Loredana Lipperini
09 Giugno 2025
Nel mondo letterario, il romanzo “di trama” è da tempo accusato di essere banale. Ma più questo snobismo si diffonde, più dimostra di essere anacronistico e privo di senso.
Quali sono gli elementi di un libro che ci avvicinano o ci allontanano? La scelta, come ha raccontato benissimo Caterina Orsenigo in «Lucy sui mondi», di mettere il paesaggio in primo piano e non come sfondo dell’umano? L’aspirazione a raccontare chi siamo guardandoci da molto lontano, come fa Samantha Harvey in Orbital? La proposta di una saga familiare? L’autofiction? Il genere?
Evidentemente l’unica risposta possibile è 42, come nella Guida Galattica per gli Autostoppisti di Douglas Adams, perché all’interno di ogni tematica entrano libri diversissimi, e le saghe familiari includono I Buddenbrook come l’ultimo memoir sulle avventure della bisnonna.
Eppure, la risposta alla Domanda Fondamentale sulla Vita l’Universo e Tutto Quanto sembra essere, e non in pochi casi: la trama. La contestazione non viene solo da parte della critica, ma dai lettori: un commento sotto il mio articolo sulle recensioni parlava proprio “dell’invadente e scalpitante presenza della trama”.
Non essendo una critica letteraria neanche io, ma una semplice lettrice professionista, continuo a chiedermi perché si continui a usare una categoria che aveva senso, certo, ma nelle discussioni letterarie di cinquanta o sessanta anni fa (e anche prima, volendo). Per trovare a mia volta una spiegazione, sono andata a ripescare le ultime pagine di Ogni maledetta mattina di Alessandro Piperno, che risponde in cinque tematiche a un’altra Domanda Fondamentale sulla Vita l’Universo e Tutto Quanto, ovvero “Perché si scrive”. Nell’ultima parte, dedicata alla Conoscenza, Piperno cita La Storia di Elsa Morante. E scrive:
“Chi si ostina ad accusare La Storia di essere un romanzo passatista, nostalgico, pateticamente anacronistico non tiene conto – talvolta in perfetta malafede – delle necessità impellenti che animavano Elsa Morante. Per affrontare la crisi d’identità che il romanzo stava attraversando dall’inizio degli anni Settanta, per liberarlo dalle paludi dell’intellettualismo sperimentale in cui rischiava di infognarsi, occorreva tornare all’origine, e quindi scrivere un romanzone come La Storia: un’opera solo in apparenza tradizionale, in realtà irrorata degli umori dell’epoca in cui fu concepita. Ciò che allora, nel fuoco della controversia, sembrò ad alcuni un passo indietro, alla lunga si configurò come un vero e proprio rinnovamento”.
Per chi volesse informarsi sull’accoglienza riservata a La Storia c’è un libro molto bello scritto da Angela Borghesi per Quodlibet, si intitola L’anno della Storia 1974-75 e raccoglie quanto venne rimproverato, anche assai aspramente, a Morante. Inclusa la famosa lettera a «il manifesto» di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi, Umberto Silva che cominciava così:
“Di grandi scrittori reazionari corre voce ce ne siano ancora, certo però non pensavamo ci fosse ancora spazio per bamboleggianti nipotini di De Amicis. Se la storia è veramente storia delle lotte di classe, come certo pensano quelli che non sono uomini tristi o compagni illusi, la Morante proprio non vuole che ce ne si accorga. Nel suo arcipelago di miserabilini (nazistini, bambini, uccellini, fottutini, gattini, anarchicini…) i poveri sono talmente poveri che neppure hanno più il bene dell’intelletto (per fortuna dicono coloro che per questo li considerano creature poetiche, dalla Ginzburg alla Pagliuca)”.
“Non essendo una critica letteraria neanche io, ma una semplice lettrice professionista, continuo a chiedermi perché si continui a usare una categoria che aveva senso, certo, ma nelle discussioni letterarie di cinquanta o sessanta anni fa”.
A Morante, come ricorda Borghesi, si rimproverava molto dal punto di vista politico. Sul piano letterario erano almeno due i capi d’accusa, uno manifesto e uno, forse, meno ricordato. Quello manifesto è il rifiuto del pathos narrativo, dell’emozione provocata in chi legge, non proprio compatibile con la critica marxista: fu Italo Calvino, fra gli altri, a condannare “la tecnica letteraria della commozione”. Anche qui, erano altri tempi (e forse sono io che ho sempre sbagliato, perché mi commuovo anche su Joyce, ma pazienza).
Ma quelli erano tempi in cui era la trama a essere il nemico, e lo restò fino all’exploit de Il nome della rosa di Umberto Eco: ed era logico e coerente, perché in quegli anni vertiginosi, gli anni del gruppo 63, si voleva fare piazza pulita del passato letterario e della narrativa “lialesca”, così come veniva definite quella di Carlo Cassola e Giorgio Bassani. A posteriori, con molta ingiustizia: in alcuni casi, riconosciuta tardivamente. Erano anche anni, i Sessanta e i Settanta, in cui il Premio Strega andava (era il 1961) a Ferito a morte di Raffaele La Capria, che certo non era un romanzo tradizionale. Anni in cui si cercavano altre forme e altri linguaggi. Anche demonizzando la trama.
Ma fanno parte del passato. Come scrisse Roberto Cotroneo, “Le avanguardie sono un nodo della storia, e nello storicismo si giocano la loro partita. È tutto un andare avanti e indietro, tra utopie rivoluzionarie e battaglie di retroguardie, innovazione. Inutile raccontare i poveri di Pratolini o i partigiani di Cassola, la letteratura è nel modo di raccontarli. Sta tutta nel linguaggio. Solo che, e in questo Eco ha ragione, Joyce – che sul linguaggio aveva innovato moltissimo – non ha mai pensato di essere un autore di avanguardia. E probabilmente le avanguardie storiche si sono definite in quel modo quando hanno avuto la sensazione di essere troppo dentro il corso della storia, per non finirne massacrate”.
Naturalmente si ha tutto il diritto di continuare a prediligere testi che della trama fanno a meno: ma è un gusto personale, un credo critico, e non la fotografia di cosa sono i lettori e le lettrici oggi. Perché chi legge, oggi, non è soltanto colui o colei che manda in classifica Joël Dicker o Francesco Vidotto, e che si fa ammaliare dalle copertine con una fanciulla ritratta di spalle o di profilo o che ti guarda a occhi sgranati. Chi legge, per paradossale che possa sembrare, contiene davvero moltitudini, e può passare dal libroide ai libri lunghi di cui parlava Giorgio Manganelli, ed è in grado di apprezzare, per restare a due novità, Pathemata. O, la storia della mia bocca di Maggie Nelson e Never Flinch di Stephen King, amandoli e comprendendoli entrambi. In altri termini, l’equazione trama=narrativa e nontrama=letteratura o per meglio dire la divisione del mondo in Delly e Bernhard senza possibilità di sfumature non appartiene a questo momento storico.
Il punto, semmai, è il come si racconta, e dunque è la lingua, e la differenza fra un’opera e un’altra dovrebbe essere qui, nel linguaggio e nel modo in cui chi scrive lo usa. Certo che esistono decine e forse centinaia di libri piatti, scritti cercando di aumentarne l’accessibilità e la vendibilità, o confezionati secondo il filone dominante del momento. Come diceva vent’anni fa Alberto Arbasino, le “Liale del 2000” sono quelle e quelli “coi loro dialoghini e gestini bene ordinati nelle situazioncine confezionate in serie per le ‘signore mie’ che già a tredici anni ripetono ‘alla nostra portata’, come le nonne?”
Qui, ovviamente, bisognerebbe pure rivalutare Liala e Delly, sapendo benissimo, e rimarcandolo, che giocano in campionati diversi: ma per rimanere al punto, non è sulla presenza di una trama strutturata che un libro andrebbe buttato nel cestino. Temo che dietro la condanna della trama resti ancora la condanna di ciò che è popolare. Mi viene in mente una vecchia intervista a uno sceneggiatore di Topolino, Roberto Gagnor, seguita a una polemica assai sciocca innescata da Massimo Cacciari con la battuta: “L’hai letto su Topolino?”. Gagnor ricordò che le storie di Topolino non erano affatto semplici, ma avevano più livelli di lettura: “Forse dovremmo iniziare a ragionare in maniera meno settaria. Questa è una vecchia idea, molto sessantottina: che esista la cultura bassa e la cultura alta”. E, notoriamente, la seconda odia la prima, spesso a prescindere, e dimenticando che nella parola lettore sono incluse miriadi di categorie.
A dimostrazione cito una serie televisiva, Midnight Mass, diretta da Mike Flanagan. Si trova su Netflix e riesce a fare proprio quello di cui si lamenta l’assenza: moltiplicare la complessità, aumentare le porte d’ingresso alla narrazione, trasformare un romanzetto di partenza godibile ma abbastanza inutile (diciamo pure brutto) in un grande testo sulla comunità, sulla morte, sulla fede. Il punto di partenza, caro a infiniti romanzi del genere, era il classico apocalittico con vampiri, e umani coraggiosi che si oppongono alla distruzione generale. Nella serie, si trasforma in una vicenda in apparenza semplice: c’è un’isola di pescatori, Crockett Island, un paesone povero sfiancato da crisi economica, uno sversamento di petrolio che ha reso la pesca difficile e che ha comportato solo un risarcimento esiguo, poche prospettive. Eppure, sembra aprirsi uno spiraglio di speranza quando sbarca sull’isola padre Paul, un giovane sacerdote che sostituisce il vecchio pastore, che a quanto pare necessita di un periodo di riposo. Paul conquista i suoi parrocchiani parlando insistentemente di resurrezione: narra di morte e di vita dopo la morte, di fiducia in Dio e di una ventura uscita dalle tenebre. La Pasqua, certo. Ma non solo: quello che prospetta è un disegno divino di rinascita miracolosa per tutta l’isola.
Una storia di questo tipo si può raccontare in mille modi: piano, epico, sperimentale, in versi, in tutte le declinazioni immaginate in Esercizi di stile di Queneau. Essendo una serie si va in controtendenza e non la si costruisce sull’azione ma sui dialoghi e sui monologhi: non una parola lasciata al caso, e letteraria (ebbene sì) in più di un’occasione. E certe visioni, diciamolo pure, valgono un libro, se quel libro lascia indifferenti alla fine della lettura. Perché se la trama è portatrice di commozione, spiacenti, viva la trama e chi ha capito che non ha più senso rifiutarci di provare emozioni leggendo.
Loredana Lipperini
Loredana Lipperini è scrittrice, saggista, blogger, attivista culturale e docente. Il suo ultimo libro è Il Segno del Comando (Rai libri, 2024).
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