Non era tra le favorite, ma la scrittrice sudcoreana nota per il suo libro del 2016 “La vegetariana” ha avuto la meglio su tutti. Il premio è l’occasione per scoprire (o rileggere) un’autrice sorprendente.
Il Nobel per la Letteratura del 2024 è andato alla scrittrice sudcoreana Han Kang, che l’Accademia di Svezia ha voluto premiare per “la prosa intensamente poetica che si confronta con i traumi storici e che espone la fragilità della vita umana”. In effetti, nel corso della sua carriera – iniziata nel 1993, a ventitré anni, con un libro di poesie –, Han Kang ha descritto con peculiare finezza e lievità la coercizione del pubblico sul privato, del chiassoso sul silente, dell’aggressivo sul mite.
Il suo romanzo più famoso è La vegetariana, pubblicato in Corea del Sud nel 2007 e vincitore, nel 2016, del Man Booker International Prize, uno tra i premi letterari più noti e prestigiosi al mondo. In Italia, il libro è stato tradotto da Milena Zemira Ciccimarra per Adelphi, che ha pubblicato anche la raccolta di racconti Convalescenza (2019) e i romanzi Atti umani (2017) e L’ora di greco (2023).
La vegetariana, che con le traduzioni in Occidente ebbe un discreto successo internazionale, racconta in tre tempi la storia di una giovane donna, Yeong-hye, che smette di mangiare carne all’improvviso, suscitando lo sgomento e l’ira delle persone intorno a lei. “Perché?” le domandano tutti. Ma Yeong-hye non intende (o forse non sa) dare spiegazioni. “Ho fatto un sogno” è l’unica risposta che fornisce. Così, quella che inizialmente sembrava una comune scelta etica assume presto le sembianze di un desiderio più radicale e intimo: quello di trasformarsi da persona a pianta, da essere umano a essere vegetale, per fuggire alla carnalità e alla violenza di chi – là fuori, chiassosamente – non comprende il suo rifiuto e il suo silenzio.
Questo scontro tra fuori e dentro, questo tentativo a volte benevolo a volte crudele di sfondare una parete che conduce all’intimità, è la chiave per interpretare tutta l’opera di Han Kang. Ne l’Ora di greco c’è un personaggio anziano e cieco (un riferimento evidente a Omero) che ha amato una ragazza sordomuta, e che insegna – in Corea del Sud – una lingua morta e incomprensibile. Sua allieva, un’altra donna che ha perso l’uso della parola. Atti umani è invece il racconto corale del massacro di Gwangju, avvenuto a seguito di una rivolta popolare scoppiata nel maggio del 1980 contro la dittatura Chun Doo-hwan.
Forse perché in realtà la sua scrittura non è (solo) generazionale e non è (solo) politica. A suo modo, per esempio, La vegetariana può essere letta come una riscrittura del mito di Filemone e Bauci, ma al contrario: se i due sposi della Grecia Antica desideravano essere trasformati in alberi solo dopo la morte, solo se uniti nel tronco e solo per vivere insieme in eterno, Yeong-hye vuole diventare pianta immediatamente per godere della solitudine. La sua frase “Ho fatto un sogno” è in fondo figlia del Bartleby di Melville (“Preferirei di no”), del paziente del dottor Galvan di Pennac (“Non mi sento tanto bene”) e del Mersault di Camus, un personaggio a cui Yeong-hye somiglia tanto. Insomma, nella nuova scrittrice Premio Nobel c’è il mondo classico che dialoga col contemporaneo, nonché l’Oriente che parla all’Occidente, e dice: “Sono silenziosa ma ho radici più profonde, e sto fiorendo”.