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Jacopo Mocchi

Hanno trovato la voce in prigione, oggi gli scrittori palestinesi Abu Srour e Bassem Khandaqji sono liberi

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Palestinascrittore

Nasser Abu Srour e Bassem Khandaqji sono due scrittori palestinesi che hanno passato buona parte della loro vita nelle prigioni israeliane. Liberati di recente e ora in esilio, li abbiamo incontrati.

Nasser Abu Srour e Bassem Khandaqji sono stati liberati lo scorso ottobre e deportati in Egitto al termine di una lunga mediazione diplomatica che ha portato alla liberazione di 1.950 detenuti palestinesi – molti dei quali arrestati senza accusa – e della consegna dei 47 ostaggi israeliani, di cui 20 vivi, dalla Striscia di Gaza. Durante gli anni di detenzione, Abu Srour e Khandaqji hanno pubblicato due libri: Il racconto di un muro (Feltrinelli 2024), con cui Nasser ha ricevuto il Prix de la littérature arabe 2025, e Una maschera color del cielo (Edizioni e/o 2024), che ha valso a Bassem l’International Prize for Arabic Fiction (IPAF), il più prestigioso riconoscimento letterario del mondo arabo.

“È quasi impossibile guardare attraverso una finestra ampia dopo una vita intera passata a scrutare da una fessura. Ci sono così tanti e infiniti dettagli in questa nuova vita. Tutto ciò che vedo sembra assieme torbido e travolgente. Prima, in prigione, i dettagli era come se non esistessero. Per 32 anni ho visto il mondo solo attraverso un buco minuscolo. Da quella stretta apertura vedevo il cielo, le galassie, l’universo. Il mondo fuori è grande. E la vista è difficile assorbire. Non riesco a dare significato a tutte queste cose. Non vedo chiaramente. Quando mi hanno liberato è stato sconvolgente. Uno shock per l’anima”.

Nasser Abu Srour ha 56 anni e più della metà della sua vita l’ha trascorsa in carcere. Ha un che di femminile nei movimenti e un sorriso innocente, quasi infantile. Ora si trova in Egitto, al Cairo, in un hotel cinque stelle lusso nella nuova area residenziale costruita dal governo egiziano nelle vicinanze dell’aeroporto internazionale. Un progetto avveniristico, lanciato nel 2015 con l’obiettivo di far fronte al sovraffollamento della vecchia capitale, dove oggi vive l’élite cairota assieme a stranieri in cerca di comfort. Migliaia di villette a schiera, l’una identica all’altra, riempiono il paesaggio. Alcune sono abitate – lo dicono i giardini ordinati – molte altre no. Tante quelle ancora in costruzione. Se non fosse per il suo arabo dal marcato accento levantino, sembrerebbe nato e sempre vissuto in questo angolo di città. È qui che il governo israeliano, di accordo con le autorità egiziane, ha deportato Nasser dopo la sua liberazione avvenuta il 13 ottobre. Libero ma in esilio, lontano da casa e dagli affetti. Una separazione forzata dal suo mondo durata 32 anni, 12 mila giorni.

Da giovane Nasser prese parte alla Prima Intifada, che tra il 1987 e il 1993 incendiò i Territori Palestinesi occupati. Fu arrestato nel 1993, condannato all’ergastolo – dopo una confessione estorta sotto tortura –, con l’accusa di complicità nell’uccisione di un agente dello Shin Bet, i servizi di sicurezza interna israeliana. Una vita, la sua, passata per buona parte dietro le sbarre, con lunghi periodi di isolamento e poi ricominciata grazie a una liberazione inaspettata. Negli anni Nasser, per la risonanza della sua storia, è diventato il volto e il simbolo di migliaia di detenuti palestinesi presenti nelle carceri israeliane. La prigione è il luogo dove, forzatamente,  ha scoperto la forza della sua immaginazione.

“La cosa bella della prigione è che ti dà la possibilità di entrare davvero in contatto con la tua immaginazione. È ad essa che bisogna affidarsi per dare una definizione, un senso alle cose; in carcere sei tu a creare il tuo mondo. Non ci sono limiti all’immaginazione, nemmeno la realtà lo è. Per scappare dalla mia angusta cella non potevo convincermi che la porta fosse davvero una porta: se l’avessi fatto, anche la mia immaginazione sarebbe rimasta bloccata tra quelle quattro mura. Così ne cambiavo l’uso. Una porta è fatta anche per essere chiusa; a me serviva aprirla. E l’ho aperta”. 

Nel microcosmo della sua cella, Nasser ha saputo trasformare una condizione di privazione materiale in una possibilità per l’immaginazione. “Ora non riesco più a dare significato a ciò che mi circonda. Sto cercando di ritrovare la mia libertà, di capire di nuovo come abitare il mondo. In carcere ero io il padrone della realtà, la piegavo al mio sguardo, oggi no”.  

Nel corso della sua detenzione, il muro della prigione diventa testimone degli spostamenti da una cella all’altra, interlocutore silenzioso dei suoi stati d’animo, elemento centrale dei suoi scritti. “Ero seduto nella cella e ho visto il muro. L’ho guardato e l’ho riconosciuto, perché mi aveva già accompagnato nel campo profughi di Aida, dove sono cresciuto. Anche lì c’era un muro, immateriale, che mi separava da Betlemme e che era lì a ricordarmi che non appartenevo a quella città. La prima cosa che ho fatto è stata disegnare un cerchio. Dentro ho scritto: ‘Addio vita’. Ho deciso che il mio rapporto con il muro sarebbe stato pacifico. Se combatti un muro, quello ti spacca la testa. Io non volevo passare un ergastolo a combatterlo. Così l’ho abbracciato e gli ho detto: tu mi dirai tutto quello che vuoi, e io ti dirò tutto quello che voglio. So che il tuo ruolo è escludermi  dal mondo, ma puoi anche proteggermi”. 

Il dialogo quotidiano con il muro diventa per lo scrittore palestinese un punto d’appoggio e la prigione un luogo da cui osservare il mondo. E lentamente, nel silenzio della cella e nella ripetizione quotidiana degli stessi gesti, la scrittura ha iniziato a prendere forma. “Senza dolore reale e profondo non so scrivere. Ne ho bisogno. E la prigione è dolore. Gioia e felicità sono emozioni superficiali. Il dolore invece attraversa tutto il corpo, affonda nel tuo stomaco, ti riempie. E per scrivere da quel posto, non devi temere il dolore: ti ci devi aggrappare, abbracciarlo, Avevo bisogno di isolamento e di un posto piccolo. Sono stato fortunato, lì in cella dolore e isolamento si fondono”. 

“Per scrivere avevo bisogno di parole. In prigione c’è un linguaggio specifico, diverso da tutti gli altri. Ti servono circa cento parole per sopravvivere. Un’intera lingua compressa in cento parole. È così che la prigione parla. Sono parole che si usano ogni giorno. Mattina, pomeriggio e notte. A volte alcune parole prendono il posto di altre, ma rimangono sempre cento parole. E mentre scrivevo ho capito che erano sufficienti, quelle cento, perché le parole non sono statiche: cambiano significato, si combinano tra loro e si trasformano; cento parole possono diventare sufficienti per costruire un racconto. Ho dovuto riconoscere la prigione come una geografia con un suo linguaggio specifico. Non potevo scrivere come gli altri, sarebbe stato un tradimento del muro. Tutto quello che ho scritto in prigione era fatto per essere raccontato e arrivare al di fuori delle mura”. 

Una scrittura per sottrazione, la sua. E per ampliare il vocabolario oltre alle cento parole della prigione è ricorso alla Storia e al passato, quando tra gli arabi della Penisola arabica, nonostante l’asprezza delle condizioni di vita, vi erano oratori, poeti e scrittori. 

“Nel deserto i ‘dettagli’ scarseggiano. Come facevano gli arabi a scrivere? Solo in prigione l’ho capito: scrivevano a partire dal vuoto. Non avevano nulla intorno a loro. Gli spazi pieni, come quelli delle nostre vite, soffocano la scrittura e non lasciano spazio all’immaginazione. Avendo a disposizione così tanto spazio, gli arabi lo hanno riempito di parole. Ho fatto lo stesso in prigione. Ho riempito il vuoto della mia cella. Così, scrivendo, il linguaggio si è espanso”. 

Poi l’incontro inaspettato con Nadia, avvocata che diventerà sua compagna, apre un capitolo nuovo nella vita dello scrittore palestinese. “Quando ho conosciuto Nadia vivevo in una cella con pochi punti di riferimento: erano loro a dare forma al mio linguaggio. Un’aggiunta o una perdita poteva aprire o restringere lo spazio della mia scrittura. Ma Nadia non era una limitazione, era una possibilità creativa. È entrata nella mia vita con speranze, aspettative, sogni – e io non potevo darle nulla. Per comunicare con lei avevo bisogno di una nuova lingua. Tutto ciò che ho scritto prima di conoscere Nadia era una cosa, e tutto ciò che ho scritto dopo un’altra: sono diventato più espressivo, più romantico. Era una tortura quando lei mi desiderava e io non potevo raggiungerla. Le sue richieste e la mia prigionia hanno creato un nuovo linguaggio, nuove metafore”. 

In carcere Nasser è stato capace di creare uno spazio e dentro quello spazio ha scritto la sua testimonianza. Nessuno sa ancora che forma prenderanno le sue parole senza quel muro davanti. Per la prima volta, dopo trentadue anni, è il mondo a chiedergli una lingua nuova.

Solo all’ultimo Bassem Khandaqji, 42 anni, ha saputo che quel bus su cui si trovava lo avrebbe deportato in Egitto assieme ad altri 153 palestinesi. Inizialmente ha pensato a un trasferimento di prigione, come di frequente accade con i detenuti palestinesi. Poi, poco prima di scendere dal pullman, un’agente dei servizi segreti israeliani gli ha comunicato che sarebbe andato in esilio, minacciandolo di morte nel caso fosse tornato a far parte della resistenza palestinese.

Oggi siede in un caffè nel quartiere di Zamalek, affacciato sul Nilo, uno dei più chic della capitale egiziana. Al tavolo con lui ci sono Nader Sadaqa e Mahmoud Baraka: il primo, membro della comunità religiosa dei samaritani, è stato arrestato nel 2003 come membro della resistenza palestinese e liberato lo scorso ottobre; il secondo, poeta, evacuato nel 2023 dalla Striscia di Gaza, è rimasto intrappolato nel limbo egiziano. I loro corpi emanano  un’energia particolare, che sembra diffondersi tra i tavoli dove gli studenti universitari consumano il caffè. Da qui la Palestina dista qualche centinaio di chilometri; sembrerebbe anche più vicina se non fosse per la spessa patina di smog che nasconde l’orizzonte e il tramonto tipico di queste latitudini.

La voce di Bassem viene continuamente interrotta dallo squillo dello smartphone. Ogni giorno gli arrivano centinaia di chiamate da parenti e amici. La sua famiglia è nella lista nera israeliana, che colpisce la cerchia di chi è accusato di un reato politico limitandone la libertà di movimento. Per questo non ha ottenuto il permesso di uscire dai confini  israeliani. Il fratello Youssef gli ha regalato un iPhone 17, ma anche solo maneggiarlo e utilizzarlo per  le operazioni più semplici gli sembra un’impresa titanica dopo vent’anni di “pausa” dal mondo. D’altronde, i riferimenti di Bassem appartengono a un passato che non esiste più. Lo si intuisce dai ricordi calcistici, rimasti fermi agli inizi degli anni Duemila.

Bassem è stato arrestato il 2 novembre 2004 con l’accusa di aver preso parte alla preparazione dell’attentato avvenuto al mercato di Carmel, nel cuore di Tel Aviv. Nell’attentato, compiuto da un giovane di sedici anni che si fece detonare, sono state uccise tre persone. L’operazione fu rivendicata dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un’organizzazione di orientamento marxista-leninista. Fonti palestinesi riportano invece che il suo arresto sarebbe legato alla sua partecipazione alla Seconda Intifada tra 2000 e 2005.

La scrittura si è rivelata fin dall’inizio una risorsa che per vent’anni lo ha aiutato ad andare avanti. “Dopo che hanno finito di interrogarmi, ho deciso di scrivere. Ho scoperto che la scrittura era una forma di protezione. Quando il prigioniero palestinese decide di scrivere si trasforma da prigioniero comune ad osservato speciale. I carcerieri cercavano di proibirci di scrivere, di portarci via i fogli e la penna. Io scrivevo di nascosto attorno alle 4 o alle 5 del mattino, una sorta di rituale segreto. Scrivere in una condizione di pericolo, di nascosto, è qualcosa di davvero incredibile”. 

La sua formazione e la sua scrittura sono debitrici degli studi postcoloniali: Edward Said e Frantz Fanon gli autori che più di tutti hanno orientato il discorso sulla colonialità. E non manca nemmeno Antonio Gramsci tra le influenze decisive per Bassem. “Negli ultimi due anni il significato delle parole di Gramsci e il suo quaderno mi hanno aiutato e difeso. Grazie a lui ho creduto di più in me stesso e nelle mie parole. E ho pensato, tra me e me, che un giorno, da uomo libero, avrei potuto raccontare la mia storia”. 

L’ultima prigione in cui Bassem è stato recluso è stata quella di Ramon, un penitenziario di massima sicurezza incastonato tra le rocce del deserto del Negev. “Dopo il 7 ottobre non avevamo a disposizione né penne, né fogli, né libri. Niente di niente. Solo qualche tozzo  di pane. E con quello dovevamo sopravvivere. Ci hanno tolto tutto. Abbiamo fatto molti scioperi della fame al solo fine  per ottenere condizioni dignitose dentro la prigione. Ho passato 42 giorni a pane e acqua solo per aver avanzato alcune piccole richieste: penne, fogli, un po’ di cibo… Ma ciò che mi rende sereno è sapere che non userò mai contro di loro i loro stessi metodi. Ho detto ai miei amici in prigione: non dobbiamo imitare chi ci opprime. Dobbiamo riconquistare la nostra umanità”. 

Negli ultimi due anni, migliaia di palestinesi sono stati sottoposti a trattamenti simili, come denunciato dalle organizzazioni internazionali. “Scrivere in prigione è proibito. L’ho fatto nascondendo le pagine in altre celle, mai nella mia. E per far uscire le mie parole senza rischi nascondevo in bocca – agli angoli, sotto la lingua, tra i denti – dei fogli sottili e li consegnavo ai miei parenti durante le visite. Oppure, sempre durante i colloqui con la mia famiglia, inserivo i miei fogli nei dolci e nelle caramelle che mi portavano. Ho vinto io. Non sono riusciti a prendersi le mie parole”. 

“La scrittura si è rivelata fin dall’inizio una risorsa che per vent’anni lo ha aiutato a restare ad andare avanti. ‘Dopo che hanno finito di interrogarmi, ho deciso di scrivere. Ho scoperto che la scrittura era una forma di protezione'”.

Quando le parole riuscivano a raggiungere il mondo esterno era il fratello Yousef a farsene carico, proteggendole con la cura che si riserva a una forma di vita fragile e delicata. È così che il suo romanzo più celebre, Una maschera color del cielo, ha visto la luce. In carcere, Bassem ha completato un master in Studi Israeliani all’Università di Gerusalemme, imparando l’ebraico a menadito. Ha preso così forma una nuova consapevolezza, alimentata anche dallo studio della letteratura israeliana. “Esiste un grande stereotipo nella letteratura israeliana sulla relazione tra israeliani e palestinesi. La mia presenza come palestinese sotto occupazione, dentro il discorso israeliano o nella letteratura, è una presenza muta. Leggendo i loro libri e studiando la loro cultura ho scoperto che gli israeliani e gli intellettuali sionisti silenziavano la mia voce, così ho deciso di seguire una strada diversa. Per questo motivo nel mio libro do spazio alle parole degli israeliani. È un modo per confrontarmi con loro sul piano dell’etica, nella cultura e nell’identità, evitando il ricorso alla violenza”. 

E questo tentativo non è passato inosservato, tanto da suscitare reazioni inaspettate. “Alcune guardie di sicurezza hanno letto alcune pagine del mio libro. Sono rimaste sorprese e mi hanno chiesto: ‘Come ha fatto uno come te a scrivere? Non sei nemmeno un essere umano. E com’è che sai così tante cose su di noi? Come hai potuto parlare della memoria dell’Olocausto dentro al tuo libro? Come hai osato farlo?”. 

La sua riflessione sull’alterità lo porta anche a interrogare la produzione letteraria palestinese in cerca di risposte. “Il mio progetto oggi è scrivere letteratura anticoloniale dentro il contesto coloniale. Ne ho parlato anche con il mio amico Nasser Abu Srour. Voglio distruggere, attraverso la scrittura, tutti gli stereotipi – da entrambe le parti. Anche nella letteratura palestinese la presenza dell’altro, dell’israeliano, del sionista, dell’ebreo, è purtroppo uno stereotipo, qualcosa di molto misero. Non abbiamo mai lasciato che l’altro parlasse nei nostri testi, che si presentasse ai lettori arabi e palestinesi. Questo è uno dei miei principali obiettivi, e continuerò concentrarmi sullo scrivere dentro quel contesto. Scrivere in prigione è stato un atto di resistenza. Se avessi saputo che i miei scritti avrebbero toccato così tanto le persone, lo avrei fatto prima. Avrei usato le parole invece dei proiettili”.

Jacopo Mocchi

Jacopo Mocchi è un reporter freelance italiano, esperto di Islam e Medio Oriente. Collabora con «L’Espresso» e «il manifesto».

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