Giorgia Sallusti
11 Marzo 2025
Partito la prima volta per il Tibet nel 1937 dopo aver letto un annuncio sul giornale, l’antropologo Fosco Maraini ha viaggiato per tutta la vita. Con la sua Kodak ha fermato mondi che ci appaiono ancora misteriosissimi, raccontandoli tra acume etnografico e divertimento.
È il capodanno del 1937. Fosco Maraini è un venticinquenne fissato con lo sci. Si trova a Misurina, sulle Dolomiti, e si sta allacciando gli scarponi quando l’occhio gli cade sul foglio di giornale che aveva usato per incartarli. Un annuncio spiegazzato avverte che il professor Giuseppe Tucci sta partendo per una spedizione di ricerca in Tibet, alla scoperta di religioni, storia e archeologia di quel paese lontano a lungo rimasto chiuso agli stranieri. Maraini molla gli scarponi, afferra penna e calamaio e scrive una lettera a Tucci, proponendosi come fotografo (la fotografia, oltre agli sci, è un’altra sua fissazione). È fortunato: Tucci non sa dove come si adoperi una macchina fotografica, e il suo solito compagno d’avventura, il capitano Ghersi della Regia Marina, è impegnato altrove. Maraini ottiene l’incarico, e si prepara per un viaggio che, forse appena lo sospetta, gli cambierà la vita. Da allora sarà sospinto da una tensione all’avventura che non si attenuerà mai, “una curiosità di vedere” che ha avuto però un avvio “casuale in modo incredibile”.
Tucci dal Tibet riporterà indietro un gran numero di manoscritti inestimabili a testimonianza di quanto orizzonte – religioso, storico, artistico – c’era ancora da svelare all’Occidente. Io quei manoscritti li ho osservati spesso, erano conservati in un fondo apposito dell’IsMEO, l’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente fondato proprio da Tucci con Giovanni Gentile nel 1933, poi diventato IsIAO (Istituto Italiano per L’Africa e l’Oriente) una volta fusosi con l’IIA, Istituto Italiano per l’Africa, e infine chiuso in liquidazione coatta amministrativa nel 2012. Ci ero finita mentre ancora studiavo alla Sapienza e mi specializzavo in arte dell’Estremo Oriente. Un lavoro all’IsIAO sembrava un sogno orientalista, eppure ero riuscita a entrare. Per anni ho lavorato nella redazione, litigando con i minuscoli caratteri del vocabolario di lingua cinese che poi pubblicammo, e nella scuola di lingue orientali che è stata per un po’ a viale Manzoni a Roma, muro a muro con il Museo storico della Liberazione. Il Museo nasce a via Tasso negli appartamenti utilizzati dalle SS sotto il comando dell’obersturmbannführer Kappler come luogo di reclusione e tortura per circa duemila antifascisti. La voce di corridoio riportava che anche i locali della scuola fossero stati usati dai nazisti, e soprattutto dai loro informatori che salivano per una tromba di scale nascosta: la stessa che percorrevo io tutti i giorni. La sede principale dell’Istituto per l’Africa e l’Estremo Oriente, e quindi anche dei manoscritti tibetani, fu per anni un palazzetto storico a via Aldrovandi, che aveva un portone di legno su strada e un accesso privato direttamente dal Bioparco, proprio accanto alle gabbie in cui nutrivano i leoni. Dagli uffici si sentivano ruggire i grossi felini a orari regolari. Una volta tirammo fuori dalla biblioteca i manoscritti per mostrarli a Gianni Alemanno, all’epoca sindaco di Roma, in visita. Io ero incaricata di fare le foto.
Alla fine, due anni prima del crollo, me ne sono andata; i manoscritti sono finiti ora tra le collezioni orientali della Biblioteca Nazionale.
Anche io che rincorro Maraini parto dalle montagne. È a Lugano, in Svizzera, che comincio, da una villa dal suggestivo nome di Malpensata, incardinata com’è su un costone che si getta nel lago. Ospita il Museo delle culture che per circa sette mesi ha allestito una collezione delle fotografie di Fosco Maraini nella retrospettiva L’immagine dell’empresente, in occasione dei vent’anni dalla sua morte. La fotografia che apre al visitatore l’esposizione mostra due bambini che corrono in un paesaggio sconfinato, la via carovaniera sul lago Bham in Tibet. Maraini l’ha scattata in quel primo viaggio con Tucci nel settembre del 1937.
Da qui si parte per una spedizione nell’empresente dello scrittore fiorentino, un neologismo da lui stesso coniato. Non è l’unico, da linguista Maraini mette su la Gnosi delle fànfole, gioca con le parole inventate a metà strada tra il gramelot di Dario Fo e Umberto Eco che usa il “puffare” dei puffi per spiegare la semiologia: “sono simpatiche, no? Sono un gioco”, dirà Maraini.
L’empresente di cui scrive suggerisce l’attimo, l’immagine irripetibile còlta dall’occhio e dall’anima. Un richiamo all’ichigo ichie giapponese (“un momento un incontro”), manifestazione del valore dell’irripetibilità del momento presente. Ichigo ichie è un’espressione attribuita a Sen no Rikyū, maestro del tè e dello zen, ben consapevole di ciò che in giapponese ha mujōkan, la transitorietà di questo nostro mondo contingente. Maraini avrà modo di osservarla proprio in terra nipponica, lui che ci era andato a insegnare e si era ritrovato in un campo di prigionia dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.
Quel momento irripetibile, questo empresente, Fosco Maraini lo sapeva cogliere con la macchina fotografica, catalizzatrice di tutta la sua lunga attività. E Maraini fotografa e registra, osserva e ascolta come la sua formazione di naturalista gli aveva insegnato, oppure come il suo Citluvit, ovvero il Cittadino della Luna in Visita d’Istruzione sulla Terra, un personaggio inventato ma mica tanto, in cui lo scrittore si rispecchiava, perché «capire è il fine ultimo di tutta l’operazione». Il Citluvit esplora, scala montagne, studia e prende appunti: solo il viaggio fa da antidoto all’ottusità umana, l’«andare a vedere» come motto che Maraini stesso, se avesse potuto, si sarebbe scelto da affiggere sullo stemma di famiglia. Perché «l’uomo s’illude di guardare la vita con occhi suoi, e d’essere un individuo che giudica e classifica» ma in verità è la cultura in cui nasce e si forma che guarda, giudica, classifica al posto suo. La diatriba antica come il mondo, il naturalista Maraini la risolveva così: “Non esiste l’uomo di natura; esiste solo l’uomo di cultura”.
Per mezzo di una Kodak Brownie n. 2 con soffietto di pelle rossa, poi una Voigtländer Berghreil, e infine una Leica IIIa vinta come primo premio al Terzo Concorso Fotoradiofonico Ferrania del 1936 (la trovate in bella mostra all’interno di una teca a Lugano), Maraini si impadronisce dell’arte dell’immagine, prende dimestichezza con gli strumenti, sviluppa le sue foto, calibra le luci. Non c’è viaggio, in Italia e all’estero, che manchi di fissare su pellicola.
Nell’estate del 1934 si imbarca sull’Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina italiana, per far da maestro d’inglese ai cadetti. Da quell’esperienza otterrà il suo primo reportage di viaggio. La sala d’entrata della mostra è tutta sulla nave: coffe, sartiame e vele, e marinai. Al mare va e torna per tutta la vita, lo interessa il rapporto dell’uomo con l’acqua che lo circonda, lo impensierisce il rifiuto tutto italiano dei litorali. Tutt’altra relazione quella dei giapponesi con le coste, Maraini la annoterà dal 1938 e per i decenni successivi. Spiritualmente, dice, dal Medioevo in poi noi ci siamo legati al continente. L’Italia si protende nel mare come un molo, non a caso i geografi arabi la chiamavano “terra lunga”, eppure è a nord che, per qualche ragione, guardiamo. Le nostre case sono di solida pietra ben piantata a terra, come i fortilizi. L’attitudine verso l’acqua è di sospetto: il canale di Sicilia, braccio di mare che si traversa anche con piccole imbarcazioni, sembra insormontabile più delle Alpi. “Andare a Tunisi o a Valona, almeno per chi abita a Roma o nel sud, è un viaggio più breve che andare a Parigi o a Vienna, ma quanto sembrano più naturali le seconde destinazioni delle prime!” osserva Maraini. La via di terra ci unisce all’Europa e ai confratelli linguaggi indoeuropei, alla cristianità, a un mondo di industrie, a canoni che ci influenzano e a cui ci conformiamo, mentre il mare ci divide “dai Balcani e dall’Iberia, ma soprattutto dalle favelle semitiche, dall’universo dell’Islam, da un mondo sabbioso e torrido, spesso strano e incomprensibile”. Uomini del retroterra continentale sono discesi dalle Alpi e dalle porte del Friuli per invadere e abitare l’Italia, fermandosi solo davanti all’infida pianura d’acqua salata.
“È il capodanno del 1937. Fosco Maraini è un venticinquenne fissato con lo sci. Si trova a Misurina, sulle Dolomiti, e si sta allacciando gli scarponi quando l’occhio gli cade sul foglio di giornale che aveva usato per incartarli”.
Se in Italia l’uomo è giunto dalla terra ed è arrivato al mare come ultima tappa di un viaggio, in Giappone egli è nato dalle onde ed è arrivato sulla terra per poi abituarsi “controvoglia, e con aspetti che ancora dopo due millenni mostrano qualcosa di provvisorio, a vivere sul solido”. È solcando le acque che Maraini scopre di essere ancora capace di vivere, dopo l’esperienza nel campo di concentramento giapponese durante la guerra, quando con la Scopamare, «una barchina di appena cinque metri», naviga nel tratto di mare tra Portofino e Livorno.
Ma se il mare lo riporta alla vita, è la montagna che lo riempie di gioia. E il Tibet è il luogo in cui la montagna si fa mistica e soverchiante, un mondo himalayano “eccessivo, gigantesco, titanico e satanico insieme”, in contrasto con la natura bonaria delle persone che incontra lungo la spedizione.
È il 1937, dicevamo. Giuseppe Tucci prepara la sua sesta spedizione in Asia. Maraini invece torna a Firenze dopo le vacanze di capodanno. A casa però trova una lettera che lo convoca a Roma. Tucci lo vuole, partirà con lui e passerà i mesi estivi in India, Sikkim e Tibet. È il primo passo verso le altitudini meravigliose che si imprimeranno nel suo spirito prima ancora che sulle fotografie, l’incontro con la cultura tibetana e le imperscrutabili cime himalayane. Ci torna ancora con Tucci nel 1948, trovando però un paese diverso: il Tibet che conosce sta cedendo sotto la spinta del gigante cinese che nel 1950 invaderà la regione. Fa meno foto, ma più incontri, come quello con la principessa Pemá Chöki Namgyal, che sarà per lui un amore platonico e una compagna per lunghe corrispondenze via lettera, fino alla morte di lei a Lhasa negli anni Ottanta. La immortala in una foto con lo sguardo rivolto altrove, lontano, uno scrutare che supera l’osservatore e va oltre.
Ma è stato anche il suo talento, scomparire di fronte alle cose per lasciare che l’immagine raccontasse da sé. Ecco perché quello che si svela di Maraini alla mostra dell’empresente non va cercato nell’immagine, ma nel punto di vista: la posizione da cui sceglie di scattare. La fotografia che ritrae Pemá la segue lungo la linea dello sguardo che va oltre l’orizzonte, per suggerire lo splendore del panorama tibetano senza confini, “spazi smisurati nei quali si univano deserti arancioni, petraie disperate, specchi d’acqua di laghi vasti e silenziosi, nei quali si riflettevano montagne altissime coperte di ghiacci e di nevi”.
Su queste tracce mi avvio a cercare le stesse immagini di un empresente che è solo mio ma è innescato dal suo Segreto Tibet. Cerco nell’Amdo quei castelli famosi e superbi, detti dzong, e poi li trovo a Kumbum. Sembrano nascere “dalle rocce per generazione spontanea” più che per la mano dell’uomo. Mi fermo nei monasteri dai tetti d’oro e parlo con i monaci dalle tonache rosse e austere e i copricapi gialli, con un misto di cinese e di mediocre tibetano che ho provato a imparare all’università. A villa Malpensata, la sala delle foto dal Tibet rivela monaci intenti a leggere e catalogare sutra buddhisti, e a parte per il bianco e nero mi appaiono così come li ho visti alla stamperia di Labrang, dove giovani chierici stampano a mano su carta con matrici di legno e inchiostro nero lunghi sutra, che vengono poi conservati impilati sugli scaffali di legno dipinto di rosso e alti fino al soffitto del monastero. Maraini li fotografa mentre dipingono i thangka, manifestazioni del divino che si fanno pittura; ecco Tārā, la verde divinità della meditazione. Settant’anni dopo l’esploratore italiano, incontro anche io un maestro tibetano a Rebkong, nel Tibet orientale. Mi consente di seguire i suoi movimenti col pennello e di fotografarlo, mentre mi mostra come procedere nella pittura dai colori sgargianti. La qualità della fotografia non è nemmeno da considerare: è una mano imprecisa e frettolosa su una macchinetta compatta, niente a che vedere con l’artista Maraini. Ma il pittore e il suo thangka non sono diversi da quelli del 1937, tranne forse che il mio ha abbandonato la severa tonaca per una felpa acetata sopra ai jeans. Il Tibet che incontra Maraini e che vive nelle sue foto è una girandola di monaci, teatranti, pastori, principesse, edifici religiosi e casette, altipiani luminosi e monasteri soffocanti, cromatismi vivaci e horror vacui di un’arte senza vuoti.
L’orizzonte dell’Himalaya è il protagonista dei primi libri dello scrittore e fotografo. Nel 1939 esce Dren-Giong. Appunti di un viaggio nell’Imàlaia, nel 1942 Lontano Tibet o Chibetto, pubblicato a Tōkyō. Il successo italiano e internazionale di Segreto Tibet (che viene pubblicato nel 1951, edizioni Leonardo da Vinci e ora Corbaccio), convince l’editore Diego De Donato a commissionargli un’estesa ricognizione fotografica dell’Italia meridionale. L’idea è quella di fissare in un ricco album, con i testi di cui si è incaricato Carlo Levi, il crepuscolo di un paese rurale che l’industrializzazione postbellica avrebbe a breve cancellato. Maraini colleziona più di duemilacinquecento fotografie tra il 1952 e il 1953, cui aggiunge quelle scattate in Sicilia (qualche anno prima) e quelle del Lazio in alcuni viaggi personali.
L’obiettivo di Levi e De Donato era la denuncia delle condizioni di arretratezza del Meridione, che richiedevano un intervento immediato e deciso della politica. Maraini, invece, era interessato alla dimensione antropica: uomini donne e bambini al centro della loro cultura e della loro storia, l’architettura, il paesaggio, le occasioni quotidiane con le sue interferenze da fotografo divertito tra barbieri, ragazzini, carabinieri, astrologi e mercanti. Ne nasce un archivio vastissimo, eppure il libro non vedrà mai la luce.
Nel 1938 Maraini ottiene una borsa di studio dal governo giapponese e finalmente parte per quello che forse, oggi, resta l’ultimo immaginario esotico. Dirà poi che partiva per spirito d’avventura e per insofferenza, e sulla decisione «non agì solo l’attrattiva del punto d’arrivo, ma anche la repulsione del punto di partenza. Perché veramente nel ’38, con le leggi razziali, l’atmosfera in Italia era diventata così pesante che ero felicissimo di andarmene». Il Giappone, laico e misterico, rarefatto e caotico, lo si trova in tutti i suoi libri e, certo, anche nelle sue fotografie, dalla narrativa di Case, amori, universi ai reportage sulle Ama, le pescatrici di abalone (L’isola delle pescatrici), e sul Trono del Crisantemo su cui siede l’imperatore giapponese (L’agape celeste). Per gli appassionati di cronache reali, Maraini aveva avuto la fortuna di essere testimone in un’occasione unica: quando nel 1989 muore l’imperatore Hirohito e al suo posto sale al trono il figlio Akihito. In Giappone con incarichi di ricerca, con tempismo da reporter si trova in mezzo ai riti segreti e antichi della consacrazione di un nuovo sovrano, e non si fa sfuggire l’occasione di osservare e raccontare. Di Hirohito aveva perfino sentito la voce più di quarant’anni prima: era ad ascoltare la radio assieme a migliaia di giapponesi mentre l’imperatore, il 15 agosto del 1945, dichiarava la resa incondizionata alle forze alleate. Non l’aveva capito nessuno: Hirohito aveva pronunciato il discorso chiamato Gyokuon-hōsō (“trasmissione della voce del Gioiello”) in un giapponese arcaico e ricercato come si usava a corte. Una volta chiarito il testo, molti giapponesi si riversarono nelle strade vicino al palazzo imperiale. Le loro grida e i pianti erano di tanto in tanto interrotti dai colpi di pistola degli ufficiali dell’esercito che si suicidavano.
Anche l’esperienza giapponese è un’unione di cuori e spiriti affini, di incontri che restano impressi nella vita dell’antropologo italiano. “Zusammen und zu Füss, ‘insieme e a piedi’” è il modo in cui Maraini procede nei suoi viaggi terreni assieme ai colleghi e agli amici di cui si circonda lungo la strada, così da avere il tempo di “digerire le conoscenze”. Conosce anche Mishima Yukio, ma non lo frequenta troppo: “non mi piaceva quel suo modo di fare un po’ teatrale”. Teatrale davvero, visto che il brillante scrittore giapponese si suiciderà nel 1970 con un seppuku in diretta nazionale dopo aver pronunciato un discorso contro la costituzione.
Nel 1939, a ogni modo, forte di questa borsa di studio sostanziosa, si sistema a Sapporo, in Hokkaidō, in una delle residenze che l’università riserva ai professori. Qui per tre anni estremamente fruttuosi si dedica a ricerche sul campo. A catturare il suo interesse sono gli Ainu, le loro arti e la loro religione: questo popolo di origine siberiana che costituisce la più antica etnia del Giappone e mantiene – con fatica – ancora viva una parte dei propri costumi secolari. Nelle foto li ritrae affondare nelle nevi profonde di quest’isola giapponese settentrionale, oppure accanto ai focolari, nei momenti d’ozio e soprattutto attorniati da orsi (reali o intagliati),per loro simbolo dell’anima immortale della natura. Nella cerimonia iyomante l’orso sacrificato svela lo spirito che viene inviato nelle dimore celesti. Ritorna in Hokkaidō ancora nel 1953, nel 1954 e nel 1971, senza abbandonare mai il legame con la cultura Ainu.
Il Giappone costituisce il polo d’attrazione favorito di Fosco Maraini, quello a cui torna sempre fino all’ultimo viaggio, nel 1995. “Le città giapponesi, lo ripeto, sono infinitamente più fluide delle nostre, mutano di anno in anno, in un decennio possono presentarsi irriconoscibili”, sostiene l’uomo, cangiante come le metropoli che prova a eternare nelle sue foto. La pulsione all’eternità giapponese si riproduce attraverso il rinnovamento continuo e non la conservazione: la spinta in avanti come empresente perenne. Il fotografo ritrae un paese che cambia velocemente ma che rimane impresso nei suoi occhi, e quei lunghi giorni diventano l’impianto visivo di Ore giapponesi, memoir geografico e insieme raccolta di fotografie che colgono quell’attimo che scivola via, l’ichigo ichie, dagli anni Cinquanta ai Novanta del Novecento. Con un raffinato disincanto, la sua macchina fotografica carpisce in pieno il carattere di un paese, quello che Motoori Norinaga chiama Yamato-gokoro o Yamato-damashii, il “cuore giapponese”. Un battito che si può rintracciare in ogni cosa: nei dettagli quotidiani, nel sole che filtra dagli alberi, nei giochi di luce sull’acqua dei sentō (i bagni pubblici), nei neon colorati delle notti urbane. D’altra parte, scriveva sempre Maraini l’osservatore: “il Giappone è più Giappone di notte che di giorno”. L’effimero e il transitorio sono l’unica costante, il legno impera ancora, e i giapponesi sono lestissimi a tirar giù ciò che era stato eretto con fatica. Le città giapponesi vivono in perenne subbuglio, “come nulla fosse si svestono e rivestono d’orizzonti, simili a serpacci che seminano pelli ormai inutili nel bosco”. Maraini ci torna a intervalli di qualche anno, ed ecco che riconosce a stento i borghi, le vie, i quartieri: “quando penso al profilo di Firenze, immobile più o meno dal Seicento, mi vengono lacrime di gioia, o brividi di terrore – non so”.
Nel 1954 fotografa Hiroshima, schiantata nove anni prima dalla bomba atomica Little Boy (tre giorni dopo, Fat Man raderà al suolo Nagasaki). È lo stesso anno in cui al largo delle coste giapponesi gli Stati Uniti conducono esperimenti nucleari nell’atollo di Bikini. Il primo marzo in quelle acque naviga la Daigo Fukuryū Maru (‘Drago fortunato numero cinque»), una nave giapponese per la pesca al tonno. L’equipaggio è investito da un lampo improvviso, in lontananza una detonazione. Il lampo è l’esplosione di Bravo, la bomba H fatta esplodere dagli Stati Uniti come parte del progetto “Castle Bravo”, che prevede la sperimentazione di dispositivi termonucleari a fusione con combustibile solido: in poche parole, bombe nucleari. Bravo ha una potenza mille volte superiore agli ordigni sganciati su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945. Frammenti della barriera corallina di Bikini si disperdono verso l’alto all’interno del fungo atomico, le “ceneri della morte”, e si posano sull’oceano e sulle isole vicine contaminandole con la loro radioattività. Maraini è in Giappone, e nelle sue foto emerge la natura morta di quella “malattia atomica” che i giapponesi avevano imparato a conoscere, ed eccola nella fotografia Natura morta nell’era atomica. Ci provo io stessa a ritrarre questa morte che arriva dall’alto, viaggiando a Fukushima dopo il disastro nucleare del 2011. Il fall out atomico ha ricoperto tutto, ma il Paese nel terzo millennio – per fortuna e per sopravvivenza – risponde con protocolli di sicurezza e robot.
Dal mare impuro, ribollente di pericoli nucleari, Maraini passa dunque alle reti dei pescatori, alle rive giocose, ai sassi ricoperti di alghe e a quel reportage che più di tutti offre meraviglia. Con L’isola delle pescatrici ritorna all’acqua come forza vitale dello shintō, la religione animista autoctona, e alle sue protagoniste più fiere. Le pescatrici di molluschi sazae e awabi, si tuffano tra le onde e gli scogli di Hegurajima, o Hèkura come la chiama Maraini. L’avventura che lo porta sull’isola e la lenta conoscenza delle abitudini locali gli consentono di avvicinare le pescatrici, di conversare con gli uomini dell’isola, di comprendere e osservare senza importunare. Per fare certe riprese sottomarine, Fosco Maraini progetta e si fa costruire direttamente in Giappone le attrezzature che porta con sé a Hèkura. Di quelle macchine fotografiche rivestite di un’armatura resistente all’acqua si sono perse le tracce fino al 2007, quando fortunosamente sono state ritrovate ancora sigillate nella loro cassa originale in un mercatino dell’antiquariato di Kanazawa.
Una collezione ricca di fotografie che ritraggono donne immerse nelle profondità del mare vestite solo d’un perizoma chiaro e avvolte in una corda che le riporterà a galla. L’osservazione dell’etnologo italiano è vicina a quella di un biologo, e ancor più al sentire giapponese verso il mondo: «Classificare le ali di reconditi insetti, trascorrere pomeriggi interi a registrare le mosse d’uccelli o di pesci, seguire nelle rocce d’una grotta la storia d’un sommovimento antichissimo, ecco la versione moderata, up to date, d’un amore religioso per il mondo, d’un senso tradizionale e vivissimo dell’immanente». È in questo passaggio che dimostra che il divino in Oriente è come una rete a basso voltaggio che comprende tutto e a tutto si diffonde.
Dopo il mare delle donne Ama ritorna ai cieli altissimi del Karakorum, grazie a una spedizione del Club Alpino Italiano nel 1958. Forse questa salita al Gasherbrum IV è il momento più intenso della sua passione montana. L’anno seguente dà alle stampe il resoconto del viaggio, Gasherbrum 4°. Baltoro, Karakorùm. Maraini non si stanca mai degli scarponi, e in Italia viaggia avanti e indietro su Dolomiti, Alpi e Appennini. La montagna svela la vera faccia delle persone, come si usa dire di chi pratica la montagna che ce sont des vrais, “non hanno maschera”. Anche perché in montagna viene fuori la nuda natura. E la sua gente, di Maraini e di chi si è avviato a piedi con lui, è la stessa delle montagne di tutto il mondo: «dai compagni di cordata ai pastori, dalle grandi guide agli umili custodi dei rifugi, dai lama eremiti ai portatori balti, chitrali o sherpa». E io che provo a rincorrerlo dalla Svizzera, passando per il Tibet, la Cina, il Giappone e l’Italia, so che non potrò mai davvero raggiungere quest’uomo che è stato etnologo, naturalista, scalatore, fotografo, scrittore, poeta, scienziato e letterato insieme. Inarrivabile una simile pienezza di esperienze e di sguardi, a cui grata mi avvicino sui suoi libri. A futura memoria di una ricerca etnografica lunga una vita cominciata da un paio di scarponi.
Giorgia Sallusti
Giorgia Sallusti (Roma, 1981) è libraia, yamatologa, traduttrice. Scrive di libri e culture per Il manifesto e Altri animali di cui è anche editor, occupandosi di Giappone, oriente e femminismi.
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