconda persona indicativa, quel “tu”, alla precisione delle agavi e delle tamerici, al vacillare e l’incrinatura. Al filo, all’osso di seppia, allegoria perfetta dell’essenziale che resta. Devi dimenticarti per qualche istante che già tutto (o molto) sta già nelle poesie degli altri e delle altre, e devi pensare che qualcosa con la tua parola si aggiunge. Rimanere lì un po’ in questa menzogna, abitarla, e poi rendere omaggio”.
Fino ad arrivare a una delle ultime passeggiate con suo nonno, dove i versi di Casa sul mare sono tornati a vivere, come se fossero le parole del loro addio: Il cammino finisce a queste prode/ che rode la marea col moto alterno. / Il tuo cuore vicino che non m’ode / salpa già forse per l’eterno.
Se per Lo Moro la poesia è una reliquia domestica, per Marco Corsi è invece un dispositivo formale che comporta la trasmissione consapevole di un’eredità lirica. Corsi, toscano, (1985) che ha inaugurato la rinascita della collana Poeti della Fenice per Guanda con il suo Nel dopo, anche lui nella dozzina del Premio Strega Poesia di quest’anno, mi scrive:
“Quando penso a Ossi di seppia, due sono le questioni cruciali su cui inevitabilmente torno a riflettere: da una parte l’istanza della forma libro e dall’altra la vertenza intorno a una narratività figurativa in grado di tramutare il simbolo in strumento di pensiero. Come nei Canti leopardiani, e prima ancora nei «fragmenta» di Petrarca, il rapporto fra testo e macrotesto dà sostanza a una sorta di libro-vita fondativo rispetto alla tradizione novecentesca a venire. Quanto al rapporto tra narrazione e simbolo, si tratta in fondo della quintessenza del magistero montaliano, che trapassa di libro in libro fino all’ipotesi antilirica, rovesciata e antiretorica. Qui è lo «scabro», l’«essenziale», quell’orizzonte mediterraneo sui cui si staglia la figura di Arsenio: segno di quella modernità dantesca in cui riecheggia il Prufrock di T.S. Eliot. In pieno accordo fra antico e contemporaneo, additando una strada per il futuro. Ma ancora risuonavano scabre ed essenziali quelle parole tra i banchi dell’università, quando frequentavo i corsi di Rosanna Bettarini: dove Montale era ancora più vivo”.
Eppure, anche quando Montale è pensato, costruito, studiato, resta voce da pronunciare. Giorgiomaria Cornelio (Macerata, 1997; La specie storta, Tlon, 2023) lo attraversa così: attraverso il suono, la performance, l’agire attivo del dire poetico. È il Montale che si legge ad alta voce, che si recita come un rito. Mi scrive riflettendo sulla particolarità del fatto che, nella sua educazione sentimentale, Carmelo Bene abbia preceduto Montale, l’avanguardia che precede l’accademia (e forse si sovrappone ad essa fino a sostituirla): “Tra i due, com’è risaputo, c’era una tenera azzuffaglia — nel senso che amavano azzuffarsi sulla reciproca considerazione della poesia. Non starò qui a dire che febbre fosse a sedici anni leggere cose come: «[…] Non si può che confermarsi ‘stranieri nella propria lingua’». Eppure, nonostante la mia predilezione per CB (mutuata da Emilio Villa), non fu un verso de l mal de’ fiori a darmi l’idea di cosa potesse davvero l’arte poetica, ma piuttosto la chiusa de Il primo gennaio di Montale: «Erano tanti e il più impresentabile di tutti / perché gli altri almeno parlano, / io, a bocca chiusa».”
Cornelio associa la poesia montaliana all’azione recitativa, al rito di dire al microfono quella poesia: “Non sapevo spiegarmi quel finale – lo sprofondare dei versi in una grammatica che pareva non volersi aggiustare, eppure funzionava perfettamente, una volta sciolta in voce. Era tutto un ribollire: scappava, e poi tornava a battere sul palato del mondo come un mistero. «Perché gli altri almeno parlano…». Ancora oggi, leggendola, questa pila di versi mi sa di un portento che non chiede giustificazione e che — pur calando verso il basso — riesce a compiere, proprio sul finale, un voto di levitazione. «Erano tanti e il più impresentabile di tutti / perché gli altri almeno parlano, / io, a bocca chiusa». Ancora e ancora mi trovo a ripeterli, a ricopiarli qui…
Così, la poesia da me amata mi è sempre parsa questo: l’estremo rovesciarsi delle cose in un destino di volo, e viceversa: la missione sotterranea di ogni compito veramente astrale.
Soprattutto di tali considerazioni devo ringraziare Montale — e pure Carmelo, ne sono certo, sarebbe oggi d’accordo.”
“Ossi di seppia era sotterrato nella libreria di famiglia tra manuali e riviste del National Geographic, è stato un incontro casuale”. Mi scrive Silvia Righi (Correggio, 1995, il suo ultimo libro è Demi-monde, NEM), che affronta l’ombra delle figure femminili montaliane. “Gli oggetti che brillavano tra le sue pagine come reali, e irreali, catalizzatori di senso divennero subito la mia ossessione. Sentivo che volevo farlo anche io. Raggiungere quella precisione di sguardo, di descrizione. Volevo essere in grado di rivestire di carne e sangue le mie parole senza, però, costringerle in un’unica possibilità di senso. Osservavo con più diffidenza le donne-angelo di Montale, così eteree e impossibili da svelare, e dopo aver imparato a imitarle nella scrittura, ho deciso di abbandonarle. Perché ciò che desideravo realmente era raccontare la matrice violenta del femminile, con la sua fluidità e le sue storture, un essere in continua trasformazione di cui, tuttavia, fosse possibile sfiorare la pelle”.
Da ultimo ho chiesto a Rebecca Garbin, nata oltre la soglia del duemila (Male minore, Vallecchi, 2024). La sua voce introduce un distacco netto, come se l’incanto fosse ormai rotto e ci si potesse permettere una franchezza nuova: Montale come maestro che ha forse imbrogliato le carte.
“Eugenio Montale ci ha presi tutti in giro: ha convinto generazioni di poeti dell’importanza del nulla, oltre che della sua esistenza, senza mai svelare il suo segreto. L’oggetto della letteratura, però, non può essere tenuto segreto senza diventare imbroglio. Concordare che il miracolo sia “il nulla alle nostre spalle” equivale a darsi per vinti in partenza. La mia Esterina, quindi, sarà sempre quella di Rosselli che “non s’incanta al paesaggio”. Al nulla preferisco la realtà, nella sua pienezza “così pesante che la mano si stanca, e nessuna forma la può contenere”.
In questa coralità, Ossi di seppia più che libro è oggetto transgenerazionale: portato nello zaino, appoggiato sulla bara di un padre, recitato da un nonno, sepolto in libreria. Ma anche rifiutato, sfidato, aggirato. È questa ambivalenza a renderlo vivo.
Torna, in Righi, come in Nibali, come in Di Dio, l’immagine plastica dell’oggetto libro che contiene la celebre raccolta. Torna, come in Lo Moro, il ricordo di qualcuno che recita i versi degli Ossi a memoria. E questo mi sembra dia misura di quanto Montale sia entrato non solo nella lingua poetica, ma anche nelle case, nelle vite. Il filo rosso di queste voci, di questi ricordi, di queste riflessioni, è l’emergere costante di un rapporto che va oltre il letterario, ed è sempre, in qualche modo, personale. Un Maestro come forse non ce ne sono più, o non ce ne possono più essere perché sono cambiate le condizioni sociali che rendevano la letteratura e la poesia non solo autorevoli, ma anche accessibili. Montale sembra stare su quel limite, tra il senso di un’istituzione e la sua perdita, fra l’accademia e la lotta, basculante eppure incrollabile monumento. L’ultimo, forse l’unico.
“Eugenio Montale ci ha presi tutti in giro: ha convinto generazioni di poeti dell’importanza del nulla, oltre che della sua esistenza, senza mai svelare il suo segreto”.
Anche io, come Zampa, non posso che interrogarmi su cosa ne sarà di Montale nel prossimo secolo, e forse già nel prossimo decennio. I miei dubbi non si radicano però nella consapevolezza che i gusti letterari e le inclinazioni poetiche cambiano, e tutto può sfuggire alla consacrazione del classico per diventare solo antiquato. I miei timori e la curiosità che si accompagna ad essi – nascono piuttosto dal non sapere che ruolo avrà la poesia nel prossimo decennio, nel prossimo secolo, e nei secoli a venire. Quanta cura e quanti soldi le istituzioni politiche del nostro Paese investiranno nella scuola e nella cultura. Se ritornerà centrale nel dibattito politico il diritto all’istruzione. Se ci sarà, se è sperabile, un cambio di rotta. Se sulle mensole, tra dispositivi elettronici dove vivono le nuove intelligenze artificiali, ci sarà ancora posto per i libri di poesia. Se ci sarà ancora posto per i cocci aguzzi di bottiglia, i gialli dei limoni, i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, le serpi, la foglia riarsa, il girasole impazzito di luce.
Mariachiara Rafaiani
Mariachiara Rafaiani è ricercatrice in letteratura latina e collabora con diverse riviste. A gennaio 2025 è uscita per Tlon la sua nuova raccolta poetica dal titolo L’ultimo mondo.
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