Cosa sta spingendo tutti quanti a scendere in piazza per Gaza - Lucy sulla cultura
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Gaia Manzini

Cosa sta spingendo tutti quanti a scendere in piazza per Gaza

Le piazze si stanno riempiendo come non accadeva da tempo. È una risposta emotiva e politica alla distanza che la guerra impone.

Tra le tante immagini dei cortei Pro Pal che mi hanno raggiunto negli scorsi giorni su Instagram, ce n’è una che mi colpisce più delle altre perché è già un’elaborazione di quant’è accaduto. Un giovane uomo sorridente tiene sopra la testa un cartello scritto a mano: VOLEVAMO LIBERARE LA PALESTINA INVECE LA PALESTINA STA LIBERANDO NOI.

Venerdì 3 ottobre si è manifestato in tutta Italia a sostegno della popolazione palestinese e della Global Sumud Flotillia, intercettata due giorni prima in acque internazionali dalle forze israeliane con una serie di abbordaggi armati, proseguiti poi fino al 3 ottobre. È da settimane che in Italia si manifesta a favore di Gaza, ma venerdì scorso è stata evidente a tutti la portata emotiva del coinvolgimento. Era molto tempo che una manifestazione non registrava un’adesione così vasta e sentita su tutto il territorio nazionale. Si è manifestato da Bolzano a Reggio Calabria, da Aosta a Cagliari. I porti di Genova, Trieste e Livorno quel giorno hanno bloccato i varchi. A Milano il corteo di centomila persone ha invaso la tangenziale est ed è continuato fino a tarda notte in piazzale Loreto e in Corso Buenos Aires. Centinaia di migliaia di persone si sono riversate nelle piazze con una partecipazione capace di coinvolgere anche chi in piazza non è potuto andare. 

In quelle ore partecipavo a un festival letterario: ogni intellettuale presente quel giorno ha dichiarato pubblicamente il suo sostegno alla causa palestinese, seguito ogni volta dall’entusiasmo di gran parte dell’uditorio. Come se “la piazza” fosse dislocata ovunque. Una famosa attrice di teatro e un’autrice spagnola di fama internazionale, entrambe anagraficamente vicine alle istanze politiche degli anni Sessanta, si sono presentate sul palco indossando la kefiah, in ricordo delle lotte del passato che s’innervano con drammatica continuità nel presente.

Quello che è accaduto spontaneamente non è però accaduto a caso. Raccoglie e coagula, anzi, una serie di elementi di discontinuità capaci di risvegliare generazioni di italiani e italiane e non solo. I cortei di questi giorni non sono infatti un fenomeno unicamente nostro; le persone si sono riversate nelle strade di tutto il mondo: a Berlino, a Parigi, a Istanbul, a Dakar, a Nairobi, a Tangeri, a Cape Town, a Buenos Aires, a Città del Messico… 

Il grande scrittore Elias Canetti, che partecipò nella prima metà del Novecento a molte manifestazioni di piazza, tra cui la Sommossa di Vienna del 1927 (contro l’assoluzione di tre paramilitari nazionalisti accusati di aver ucciso due socialdemocratici) scrisse in Massa e potere: “Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro”.  L’essere umano vive nel timore di essere toccato, ingiuriato, ferito: ma questo timore viene paradossalmente capovolto in coraggio quando si diventa una massa. Quello che sta succedendo a Gaza ci ha fatto sentire esposti a un pericolo più vasto della questione israeliano-palestinese: ha risvegliato l’esigenza di essere un unico corpo. 

In tanti, in tante ci chiediamo ragione di questa eccezionale spinta emotiva. Nel chiedermelo non posso che guardare al passato.

Nel gennaio del 1991, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, gli americani diedero inizio all’operazione di guerra denominata Desert Storm. Da quel momento in poi gli scontri bellici divennero un fatto mediatico. Nel senso che da allora la comunicazione avrebbe influenzato spesso la condotta bellica. Il 17 gennaio 1991 gli americani bombardano Baghdad. A darne notizia in Italia è Emilio Fede. Ricordo ancora le fiamme verdi nella notte, le scie dei missili Cruise e i bagliori sullo sfondo. In verità era impossibile stabilire esattamente cosa stesse succedendo, non fosse stato per il racconto fatto da Peter Arnett che in quel momento si trovava insieme ad altri cronisti della CNN nell’hotel Al Rashid di Baghdad. Il collegamento durò diciassette ore consecutive.

La prima guerra del Golfo è stata la prima guerra seguita nel mondo in diretta tv. Anzi, sarebbe forse più corretto sottolineare che per la maggior parte delle persone “guerra” è quella cosa che succede in tv, nei siti web di informazione, nei social network.

Arnett e i suoi colleghi, in quanto cronisti, per di più relegati in un albergo, erano a loro volta spettatori distanti da quanto stava accadendo. L’intermediazione di un mezzo rende finzionale quello che stiamo guardando, tanto che  diventa qualcosa della cui veridicità possiamo sempre dubitare. Ma soprattutto ci mette in disparte, ci relega in una incolmabile distanza, ci paralizza nell’inazione. Possiamo solo “assistere”: per questo, con diverse sfumature di opinione a seconda delle singole persone, diventiamo – o rischiamo di diventare – irresponsabili nei confronti dell’agire. Ho vissuto tutta la mia maturità pensando alla guerra come a qualcosa di lontano, che avveniva in altri continenti ed emisferi, e ad ogni modo non mi toccava. Assomigliava a un film, a una rappresentazione.

La portata mediatica di un evento bellico non è mai stata così evidente come per l’attentato alle Torri Gemelle. L’orchestrazione dell’attacco terroristico ha tenuto conto fin dal suo disegno non solo dell’effetto reale e di quello simbolico, ma anche di quello mediatico. In quegli anni lavoravo per un’agenzia di pubblicità. Ho assistito all’attentato dai grandi schermi televisivi che si trovavano dietro il desk d’accoglienza. Qualche mese dopo, a una cerimonia per addetti ai lavori, un celebre guru del settore tenne un discorso sull’impatto visivo e sintetico che deve avere una comunicazione e – in modo provocatorio – portò come esempio l’attentato alle Torri Gemelle. Il pubblico non apprezzò: seguirono fischi e proteste. Sicuramente il celebre esperto non usò i tempi e i modi giusti, peccò di presunzione corriva, ma, in fondo, aveva ragione. Qualcun altro fece notare che le Torri inquadrate frontalmente replicavano l’icona della pausa che si trova ancora oggi su qualsiasi stereo o app audio: II. Era evidente che la pausa nella belligeranza tra il mondo islamico e quello occidentale era finita. 

Come spettatori non abbiamo potuto fare altro che accogliere con profondo turbamento quelle immagini. Un turbamento che diceva di una vicinanza maggiore – era stata l’America a essere colpita in modo inequivocabile – e diffondeva il panico nel mondo occidentale. La commozione però, la vicinanza con i cittadini di New York al di là di qualsiasi considerazione estetizzante, sgorgava soprattutto davanti alle immagini delle persone che dalle torri si erano buttate nel vuoto. The Falling Man, la foto scattata da Richard Drew, è diventata il simbolo della disperazione di quel giorno. Lo scrittore americano Don De Lillo ha pubblicato nel 2007 un romanzo che ha lo stesso titolo della foto di Drew e in cui racconta la vita di un sopravvissuto all’11 settembre. 

Avevamo fatto ancora una volta la parte del pubblico passivo: ma davanti all’immagine di un corpo che cade, di una persona comune come tutti noi, qualcosa ci chiamava in causa con più efficacia.

In due anni di devastazione nella Striscia di Gaza, ogni giorno sono continuate ad arrivare fino a noi le immagini di esplosioni e attacchi. Ma non solo. Mi viene in mentei Renad Atallah, una ragazzina palestinese di 11 anni che ha cominciato a pubblicare video di ricette realizzate sul tetto di casa sua. Una volta mi ha raggiunto l’immagine di un matrimonio e poi quella dei bambini che completamente vestiti fanno il bagno in mare prima che anche questo venisse vietato alla popolazione. Immagini piene di vitalità insieme a quelle di uomini che piangono, di bambini che portano sulle spalle altri bambini, di madri che cercano i figli tra le macerie in ogni declinazione del lutto e della sofferenza. 

Nella trasposizione mediatica di un episodio bellico è la prima volta che ci arrivano così tante immagini direttamente dalle vittime coinvolte. Tanto più che nel caso di Gaza si tratta di un’operazione puramente offensiva portata avanti da un esercito a danno della popolazione civile, e protratta per mesi in massacri e devastazioni. Parafrasando Greta Thunberg, per due anni siamo stati spettatori di un genocidio via streaming, denunciato in vasta scala da chi lo sta subendo. 

Durante una chiacchierata, Maaza Mengiste – autrice americana di origini etiopi che nei suoi libri si è sempre occupata di colonialismo – mi ha fatto notare che il popolo palestinese, specie attraverso i social, non ha voluto mostrare al mondo solo il suo dolore, ma anche la sua voglia di vivere nonostante tutto. 

Ogni giorno i palestinesi e le palestinesi ci hanno chiesto di provare quello che provano loro tra le macerie e il desiderio di non lasciare la loro terra. Tutte quelle persone che da sempre la Storia annulla, rendendole invisibili, ci hanno parlato per due anni. Scrive Paola Caridi in Sudari. Elegia per Gaza (Feltrinelli): “I teli bianchi, cioè le sindoni che nell’antica e presente tradizione islamica avvolgono il corpo del defunto, si sono fatti strada in modo dirompente nella nostra vita, nel piccolo raggio d’azione dei nostri occhi, spesso distratti. Sono comparsi all’improvviso, uno schiaffo nel pieno del nostro sonno morale. All’improvviso alla nostra vista, rompendo un’amnesia di comunità durata troppo a lungo. In silenzio ma con una progressione inesorabile”. Abbiamo visto e vediamo i corpi, non solo di chi muore ma anche di chi vive. Sentiamo le voci delle vittime in tempo reale. E i corpi chiamano in causa altri corpi: i nostri. Si appellano alla nostra umanità attraverso l’immedesimazione.

Però non è solo questo l’elemento di discontinuità. La passività inattiva di chi guarda è collassata quando altre persone comuni – i camalli di Genova e gli attivisti della Flotilla: quindi associazioni non-ufficiali – hanno deciso di agire. E lo hanno fatto partendo dall’Italia: a fine agosto a Genova era stata organizzata una raccolta di cibo e beni essenziali per la popolazione di Gaza; il 31 agosto le navi della Flotilla erano partite proprio da Genova, seguite nel pomeriggio da quelle salpate da Barcellona; e poi sono rimaste ferme a Catania, Siracusa, Portopalo. La Flotilla per la maggior parte del tempo in cui non è stata in mare è stata in Italia: in qualche modo ci appartiene, e innerva uno dei topoi narrativi più avvincenti da millenni: quello di Davide contro Golia. In un tempo anestetizzato anche politicamente, un tempo in cui le prese di posizione europee, ma soprattutto italiane di fronte a Israele tardano ad arrivare, l’azione è apparsa come una liberazione da ogni forma di passività – mediatica, civile, politica.

“Nella trasposizione mediatica di un episodio bellico è la prima volta che ci arrivano così tante immagini direttamente dalle vittime coinvolte. Tanto più che nel caso di Gaza si tratta di un’operazione puramente offensiva portata avanti da un esercito a danno della popolazione civile, e protratta per mesi in massacri e devastazioni”.

E poi c’è un altro fattore, più intellettuale ma altrettanto dirimente. Questa guerra è un assalto anche alle parole e alla memoria. Davanti a tanta efferatezza, siamo stati costretti a ripensare e ridefinire un termine come genocidio. Per noi europei una parola chiave della Storia del Novecento; la parola che sancisce l’indicibile e lo collocava nel passato ora riverbera nel presente. Genocidio è il monito, quello che non possiamo dimenticare proprio perché non si debba mai ripetere.

VOLEVAMO LIBERARE LA PALESTINA INVECE LA PALESTINA STA LIBERANDO NOI.

Tra i detrattori delle piazze c’è chi parla di adesione innescata dal non-pensiero, da una forma di superficialità impersonale. Io credo invece che l’appello ai valori irriducibili degli esseri umani sia stata la forza trainante del coinvolgimento. Quando si tratta di una dimensione universale – come la dignità umana contro la violenza e i soprusi – ogni persona si immedesima con la propria esperienza: non vede soltanto, ma sente. Betti Pedrazzi, che a quel festival indossava la kefiah, continuava a ripetermi come fossero eterogenee le persone incontrate nel corteo romano: famiglie, adolescenti, persone anziane.  Come a dire che certe questioni toccano chiunque e attivano la necessità incontenibile di reagire. 

Elias Canetti definisce enigmatico quanto universale il fenomeno per cui la “massa” d’improvviso c’è, là dove prima non c’era nulla. In questo muoversi collettivamente “tutti hanno una meta. La meta esiste prima che le abbiano trovato un nome ed è là dove il nero è più nero – il luogo dove la maggioranza è radunata.”

La piazza non esprime un pensiero – non nel senso che le persone che partecipano non lo abbiano, ma nel senso che ciascuna lo articola secondo coscienza, esperienza, età. Le piazze come questa esprimono prima di tutto un sentire che è anche un sentirsi spinti a fare qualcosa, contro ogni passività e spersonalizzazione.

Davanti ai corpi martoriati – offesi e indifesi – delle vittime, ogni manifestante ha usato il proprio corpo e ne ha fatto un corpo politico. È con i corpi che ci si rivolta e si fa resistenza. È solo con i corpi che si mette un argine alla Storia.

Gaia Manzini

Gaia Manzini è scrittrice e giornalista. Il suo ultimo libro è La via delle sorelle (Bompiani, 2023).

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